PARTE II – LA RICERCA EMPIRICA
6.1 Il contesto: aziendalizzazione e riforme
In Italia il trend di aziendalizzazione dell’università assume le forme di un processo non concluso, che si sta realizzando all’interno di una struttura accademica molto differente rispetto a quella americana. Solo mettendo in rilievo le peculiarità del sistema universitario italiano potremo quindi analizzare lo stato di avanzamento e i conflitti che vivono dentro e contro tale tendenza. Per farlo, cominciamo dai processi di riforma dell’istruzione superiore a livello nazionale ed europeo degli ultimi dieci anni, concentrandoci in particolare sul loro nesso con il mercato del lavoro. Come analizzato in sede teorica, anche in Italia la selezione non passa più principalmente per l’imbuto dell’esclusione collocato all’ingresso all’università – benché è evidente che i tassi di non iscrizione, di bocciatura ai test di ingresso nelle facoltà che lo richiedono e di abbandono restino molto alti –, ma tende a spostarsi verso meccanismi di inclusione differenziale. Pur con tutte le differenze esistenti – e che continueranno a mantenersi – rispetto al sistema di istruzione superiore americano, anche nel caso italiano assistiamo a un processo in cui la selezione sempre più passa attraverso la differenziazione qualitativa piuttosto che la restrizione degli accessi al sistema di istruzione superiore nel suo complesso. Questo era infatti il disegno della commissione Martinotti (qui di seguito illustrato da Moscati, che ne fu membro), istituita nel ’97 da Berlinguer con il compito di informare ed elaborare le linee guida della sua riforma:
«Il processo va nella direzione di reclutare sempre più persone, perché il processo di divisione in livelli o strati sequenziali segue la regola che dice tutti al primo livello, una parte minore al secondo, una parte ancora minore al terzo1. […] Non è più l’università di élite, che si poteva
avere fino agli anni ’60. Il ’68 coincide con la liberalizzazione degli accessi2, che arrivano
l’anno dopo, fino a quel periodo c’erano pochissimi studenti nell’università italiana e c’era una selezione selvaggia»3.
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Le statistiche di Maura Franchi relative alle opzioni di chi ha scelto di continuare l’attività di studio dopo la laurea restituiscono la differenziazione dei percorsi e la moltiplicazione delle agenzie formative: «Le modalità più citate sono nell’ordine il tirocinio (25,5%), la frequenza di corsi di lingue (17,9%), la collaborazione volontaria (17,0%), il master (14,7%), la specializzazione (11,4%), il praticantato (13,6%), i corsi di informatica (12,2%), la formazione
professionale (10,8%), lo stage (10,4%). Percentuali inferiori raccolgono altre tipologie, quali il dottorato di ricerca (3,4%) e altre attività sostenute da borsa di studio (3,2%), la laurea (1,4%)» (Franchi, M. (2005), Mobili alla meta. I giovani tra università e lavoro, Donzelli editore, Roma, pp. 199-200).
2 È interessante notare come Moscati indichi il ’68 quale anno di svolta. Dunque, la liberalizzazione degli accessi
sancita legislativamente nel ’69 non è altro che la presa d’atto dei mutamenti avvenuti e il rimodellamento
dell’istruzione superiore determinato dalle lotte e dai movimenti studenteschi che ebbero il loro punto di precipitazione mondiale nel ’68.
I problemi, nelle parole di Moscati, sono riconducibili a un vizio «illuministico» che ha impregnato le classi dirigenti e i think tank della riforma. Concentrarsi esclusivamente sull’architettura formale dell’università non ha permesso da un lato di mettere a fuoco il nodo nevralgico, ossia la didattica e la trasmissione dei saperi, dall’altro di confrontarsi adeguatamente con i processi di cambiamento produttivi e sociali. La formazione permanente, lungi dal divenire fonte di autonomia dei singoli soggetti, ha assunto le inquietanti sembianze della precarizzazione permanente:
«È stata vista solo dal punto di vista ingegneristico, di come costruire i percorsi. […] Qui c’è una componente illuministica che ha caratterizzato tutti e tutto, perché c’è stato un ottimismo della volontà assolutamente esagerato e trasbordante. L’ipotesi che non è stata dibattuta e chiarita abbastanza era che si dovevano approfondire le ragioni per cui si faceva una riforma che comportava un primo livello di tre anni invece che di quattro, assumendo che molti non andassero oltre, ma perché trovavano lavoro (e qui l’università non ci poteva fare molto, bisognava che la società nel suo complesso agevolasse questo), ma che poi potevano tornare a completare la loro preparazione in un tempo variabile a seconda del settore professionale nel quale si fossero nel frattempo inseriti, e dunque creare la post-grado come dicono in Spagna, cioè la formazione permanente, dove sarebbero tornati per periodi vari a seconda di una serie di riorganizzazioni dei processi lavorativi e produttivi. Però questo voleva anche dire che si poteva partire nell’elaborazione e nella trasmissione della conoscenza di un qualsiasi settore dall’ipotesi che non si presumeva di insegnare tutta la base della disciplina per poi favorire altri insegnamenti, ma solo una parte della base. […] Il resto uno o se lo fa da sé, o intrecciandosi con altre occasioni di formazione, o a un certo punto decide che carriera vuole fare e se gli servono gli approfondimenti oppure no. Da qui la funzione nel modello iniziale della laurea specialistica, che era per chi aveva intenzione di andare ad approfondire, consentendo di riprendere cose che aveva trascurato e completarle. Se poi voleva fare la carriera c’era il terzo livello, il dottorato, che doveva allargarsi molto di più»4.
