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Il precariato come dato strutturale dentro il mutamento dell’università

PARTE I – IL CONTESTO TEORICO

3.2 Il precariato come dato strutturale dentro il mutamento dell’università

C’è almeno una macrotendenza comune nei sistemi universitari americano ed europeo: la precarizzazione del lavoro. Parlando di un progressivo allargamento della «periferia accademica», a fronte di un restringimento del «centro», Vaira fotografa in modo perspicuo l’incalzante processo di precarizzazione che investe settori che una volta si pensavano salvaguardati o quasi42. In Italia, le

vicende dei ricercatori e professori associati senza presa di servizio, ossia vincitori di concorso la cui assunzione è stata per due anni bloccata dal governo con le finanziarie del 2002 e del 2003, come più tardi le lotte contro il Ddl Moratti, si sarebbero incaricati di dimostrare empiricamente la sua analisi. Sull’altra sponda dell’Atlantico, Chandra Talpade Mohanty lega la crescente divisione tra centro e periferia in modo diretto al processo di privatizzazione e aziendalizzazione dell’università:

«The restructuring (privatization) of the academy as we know it results in a truncated professoriate, since the commoditization of the educational process requires shifting attention from educators to the products of education that can now be sold in discrete units. Another result is a growing division between a small core group of workers with higher pay, job security, and benefits, and a larger group of peripheral contract workers, predominantly women, with lower pay, job insecurity, and no benefits. Almost 30 percent of all classes nationally are now taught by part-time faculty, while 45 percent of all undergraduate faculty are part-time. In contrast, in 1970 only 22 percent of faculty worked part-time. This shift in employment status marks the creation of a permanent underclass of professional workers in higher education»43.

Il precariato all’interno del mondo accademico, si può obiettare, non è un fenomeno completamente nuovo: già in passato chi voleva intraprendere la carriera universitaria doveva mettere in conto lunghi e difficoltosi anni con poche garanzie di reddito e continuità lavorativa44. A partire dal caso italiano, possiamo evidenziare almeno tre differenze tra le nuove e le vecchie forme di precariato all’interno dell’università. In primo luogo, va evidenziata la dimensione quantitativa del fenomeno: se prima la carriera universitaria era intrapresa da un numero limitato di persone, oggi è ritenuta uno sbocco praticabile da una parte crescente – sebbene non maggioritaria – di coloro che raggiungono la laurea.

In Italia, se nel ventennio 1983-2003 i posti di dottorato si sono aggirati sui 70.000, nel solo anno 2003 si registrano intorno ai 28.000 dottorandi (di cui circa il 40% senza borsa di studio);

42 Vaira, M. (2003), Verso un’Università post-fordista?, op. cit. 43

Mohanty, C. T. (2003), Feminism Without Borders. Decolonizing Theory, Practicing Solidarity, Duke University Press, Durham, pp. 178-179.

44 De Mucci e Sorcioni illustrano come dagli anni dell’affermazione dell’università di massa, i Settanta e gli Ottanta,

essa «va popolandosi di una fitta boscaglia di figure “precarie” che, a vario titolo, contribuiscono a farla sopravvivere nel bene e nel male: incaricati, supplenti, contrattisti, borsisti, tecnici laureati, tutti con un proprio bagaglio di esperienze, ma senza altre forme di legittimazione che non il favore e la benevolenza di qualche ordinario di “riferimento”, tutti con aspettative e pretese – più o meno legittime – di conquistarsi un posto di lavoro “fisso” all’interno dell’università» (De Mucci, R. – Sorcioni, M. (1996), La babele dell’università, op. cit., pp. 109-110).

parallelamente, il numero dei dottori di ricerca è costantemente cresciuto negli ultimi anni (passando dai 2.803 nel 1998 ai 4.341 nel 2002)45. Finito il dottorato, periodo ibrido tra

proseguimento dell’attività di studio e possibile inizio della carriera accademica, una parte almeno tenta di proseguire il percorso universitario, molto difficilmente con un concorso da ricercatore, più realisticamente accontentandosi di assegni o contratti di insegnamento. Il processo di selezione, dunque, non avviene più tanto o almeno solo a monte (in fase di ingresso all’università46), ma principalmente a valle, nel guado della carriera universitaria.

Ciò comporta (secondo elemento di diversità) un cambiamento della composizione sociale della «periferia accademica»: non si tratta più solo dei figli di docenti e di famiglie in grado di supportare economicamente gli anni di stenti prima di raggiungere l’agognato posto da ricercatore e poi da associato. Questo comporta anche un cambiamento sostanziale nella percezione delle proprie condizioni di vita e di lavoro: la precarietà diventa una condizione quotidiana, di esistenza e non solo professionale.

