• Non ci sono risultati.

PARTE I – IL CONTESTO TEORICO

1.5 Una rivoluzione spaziale: la metropoli

L’analisi sull’emergere del lavoro cognitivo e precario è, almeno in nuce, l’intuizione di una completa ridefinizione della dimensione spazio-temporale del lavoro. In altri termini, si rompe la linearità degli spazi e dei tempi che connotavano il lavoro “normale”, disegnati attorno a fabbrica (in quanto luogo della produzione concentrata), quartiere e casa. I luoghi della produzione si diffondono spazialmente, mentre i tempi del lavoro eccedono i confini della rigidità scandita dai “cartellini da timbrare”. Bologna illustra in modo convincente la crisi della dimensione spazio- temporale che aveva connotato il periodo “fordista”: «La prima caratteristica del lavoro indipendente è la domestication del luogo del lavoro, è l’assorbimento del lavoro nel sistema di regole della vita privata, anche se i due spazi, dell’abitare e del lavorare sono tenuti distinti. […] La prima conseguenza è che l’orario di lavoro segue le abitudini, i cicli vitali, della vita privata»129.

Ritorniamo ora ad analizzare i tre fattori del Global Creativity Index elaborato da Florida, ossia Tecnologia, Talento e Tolleranza. La loro articolazione mette in discussione le categorie economiche classiche e restituisce bene la nuova dimensione spaziale in cui la produzione cognitiva si colloca:

«Gli economisti riconoscono da tempo la tecnologia e il talento come motori della crescita economica, ma tendono a considerarli alla stregua di elementi del processo produttivo più convenzionali, per esempio le materie prime. In altre parole, li vedono come parte di una riserva. Secondo questa prospettiva, a ciascun luogo corrisponderebbe una diversa riserva di talento o tecnologia, e questo spiegherebbe le differenze locali nel tasso di innovazione e crescita economica. Risorse come la tecnologia, l’esperienza [knowledge] e il capitale umano, però, sono fondamentalmente diverse da fattori produttivi più tradizionali come il territorio o le materia prime: non sono riserve, bensì flussi. Gli individui non sono legati indissolubilmente a un luogo: possono muoversi, e lo fanno. La tecnologia e il talento che gli individui portano con sé, dunque, sono fattori mobili che affluiscono da un luogo all’altro»130.

Per spiegare come mai alcuni luoghi riescano meglio di altri a generare, attrarre e coltivare talento e tecnologia, Florida appunta dunque l’attenzione sul fattore tolleranza, argomentandone il suo carattere decisivo in quella che lui definisce come «economia creativa»:

«Quando dico tolleranza, non intendo soltanto l’accettazione di diversi tipi di persone, benché naturalmente questo sia un punto di partenza importante. Le società davvero fiorenti fanno l’impossibile per essere aperte e accoglienti, e i luoghi che hanno più opportunità di mobilitare il talento della propria popolazione sono quelli che non si limitano a tollerare le differenze, ma dimostrano un’accoglienza attiva. Coltivare idee e spunti divergenti non è questione di political

correctness: è un imperativo per la crescite economica131. La mia ricerca individua una forte

correlazione tra luoghi aperti agli immigrati, agli artisti, ai gay e ai bohémien e inclini all’integrazione socioeconomica e razziale da un lato, e dall’altro luoghi che conoscono una crescita economica di livello superiore. Luoghi simili godono di una vantaggio economico, sia

129 Bologna, S. (1997), Dieci tesi per la definizione di uno statuto del lavoro autonomo, op. cit., p. 16.

130Florida, R. (2006), La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chi perde, op. cit., pp. 40-41. 131 Corsivo nostro.

perché sfruttano le capacità creative di un settore più ampio della popolazione, sia perché intercettano una quota più che proporzionale del flusso»132.

Nel capitalismo cognitivo, dunque, cambia completamente il ruolo dei luoghi, processo che potremmo tradurre nella riflessione sulla trasformazione radicale della città133. Attraverso i tradizionali strumenti di calcolo basati sugli incrementi e sui decrementi demografici, questa trasformazione è stata spesso interpretata come un processo di deurbanizzazione. Ma il problema è che la città conosciuta si è trasfigurata, al punto da rendersi irriconoscibile rispetto alle categorie di analisi tradizionali. Come evidenzia Guido Martinotti, «via via che la città si trasforma in metropoli cade la definizione netta della differenza tra città e campagna e attorno ai nuclei urbani originari si forma una ampia area indistinta, un “non-luogo urbano”. È nei comuni minori di questa area, e non nei comuni rurali non metropolitani, che si concentra la crescita urbana degli ultimi anni»134.