Del resto, le statistiche mostrano con chiarezza il progressivo aumento delle persone che continuano il proprio percorso formativo anche dopo il conseguimento della laurea:
«La tendenza a prolungare la formazione dopo la laurea è in aumento: la percentuale di laureati impegnati in qualche tipo di attività formativa passa dal 66,8% tra i laureati del 1998 al 68% tra i laureati del 2002. […] Il ricorrente richiamo da parte dei mezzi di comunicazione alla sfasatura tra domanda e offerta di competenze e all’inadeguatezza del sistema dell’istruzione superiore rispetto alle cosiddette competenze richieste dalle imprese ha giocato un’altra parte. L’ampliamento dell’offerta formativa e la conseguente diversificazione dei titoli ha contribuito, inoltre, a diffondere l’importanza della specializzazione. Lo dimostra la crescita della partecipazione dei laureati ai master, che ha visto una forte accelerazione proprio negli ultimi anni»5.
Dunque, se è in generale di vitale importanza guardare oltre i nudi dati, nel quadro del processo di riforma dell’università lo è in modo particolare. Secondo Mario Morcellini, ad esempio, gli aspetti positivi del 3+2 consistono nella femminilizzazione degli studi e nell’entrata
4 Ibidem.
all’università di «tribù sociali» che prima ne erano escluse6. Seppure confermata dalle statistiche7, tale analisi cela tuttavia la più generale riconfigurazione gerarchica del mercato del lavoro e del sistema formativo. Donne e «tribù sociali» fanno il loro ingresso negli atenei innanzitutto grazie alle proprie istanze conflittuali e non per dono ricevuto dall’alto; in secondo luogo, vi accedono nella misura in cui la stessa formazione universitaria tende a una progressiva dequalificazione. Vi si soffermano in modo chiaro due intervistati:
«Portare più gente all’università può apparentemente sembrare una politica culturale democratica: di fatto, quello che si fa non è aumentare l’offerta di modo che un maggior numero di persone possano acquisire una preparazione valida e profonda, e quindi anche utilizzabile sul mercato del lavoro; quello che è accaduto è che si è portata più gente all’università perché tutti più o meno si laureassero, anche per il famoso meccanismo del finanziamento legato al numero dei promossi e dei laureati, si è abbassata la richiesta, si è lasciati a se stessi gli studenti, la laurea tende banalmente a diventare un pezzo di carta, e così gli studenti escono senza avere ricevuto quella preparazione e scolarizzazione a cui avevano diritto. Così, la selezione si trasferisce a livello successivo: chi può permetterselo frequenta un master, chi non può permetterselo resta con il suo titolo di studio di dubbio valore. Quindi, un’operazione che aveva una potenzialità democratica, o spacciata come tale, finisce per avere l’esito di un’ulteriore selezione di classe»8.
«Hanno preso la scuola superiore e ne hanno fatto una scuola media, ora stanno facendo dell’università un liceo, così possiamo continuare a dire che sforniamo laureati e siamo sempre più preparati, ma in tutta sincerità un ingegnere che esce ora credo che sappia di meno del perito di una volta»9.