In terzo luogo, se fino a qualche tempo addietro i più erano convinti che gli anni difficili dell’avvio sarebbero stati ricompensati dalle garanzie e dai privilegi (economici e di status) della docenza, oggi non è più così. Sembra diffusa l’idea che l’instabilità di lavoro e di vita non riguardi più una fase transitoria del proprio percorso, per diventare invece elemento permanente. Da ciò deriva uno stato di ansia permanente e generalizzato, che tocca tutti: è questo un refrain ricorrente nelle testimonianze di molti intervistati.

Negli Stati Uniti, del resto, già all’inizio degli anni Novanta le statistiche parlavano in termini molto chiari della tendenza alla precarizzazione: «Colleges and universities employed 1,074,000 faculty members and others involved in instruction during the fall of 1998, and 43 percent of them worked part time»47. In molti community colleges, per esempio, i lavoratori part- time insegnano nel 75% dei corsi48.

Cary Nelson traccia un indispensabile collegamento tra l’analisi della crescente precarizzazione del lavoro nelle università e le trasformazioni del sistema produttivo ed economico:

«The gradual shift to part-time teachers has accompanied a gradual reduction in the percentage of tenured or tenure-track faculty, the only faculty members with reasonable guarantees of free speech and with a significant role in institutional governance. Across the country, many institutions that do not hire part-timers to teach introductory courses instead hire graduate assistants to teach them. What part-timers, graduate assistants, and adjunct faculty all have in

45

Cfr. sito Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR) http://www.miur.it/scripts/postlaurea/vdottori1.asp; sito Associazione Dottorandi Italiani (ADI) http://www.dottorati.it/docs/DatiDottorato3.2.pdf

46 Affronteremo in modo più dettagliato la questione argomentando l’ipotesi del passaggio ai meccanismi di inclusione

differenziale.

47 Wilson, R., Percentage of Part-Timers on College Faculties Holds Steady After Years of Big Gains, in The Chronicle

of Higher Education, 23 aprile 2001, disponibile su http://chronicle.com/daily/2001/04/2001042301n.htm

48 Cfr. Aronowitz, S. (2000), The Knowledge Factory. Dismantling the Corporate University and Creating True Higher

common is that they are substantially less costly to hire. […] What is clear from the national picture is this: higher education as a whole has become structurally dependent on a pool of cheap labor to teach its lower-level courses. The economic structure largely erases the status differences between part-timers and graduate assistants; economics thus also exposes the claim that graduate assistants are not employees for what it is: a cynical lie. Part-timers, adjuncts, and graduate assistants are filling the same role in the university – teaching the same courses – and doing so for the same economic reasons. Indeed, the long-term collapse of the academic job market means that most graduate students can no longer look forward to tenure-track job»49.

In Italia i dati sul precariato universitario sono ancora piuttosto difficili da reperire, essendo un fenomeno in espansione e all’oggi relativamente poco normato; non sempre gli uffici del personale dei singoli atenei possiedono le cifre complessive, e non di rado si incontrano riluttanze nel fornire quelle esistenti. Le statistiche ufficiali, inoltre, sono da vagliare con grande attenzione: l’Istat, ad esempio, conformandosi a parametri internazionali, computa nel novero del personale docente tutti coloro che occupano una posizione giuridicamente delineata, foss’anche temporanea, come i professori a contratto. Da queste statistiche scompaiono regolarmente borsisti post-lauream, dottorandi, dottori di ricerca o cultori della materia, che sono invece ben presenti nelle attività didattiche e di ricerca che consentono il normale funzionamento delle università. Non è dunque un caso che proprio l’invisibilità sia una delle sensazioni prevalenti avvertite da molti precari dell’università e riportata in diverse interviste. È questo ad esempio il caso degli adjunct professors, che hanno l’impressione di divenire invisibili nella quotidianità accademica sia dal punto di vista simbolico, sia dal punto di vista fisico, in quanto spesso devono far fronte alla mancanza di un ufficio, di un computer o addirittura di una casella di posta50.