Dunque, la riscontrata stagnazione demografica a partire dagli anni Settanta nelle regioni megalopolitane individuate da Jean Gottmann negli Stati Uniti il decennio precedente135, la fine della concentrazione nella metropoli e l’apparente crisi della sua forza di attrazione centripeta, e gli analoghi trend riscontrati in Italia in modo diffusivo da Nord a Sud, con la perdita di popolazione dei grandi comuni a favore dei piccoli, non viene letto da Martinotti come un ritorno alla campagna o alla città. Al contrario, esso ci parla proprio di una messa in crisi della capacità dell’unità comunale di rappresentare adeguatamente il fenomeno urbano, e ancor più – suggerisce Martinotti – della fine della dialettica città-campagna:

«Si continua così a interpretare con le categorie mentali del passato (città e campagna, fuga dalla metropoli e ritorno al borgo) quella che è invece la dinamica chiave della trasformazione

metropolitana. La diminuzione della popolazione residente nelle aree centrali dei sistemi urbani

e la sua crescita nelle zone periferiche metropolitane o nei comuni esterni sub-metropolitani. Con la conseguente trasformazioni delle abitudini e dei comportamenti di centinaia di famiglie che devono adottare uno stile di vita metropolitana»136.

Ciò che si stava verificando era innanzitutto la crisi della metropoli “fordista”, nata a sua volta dal passaggio da una forma basata sulla vicinanza spaziale tra luogo di residenza e luogo di lavoro al crescente aumento del fenomeno del pendolarismo, radicato in una linearità spaziale degli spostamenti all’interno dello spazio urbano, e tra la città e le periferie – determinato appunto dalla linearità della mobilità della forza-lavoro tra lavoro, quartiere operaio, luogo di residenza. Martinotti ipotizza dunque la nascita di una «metropoli di seconda generazione», la cui dinamica-

132 Ivi, p. 41.

133 Sulle trasformazioni dei luoghi e dello spazio urbano, nel framework della globalizzazione e della new economy, si

veda Catalano, G. (2005), Reti di luoghi, Reti di Città, Rubbettino, Soveria Mannelli.

134 Martinotti, G. (1993), Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, op. cit., p. 14. 135 Gottmann, J. (1960), Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluri-città, Einaudi, Torino. 136 Martinotti, G. (1993), Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, op. cit., pp. 117-118.

chiave di mutamento è la diminuzione della popolazione residente nelle aree centrali dei sistemi urbani e la sua crescita nelle zone periferiche metropolitane o nei comuni esterni sub-metropolitani.

C’è un nuovo soggetto che nelle metropoli di seconda generazione si affianca agli abitanti e ai residenti, e le caratterizza: è il city user, il consumatore della città, colui che vi permane poco ma ne incrementa la crescita economica:

«Se perdono abitanti, i centri metropolitani e le città in generale si riempiono però di nuove popolazioni di consumatori metropolitani. Composta cioè di persone che non risiedono nei centri urbani e che, a differenza dei pendolari, non vi lavorano in modo stabile, ma vi si recano esclusivamente per consumare, come i city users oppure (come i businessmen) per brevi permanenze di affari che forniscono però l’occasione per consumi non di rado quantitativamente e qualitativamente consistenti. Queste nuove popolazioni sono al tempo stesso il prodotto e una delle componenti principali della trasformazione metropolitana, ma sfuggono alla osservazione sistematica con gli strumenti tradizionali dell’analisi urbana, tuttora puntati in larga misura sugli abitanti e in piccola parte sui lavoratori e pendolari, cioè sulle popolazioni che caratterizzano la città tradizionale e la metropoli di prima generazione»137.

Ma il soggetto della metropoli di seconda generazione, l’altra faccia del city user si potrebbe forse dire, non è altro che il lavoratore mobile, flessibile e precario, riassunto nelle due figure paradigmatiche (e per certi versi coincidenti) del migrante e del lavoratore cognitivo138. Sono i suoi movimenti, insieme a quelli delle merci e dei capitali, l’eccedenza della sua produzione rispetto alle coordinate spazio-temporali della metropoli fordista, che ne scandiscono la transizione, disegnando al contempo una nuova cartografia dei milieu della cooperazione cognitiva e dell’innovazione sociale e tecnologica139.