Anche i dati sui redditi dei laureati dimostrano – dal punto di vista del rapporto tra università e mercato del lavoro – la devalorizzazione del titolo, tema che assume una particolare gravità in quello che Nicola Cacace ha definito il «paradosso italiano»10: «Il guadagno mensile netto, a un anno dalla laurea, dei laureati occupati non raggiunge i 1.000 euro (per la precisione 997 euro)11. Questo dato si colloca in una situazione di difficoltà più generale che vede i lavoratori italiani,
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Morcellini, M., L’attuazione della riforma e le prospettive di revisione degli ordinamenti didattici, relazione al convegno AIS-Facoltà di Sociologia, L’impatto della riforma universitaria del “3+2” sulla formazione sociologica, Roma, 12 dicembre 2005.
7 L’indagine AlmaLaurea 2006 sostiene in merito: «Fra i laureati si manifesta una sovrarappresentazione di giovani
provenienti da classi favorite dal punto di vista socioculturale e ciò avviene senza differenze evidenti fra le diverse aree geografiche. Ciò non toglie che anche fra i laureati dell’ultima generazione osservata 75 su cento acquisiscano con la laurea un titolo che entra per la prima volta nella famigli d’origine» (Cammelli, A. (2006), La riforma alla prova dei fatti, in Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea (a cura di), VIII Profilo dei laureati italiano. I primi figli della riforma, Il Mulino, Bologna, p. 23).
8
Intervista a Stefano, Milano, 21 aprile 2004.
9 Intervista a Marco C., Bologna, 7 luglio 2004.
10 Cacace descrive così la situazione italiana, in cui il basso numero di laureati convive – paradossalmente, appunto –
con una difficoltà a trovare lavoro molto più elevata rispetto a molti altri paesi (Cacace, N. (2002), 2010 Scenario delle professioni. Dialogo con Alessandro Sciorilli, Editori Riuniti, Roma).
11 Secondo le statistiche riferite al 2005, il guadagno medio di un laureato a un anno dal titolo è inferiore a quanto
percepisse nel 2004; al netto del costo della vita, è meno di quanto un neolaureato guadagnasse cinque anni fa (AlmaLaurea (a cura di, 2006), VIII Profilo dei laureati italiano. I primi figli della riforma, op. cit.).
laureati e non, percepire retribuzioni nette più basse di quasi il 19% rispetto al dato medio dell’Europa a 15, inferiori del 17,6% rispetto ai francesi e del 23,5% rispetto ai tedeschi»12.
Possiamo ora approfondire lo sguardo sui nessi tra riforma e mercato del lavoro, ovvero uno dei temi ritenuti centrali da parte dei legislatori che si sono succeduti negli ultimi anni. Nel quadro tracciato dalla nuova architettura curricolare e dalla strutturazione dei corsi si può da subito ravvisare una contraddizione: l’accentuata tendenza all’iperspecializzazione e la veloce obsolescenza delle materie e dei saperi trasmessi – come anche i dati sopra riportati sembrano dimostrare – sono nemici della formazione alla flessibilità e alla capacità di cambiare rapidamente mansioni e collocazioni, risorse indispensabili sul mercato del lavoro13. Al contrario, la forte
adattabilità richiesta può essere costruita attraverso un percorso formativo che miri alla complessità. La contraddizione tra un’università che predica flessibilità laddove produce la rigidità dell’iperspecializzazione, e il legame di ciò con i processi di precarizzazione, è evidenziato in modo convincente da Sergio Bologna: «Se la prospettiva del futuro è una prospettiva di permanente instabilità, all’interno della quale il “lavoratore della conoscenza” deve essere disponibile a mutamenti continui, non solo di carattere territoriale ma anche di carattere professionale, non si capisce perché l’ordinamento degli studi, sia di quelli secondari che di quelli universitari, non abbia cercato di rinnovarsi, ripensando i curricula e i metodi didattici. Per esempio, non abbia pensato di approfondire il metodo e l’ordinamento interdisciplinare. Si è proceduto invece in senso contrario, esasperando quella che è stata chiamata la com(de)partimentalization. Né si capisce perché l’università sia stata sempre più investita dalla filosofia della flessibilizzazione della forza-lavoro e dalla filosofia del “libero mercato”, che hanno colpito sia la struttura della ricerca sia quella della docenza. Il 50% delle ore d’insegnamento nelle università americane […] ormai viene svolto da personale precario, che spesso non ha nemmeno concluso gli studi universitari o post-universitario. La concorrenza tra università per procacciarsi iscritti e sovvenzioni per la ricerca ha portato dentro il mondo accademico una pletora di figure di specialisti di marketing e di sponsoring (oltre a veri e propri “faccendieri”), che […] ormai rappresentano il 40% del personale salariato o a vario titolo
12
Stanchi, A. – Trombetti, A. L. (2006), Laurea e lavoro. Tra aspettative degli studenti ed esigenze del mondo del lavoro, op. cit., p. 69.