Tuttavia, tornando al contesto italiano, le prime e ancora frammentarie cifre da noi raccolte nell’autunno del 2004 possono già rendere un’idea piuttosto precisa del fenomeno. A Bologna, i soli docenti a contratto sono poco meno della somma dei docenti di prima e seconda fascia e dei ricercatori (2500 i primi, 2982 gli altri); a questi vanno aggiunti i circa 600 assegnisti, i 1784 dottorandi (che spesso, soprattutto nelle facoltà scientifiche, svolgono attività didattica), i 680 borsisti. All’Università di Milano, due corsi su tre sono per i dati ufficiali affidati a figure non di ruolo, con punte di oltre il 90% in alcune facoltà. All’Università della Calabria, ordinari, associati e ricercatori ammontano a 627 unità, cifra di poco superiore a quella dei soli docenti a contratto (576) e dei dottorandi (582), sensibilmente inferiore a esercitatori e tutor esterni (713). Abbiamo qui segnalato alcuni dati relativi ad atenei di differenti zone dell’Italia per sottolineare che non si sta descrivendo un fenomeno circoscritto o identificabile su base territoriale, ma un trend generale51.

49 Nelson, C. (1997), Between Crisis and Opportunity: The Future of the Academic Workplace, in Nelson, C. (a cura

di), Will Teach For Food. Academic Labor in Crisis, University of Minnesota Press, Minneapolis, pp. 4-5.

50 Cfr. Intervista a Joel, New York City, 2 giugno 2006; Intervista a Brenda, New Haven, 5 giugno 2006.

51 I dati raccolti nella primavera del 2007 non fanno registrare cambiamenti di rilievo. Ad esempio, all’Università di

Dunque, nonostante l’attuale carenza di dati, mancanza di completezza e necessità di verifica, questi brevi flash statistici possono se non altro rendere l’evidenza di un chiaro dato materiale: i vari soggetti della «periferia accademica» costituiscono oggi lo strato portante del quotidiano funzionamento delle università. Si pensi ad esempio a una figura come quella del professore a contratto: nata nel 1980 per essere incaricata di tenere corsi integrativi «finalizzati all’acquisizione di significative esperienze teorico-pratiche di tipo specialistico provenienti dal mondo extrauniversitario ovvero di risultati di particolari ricerche, o studi di alta qualificazione scientifica o professionale» (art. 25, c. 1, d.p.r. 382/1980), non solo se ne è fatto uso «per sopperire a esigenze didattiche ordinarie»52, ma è oggi perno indispensabile per il concreto svolgimento

dell’attività didattica, assunto con contratti a breve termine e con retribuzioni ben lontane da quelle percepite dai soggetti altamente qualificati. All’Università La Sapienza di Roma, ad esempio, se nell’agosto del 2004 professori ordinari, associati e ricercatori erano rispettivamente 1411, 1277 e 2043 unità, nell’anno accademico 2002/2003 (ultimi dati all’oggi disponibili presso gli uffici preposti dell’ateneo) si contavano 1195 professori a contratto, cifra che – a fronte della proliferazione dei corsi – è probabilmente aumentata. Infatti, come fa acutamente notare Maria Stella Agnoli, la differenziazione spinta dell’offerta formativa e la modularizzazione sfrenata conducono a un lampante interrogativo: a chi vengono affidati i corsi, considerato il buco della docenza che dalle statistiche ufficiali nitidamente emerge53? La risposta è confermata dai dati cui si è fatto cenno: ai precari.

Avendo cessato di essere il luogo unico o quantomeno privilegiato dell’istruzione superiore, l’università deve accreditarsi per essere riconosciuta come uno degli attori corporate appetibili all’interno del più vasto mercato della formazione, categoria che permette di fare un ulteriore passo avanti rispetto al concetto di università-azienda, evidenziando la proliferazione delle agenzie formative, pubbliche e private, formali e informali. Dentro il mercato accademico, a sua volta, gli atenei competono – sulla base della propria autonomia finanziaria – nel reclutare studenti e nomi di prestigio per tenere le lezioni54, attivando un’offerta formativa che risponda ai gusti del momento, assegnisti e 1067 dottorandi, che spesso svolgono attività didattica e di tutoraggio. All’Università di Bologna gli ordinari sono 1011, gli associati 978, i ricercatori 1215, mentre i soli professori a contratto con insegnamenti ufficiali sono 1836, i tutor 1375, i borsisti circa 400. All’Università della Calabria, il numero complessivo di docenti di prima e seconda fascia e ricercatori (790) è esattamente pari a quello dei soli contrattisti.

52 Sorace, D. (1996), L’autonomia delle università italiane nel nuovo quadro normativo: una lettura critica, in AA.VV.,

Modelli di Università in Europa e la questione dell’autonomia, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, p. 229.

53

Agnoli, M. S., L’offerta di formazione sociologica nelle università italiane a seguito del DM 509/99, relazione al convegno AIS-Facoltà di Sociologia, L’impatto della riforma universitaria del “3+2” sulla formazione sociologica, Roma, 12 dicembre 2005.