Ma c’è un’altra dialettica classica che salta completamente nella metropoli: quella tra centro e periferia. Lo possiamo leggere da due angolazioni. La prima è situata all’interno dell’area metropolitana: questa non si connota più per una sussidiarietà delle funzioni tra centro e periferia, ma sulla disseminazione delle forme di produzione e di comando, di un continuo spillover rispetto al centro. La seconda angolazione è globale. Detta in breve: rovesciando il punto di vista secondo

137

Ivi, pp. 15-16.

138 È in parte la figura che Ong chiama «nomade globale», benché la limiti a manager e professionisti, mentre potrebbe

essere assunta come paradigmatica del lavoro vivo contemporaneo e delle sue gerarchie: «I view the global nomad as an ultimate “city-resident”, a betwixt and between figure whose role is central to the emergence of the new techno- metropolis. The pied-a-terre status id more a state of political liminality than of citizen simulation. During his passage through the city, the expatriate is temporarily released from the social norms of citizenship, and his political origins are muted. As a resident in the megacity, the global nomad is in a space of innovation configured by multinational and denationalized interactions and encounters, the very conditions favored by global capitalism. The very ambiguity of status releases creative thinking and practices that contribute to the formation of new values desired by the information economy. For the globetrotting professional, the interstitial phase in a particular city is necessary step to the next occupational rung, perhaps back in the West. The megacity’s desire to prolong or stabilize her presence may even be read as a form of self-critique of the limits citizenship imposes on the accumulation of fast-moving capital and

innovation» (Ong, A. (2007), Please Stay: Pied-a-Terre Subjects in the Megacity, in Citizenship Studies, vol. 11, n. 1, p. 91).

139 Do, P. (2006), La volontà di sapere. Produzione di saperi e governance nei milieu universitari della società della

conoscenza, tesi di laurea presso la Facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma, anno accademico 2005/2006.

cui è l’occidente a mostrare ai cosiddetti paesi “non sviluppati” il loro futuro, assumiamo che il paradigma della metropoli, o delle «città globali» per usare la nota categoria di Saskia Sassen140,

vada cercato innanzitutto in quello che veniva chiamato “terzo mondo”. Si veda in merito la descrizione della Calcutta postcoloniale offertaci da Partha Chatterjee141, o quella di Shangai di Manuel Castells142, o ancora il Mike Davis che analizza il «pianeta degli slum»143. Nella ridefinizione della flessibilità disegnata dalle tecnologie neoliberali, poi, Aihwa Ong individua un riposizionamento del ruolo della metropoli, che diventano una sorta di hub per attrarre reti e soggetti produttivi. Dalla sua ricerca etnografica in Asia emergono linee di tendenza utili a descrivere un processo di trasformazione globale: «The “mega” in megacity here refers less to the sheer size of he urban population than to the scale of political ambition invested for he urban accumulation of foreign talent and creative know-how. Leading Asian cities carry the imprint of enormous state investments, and they are increasingly planned as sites for the capture of circulating global values. These milieus of interdisciplinary cross-fertilization attract mobile managers, professionals, and scientists who can help accelerate the accumulation of material and symbolic capital»144. È questo ad esempio il caso di Singapore, che dalle pagine di Ong emerge come un progetto di piattaforma nella catena del capitalismo cognitivo, in particolare nel campo delle biotecnologie145. Onde evitare pericolose semplificazioni, è bene precisare che il venir meno dialettica centro-periferia non significa l’omogeneizzazione dei luoghi; piuttosto, vuol dire la fine delle rigide divisioni tra macro-aree continentali e nazionali, insistendo invece sulla ridislocazione dei confini mobili dei centri e delle periferie all’interno dei singoli spazi metropolitani.

Su queste basi, proviamo ora a interrogare la forma-metropoli attraverso il concetto di «rivoluzione spaziale» utilizzato da Carl Schmitt in Terra e mare. Ecco cosa, con tale categoria, intende il giurista tedesco:

«Affinché si realizzi una rivoluzione spaziale occorre qualcosa di più di un approdo su un territorio prima sconosciuto. Occorre una trasformazione dei concetti di spazio che abbracci tutti i livelli e tutti gli ambiti dell’esistenza umana»146.