13 Proprio su questo sembrano esserci vistosi ripensamenti rispetto al processo di riforma, a partire dalla statisticamente
dimostrata non «spendibilità» della laurea triennale sul mercato del lavoro: «Il terreno sul quale si giocherà la sfida lanciata dalla riforma risiede soprattutto nella spendibilità della laurea triennale, direttamente connessa con le competenze acquisite. Su questo tema vi sono posizioni assai differenziate: mentre gli atenei hanno attivato
numerosissimi corsi di laurea triennale, spesso mirati alla definizione di profili professionali di nicchia, poco coerenti con le richieste del mercato, sono numerosi oggi quanti sostengono, sia all’interno dell’università sia nel mondo del lavoro, che i laureati triennali debbano possedere competenze generali. Il presidente della CRUI, Piero Tosi, nel 2005 ha posto l’accento sul fatto che il mutare delle conoscenze e delle tecnologie rende obsoleto – o addirittura dannoso – qualsiasi eccesso di specializzazione nei processi formativi, posizione condivisa […] da numerosi studi internazionali» (Stanchi, A. – Trombetti, A. L. (2006), Laurea e lavoro. Tra aspettative degli studenti ed esigenze del mondo del lavoro, op. cit., pp. 112-113).
“ingaggiato” dall’università americana. L’accesa concorrenza interna per il posto vacante finisce per minare lo spirito di collaborazione, lo spirito di gruppo nei team di ricerca. Invece di una grande spinta di pensiero, di immaginazione, di innovazione, si assiste a un ripiegamento su se stessa dell’istituzione universitaria»14.
Tale impostazione, tuttavia, non può forse essere ricondotta – o almeno non in via esclusiva – a un’apparente irrazionalità del disegno di trasformazione dell’istruzione superiore. È proprio questa la contraddizione che molti intervistati evidenziano: «Non si può rendere maneggiabile il sapere, lo si può trasmettere e si possono insegnare gli strumenti per apprenderlo, ma non si può insegnare il sapere in pillole. Questo produce degli studenti che non riescono ad acquisire quei mezzi, quelle capacità analitiche, quelle modalità di apprendimento del sapere che, paradossalmente, sarebbero molto più utili proprio in una situazione di flessibilità e di precarizzazione, perché permetterebbe loro di gestirla più adeguatamente, di adattarsi meglio alla situazione, di apprendere più facilmente»15. Si può infatti sostenere che uno degli obiettivi impliciti dei processi di riforma sia proprio una sorta di formazione non a questo o quel lavoro precario, ma alla precarietà sans phrase. Essa passa attraverso l’imposizione di meccanismi fortemente disciplinanti, abbondantemente messi in evidenza dagli intervistati – dall’accelerazione dei tempi e ritmi di studio, agli obblighi di frequenza, ai crediti formativi. Una dottoranda illustra con chiarezza i dispositivi di precarizzazione della «fabbrica universitaria»: «L’università non deve fornire il tecnico, ma persone capaci di pensare; e per pensare non bisogna farlo in modo unidirezionale. Invece, quello che l’attuale università crea è proprio questa unidirezionalità del pensiero, perché precarizzando in maniera fortissima ci si trova allo sbando. Devi seguire le linee precostituite, non puoi andare in una direzione diversa. Ti dicono: tu sei precario e mi devi dare risultati nel tuo lavoro, devi produrre, e devi produrre quello che ti dico io e nei tempi che ti dico io. È come una fabbrica»16.
La precarizzazione, in altri termini, si presenta al contempo come mezzo e fine delle forme di controllo del lavoro vivo contemporaneo, come dispositivo e condizione permanente. Simili sono le conclusioni cui giunge l’analisi di Sergio Bologna:
«Il postfordismo o la cosiddetta knowledge economy hanno prodotto la superfetazione di un mercato della formazione pubblica e privata la cui sola funzione ormai è quella di produrre un essere umano che è un precario prima ancora di entrare nel mercato del lavoro e che solo per eufemismo viene chiamato “uomo flessibile”. Il postfordismo in tal modo ha trasformato una condizione lavorativa – che per sua definizione è modificabile in base a un rapporto di forza – in una caratteristica genetica. Il precariato non deve nascere solo al momento dell’incontro con il
14 Bologna, S. (2005), I “lavoratori della conoscenza” e la fabbrica che dovrebbe produrli, op. cit., pp. 27-28. 15 Intervista a Massimiliano, Firenze, 26 maggio 2004.
mercato del lavoro, deve essere costitutivo della mentalità della persona, deve essere inoculato nella persona come percezione del sé»17.