In altri termini, non è sufficiente che ci sia un’élite di dotti ed eruditi scienziati che elabori nuove scoperte; una rivoluzione spaziale si dà solo quando questo livello incontra, o meglio è il prodotto di una trasformazione radicale delle forme di vita, di cooperazione e di produzione. Schmitt descrive così la rivoluzione spaziale del XVI e XVII secolo, la conquista europea del

140 Sassen, S. (1997), Città globali: New York, Londra, Tokyo, Utet ,Torino. 141 Chatterjee, P. (2006), Oltre la cittadinanza, Meltemi, Roma.

142 Castells, M. (2002), La nascita della società in rete, op. cit. 143 Davis, M. (2006), Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano.

144 Ong, A. (2007), Please Stay: Pied-a-Terre Subjects in the Megacity, op. cit., p. 83.

145 Ong, A. (2006), Neoliberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, op. cit. 146 Schmitt, C. (2003), Terra e mare, Adelphi, Milano.

«nuovo mondo», che è anche processo di colonizzazione: è la costituzione di un nuovo nomos della terra – nel suo triplice significato di presa di possesso e conquista, di divisione e spartizione, di produzione e consumo. Nomos come ordinamento fondamentale, dunque, che è per Schmitt un ordinamento spaziale. Contemporaneamente, in mare (con il dominio britannico) si compiva l’altra fondamentale spartizione del pianeta: «L’ordinamento della terraferma consiste nella suddivisione in Stati; il mare aperto invece è libero, cioè esente da confini nazionali e non soggetto ad alcuna sovranità territoriale. […] È questa la legge fondamentale, il nomos della terra in quell’epoca»147. Il dominio britannico sul mare, sostiene ancora Schmitt, non è semplicemente frutto del suo potere imperiale: è stato preceduto e spinto dalla diffusione delle imprese dei corsari e dei pirati, alternativamente premiati dalla Corona per aver aperto nuovi spazi, o duramente repressi per essersene riappropriati. Viene qui descritto, dal punto di vista del grande conservatore, quello che Linebaugh e Rediker ci hanno raccontato ne I ribelli dell’Atlantico. L’isola britannica cessa di essere un frammento d’Europa; essa – argomenta Schmitt – poteva prendere il largo, deterritorializzarsi e, quale metropoli di un impero marittimo di dimensioni mondiali, cambiare luogo, magari spostarsi nell’India colonizzata o altrove, senza per questo perdere il suo potere.

Su queste basi, possiamo dire che oggi la metropoli si configura come il frutto di una nuova rivoluzione spaziale, che ha le sue radici nelle profonde trasformazioni produttive, delle forme di lavoro, di vita e di cooperazione degli ultimi decenni. Lo spazio territoriale diventa immediatamente uno spazio globale, in quanto si trasforma (con modalità e gradazioni di scala estremamente differenziate) in un prisma attraverso cui è possibile scorgere la complessità della composizione produttiva transnazionale. Questa è la metropoli, paradigma e radicamento materiale della globalizzazione. Essa, in quanto collocata in un flusso di informazioni, conoscenze e saperi, di rapporti di cooperazione e sfruttamento, può «deterrestrizzarsi» e diventare modello riproducibile nello spazio globale. Questa è Singapore, ad esempio, la «Boston dell’Oriente», che diventa un incubatore di business per gli «studenti-imprenditori» che vogliono competere globalmente nel «mercato delle idee»148.

Cambia dunque il punto di vista, e attraverso questo si riarticola anche la sovranità, in modo analogo alla trasformazione del XVI secolo descritta da Schmitt, che fece di «un popolo di pastori […] un popolo di figli del mare»:

«Fu una trasformazione fondamentale dell’essenza storico-politica dell’isola stessa, e consisteva nel fatto che la terra, adesso, era vista ormai soltanto dal mare, mentre l’isola si trasformò, da frammento staccatosi dal continente, in una parte del mare, in una nave, o, meglio ancora, in un pesce. Una visione della terraferma che avvenga coerentemente dal mare, puramente marittima, è difficilmente comprensibile per un osservatore territoriale. […] Il linguaggio corrente costruisce le sue definizioni del tutto spontaneamente in base alla terra. Chiamiamo

147 Ivi, p. 88.

semplicemente “la nostra immagine della terra” l’immagine che ci facciamo del nostro pianeta, dimenticando che se ne può avere anche una “immagine del mare”. […] Pensando a una nave in mare aperto la immaginiamo come un frammento di terra che solca le acque, ossia come un “frammento galleggiante di territorio nazionale”, così come la si definisce nel diritto internazionale. […] Per l’uomo di mare tutte queste sono solo metafore completamente false, scaturite dalla fantasia di terricoli. Una nave non è un frammento di terra galleggiante così come un pesce non è un cane che nuota»149.

Alla rivoluzione spaziale deve allora corrispondere una rivoluzione del punto di vista. Dunque, l’analisi che in questa ricerca si condurrà sul lavoro cognitivo, focalizzata sulle trasformazioni dei sistemi di istruzione superiore e sui ricercatori precari, assumerà come proprio punto di osservazione la metropoli, in quanto spazio continuamente disarticolato e riarticolato dai processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione del lavoro vivo e dei capitali, dei flussi tecnologici e delle merci150. La classica forma del luogo, con i suoi confini perimetrati e definiti (siano essi quelli della città o dello Stato-nazione), viene infatti messa in discussione dallo spazio metropolitano. In esso la tendenziale sovrapposizione tra frontiere, in quanto linee mobili e continuamente ridefiniti, e confini, cioè divisioni rigide, non significa la scomparsa di questi ultimi. Al contrario, proprio nella misura in cui i confini si fanno labili, ciò implica la necessità sistemica di una loro continua produzione e imposizione artificiale. Proponendo un’ipotetica equazione sulla base del testo schmittiano, potremmo dire che lo spazio metropolitano sta al luogo, come il mare sta alla terra.

Da ciò deriva pure, come sottolinea ancora Martinotti, che la «metropoli di seconda generazione» è «una città fragile che fonda la sua sopravvivenza e i suoi successi sul presupposto di un contesto economico a elevata produttività e intensità di scambi. Non è difficile immaginare che cosa possa accadere ai grandi sistemi metropolitani in genere, e al sistema metropolitano europeo in particolare, in condizioni di prolungata crisi o peggio ancora di forte recessione economica»151. È proprio quella fragilità, mescolata al giudizio negativo sull’anonimato che la metropoli consente, a connotare l’analisi di Lewis Mumford, nella nostalgia per l’ordine comunitario e della città: «In realtà, i vantaggi della metropoli quale nascondiglio – vantaggi che gli amanti illegali ed i trasgressori più violenti delle leggi e delle convenzioni hanno in comune – non sono la minima delle attrazioni che fanno accorrere i visitatori dalle altre regioni del paese. Se uno ha qualcosa da nascondere, il luogo adatto è fra un milione di persone. L’anonimato della grande città, la sua impersonalità, sono un incoraggiamento effettivo ad ogni azione sia a-sociale che anti-sociale»152.

149 Schmitt, C. (2003), Terra e mare, Adelphi, Milano, pp. 95-96.

150 Ong, A. (2006), Neoliberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, op. cit. 151 Martinotti, G. (1993), Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, op. cit., p. 17.

152 Mumford, L. (1975), La fine di megalopoli, in G. Germani (a cura di), Urbanizzazione e modernizzazione, il Mulino,

Ciò che Mumford legge in termini di paura, tuttavia, è anche ciò che rende la metropoli uno spazio aperto al mutamento, nel tramonto delle forme di disciplinamento e controllo comunitario153.

Assumendo questo punto di vista, andrebbe forse rivisitata la teoria dei «non luoghi»154.

Nella sua elaborazione più nota e interessante, Augé conduce una critica condivisibile alla proiezione estetizzante delle forme di frammentazione, nomadismo e sradicamento della postmodernità, o «surmodernità» secondo la definizione dell’antropologo francese. Una visione, potremmo aggiungere, che finisce per diventare apologia dei flussi di merci e capitale. Tuttavia, l’idea del «non luogo» rischia di nascondere un’idea essenzialista, di verità e intrinseca positività del luogo, identificato esclusivamente con gli spazi della modernità, siano essi la comunità, la città o lo Stato. Per utilizzare le parole di Martinotti, i «non luoghi» sono in realtà i «nostri luoghi»155, quelli che quotidianamente vengono attraversati, vissuti, plasmati e, talora, anche messi in discussione o trasformati dai soggetti della contemporaneità. Si pensi ad esempio al caso delle banlieue parigine, che potrebbero essere catalogati tra i «non luoghi» per definizione. Essi sono