Complessivamente, nell’economia politica dei saperi, uno degli obiettivi delle pratiche di governance, o di governamentalità per usare una perspicua categoria foucaultiana, è di ridurre i soggetti precarizzati a stakeholder, in cui il problema non è l’imposizione della disciplina o l’esclusione del non normalizzabile, ma la compatibilizzazione delle istanze critiche e radicali all’interno di una griglia la cui intelligibilità è fornita dai meccanismi del mercato, della domanda e dell’offerta18. Anche in questo caso, la precarietà non riguarda solo le tipologie contrattuali o la condizione di impiego, ma la vita stessa dei soggetti, la percezione del sé e le loro modalità di relazione19.
In questo quadro, da parte dei «ricercatori precari» intervistati la valutazione dei processi di riforma dell’istruzione superiore è unanimemente negativa. Ci limitiamo a due citazioni, che esemplificano in modo preciso le considerazioni degli intervistati: «I moduli e i corsi di laurea sono esplosi, è diventato un supermarket, tutti si sono inventati i corsi di laurea più improbabili perché era conveniente alle logiche di potere, perché in questo modo ciascun gruppo di potere ha il suo corso di laurea da gestire e per il quale può richiedere posti, e ovviamente deve gonfiarli il più possibile. Gonfiando gonfiando, si è ora arrivati a una palla che rischia di esplodere»20; «Il processo di Bologna va nella direzione di una destrutturazione dell’università e una sua riduzione a centro servizi»21. Queste osservazioni tuttavia non implicano, nelle parole dei più, un atteggiamento nostalgico per il passato: «L’università di prima, nella diversità, faceva ugualmente schifo, era una sorta di repubblica platonica governata da quelli che le conoscenze le detenevano […] una struttura assolutamente autarchica e autocratica»22.
Il problema costantemente sottolineato nelle interviste è, semmai, quello di trovare le forme per contrastare ciò che viene appunto descritto come «aziendalizzazione» dell’università, processo
17
Bologna, S. (2007), Uscire dal vicolo cieco!, op. cit.
18 Cfr. Foucault, M. (2005), Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), op. cit., in particolare
Lezione del 21 marzo 1979.
19 Le modalità di relazione tra i precari sono efficacemente descritte da un dottorando di Firenze, in una singolare
comparazione con la logica preventiva adottata dai think tank dell’amministrazione Bush: «Nel mio dipartimento, al di là dei rapporti molto amichevoli, sono pochissime le persone con cui si parla veramente del lavoro che si fa, della propria ricerca e dei propri interessi in tranquillità: non so se qualcuno ha la sensazione che se lo racconta qualcuno glielo frega, oppure c’è del disagio di ciascuno rispetto al proprio lavoro e quindi non ci si confronta con gli altri […] Stamattina mi ha fatto molta impressione la battuta di una ragazza del secondo anno, durante una conferenza sulla guerra in Iraq, in cui c’era un americano consigliere di Bush che parlava della difesa preventiva, riassunta nella formula che se io penso che tu mi potrai minacciare un giorno, ti attacco subito. Questa ragazza mi ha detto: “io so che tu mi ruberai il posto da ricercatore quando finiremo il dottorato, quindi ti ammazzo adesso!” […] Ovviamente era una battuta, però non si sa come andrà a finire, ci sta che veramente poi ci troviamo a scannarci» (Intervista a Giulio, Firenze, 26 maggio 2004).
20 Intervista a Marco T., Bologna, 7 luglio 2004. 21 Intervista a Francesco, Bologna, 7 luglio 2004. 22 Intervista a Sonia, Roma, 8 luglio 2004.
che trova nelle riforme delle tracce rilevanti: nell’istituzione di un rapporto tra università e mercato del lavoro sotto il segno della precarietà, nella quantificazione e misurazione della produzione di saperi, nell’intensificazione dei tempi e ritmi di studio e di ricerca, nella dequalificazione delle conoscenze e del livello formativo. È attorno a questo intreccio complesso che si dipanerà la nostra analisi, per indagare i conflitti nel nesso tra aziendalizzazione dell’università e precarizzazione del lavoro accademico in Italia.