54 Sostiene a tal proposito Moscati: «[Tra il personale avventizio che fa didattica all’università ci sono] i famosi esperti

di una volta che adesso vengono reclutati in quantità molto rilevante e che sono più o meno competenti del loro settore professionale più che disciplinare. Io credo che questa categoria sia molto a rischio, cioè il tipo di insegnamento che forniscono è di qualità parecchio dubbia, e tra l’altro non viene valutata, se non in maniera molto indiretta» (Intervista a Roberto Moscati, Milano, 2 marzo 2006).

dedicando una parte crescente del proprio budget alle strategie di marketing. Inoltre, a fronte di una riduzione dei finanziamenti ministeriali è evidente che l’università dovrà procacciarsi i fondi dalle aziende private, che pure in Italia sembrano lungi dal cogliere l’apertura di una fetta importante di mercato e opportunità di investimento, che sembrano preferire il consumo di una forza-lavoro già formata:

«Se oggi si parla con i rettori dicono che loro devono ottenere il massimo possibile di studenti, e la competizione tra atenei si fa sulla base di quanti studenti si riesce a reclutare, magari diversificando l’offerta formativa e attivando un sacco di corsi di moda, come per esempio Scienze della comunicazione. […] Se un’università diventa sempre più autonoma, non c’è più l’ombrello del Ministero che protegge, bisogna cavarsela da soli. Il mondo esterno italiano ancora dorme un po’, non ha capito che deve svegliarsi e cercare di competere, se non vuole sparire invece di andare a comprare le risorse deve produrle; se lo capirà, allora l’università si troverà di fronte a una serie di pressioni, perché le offriranno risorse, e l’università ne è sempre a caccia e sempre più lo sarà. Il problema è a quali prezzi e con quali tipi di mediazioni si riesce a stare dentro al mercato, a guadagnarci senza rimetterci l’anima, per dirla in parole povere»55.

Tutto ciò dà vita a una nuova gerarchizzazione dei processi formativi e di produzione dei saperi all’interno del mercato del lavoro: l’istruzione e la ricerca di alto livello tendono a essere spostati nei corsi di élite e nei centri di eccellenza, mentre quelle di base – che hanno l’obiettivo, come sostenuto da Eco, di accrescere il numero dei laureati nelle statistiche italiane – vengono sottoposti a una costante dinamica di dequalificazione e precarizzazione. Marazzi descrive tale processo con precisione:

«Tra tutti i buoni propositi pedagogico-riformatori, l’anello più debole per i paesi membri dell’Ocse riguarda dunque il rapporto tra formazione, ricerca e finanziamento. Se si guarda a quella “rivoluzione dall’alto” rappresentata dal modello di Bologna, ci si rende subito conto che l’orientamento generale è verso l’abbassamento della qualità della formazione universitaria di base (con la sostituzione della vecchia laurea con il Bachelor, o laurea breve) e la promozione di una formazione specializzata di tipo élitario (con i Master a pagamento). “Per la maggioranza – in Inghilterra, l’80% degli studenti smette l’università dopo il Bachelor – questo significa un brutale livellamento verso il basso del loro grado di formazione”. Nei programmi di riforma dell’assetto universitario sono presi ad esempio i programmi pubblici dei prestiti agli studi in vigore negli Stati Uniti, “ma si possono sollevare dei dubbi in merito alla sua efficacia reale, quando solo pensiamo, ad esempio, che numerosi giovani si sono ingaggiati nell’esercito americano per la guerra in Iraq al solo scopo di poter pagare i loro studi”56»57.

Con altrettanta chiarezza Marazzi inquadra questi mutamenti all’interno del contesto produttivo postfordista, individuando «i nessi sistemici tra produzione dei saperi e valorizzazione finanziaria», come recita il sottotitolo dell’articolo:

55 Ivi.

56 Le citazioni sono tratte da Il diritto allo studio minacciato. Verso un aumento delle tasse universitarie, in Solidarietà,

18 marzo 2004, Ticino/Svizzera.

57 Marazzi, C. (2004), Ricerca & Finanza. I nessi sistemici tra produzione dei saperi e valorizzazione finanziaria, in

«Da questo punto di vista la Dichiarazione di Bologna rappresenta uno di quegli shock di cui parla il segretario generale dell’Ocse. Si tratta né più né meno dell’applicazione ai processi

formativi dei principi che regolano la produzione flessibile post-fordista, con la privatizzazione

dei costi della formazione (aumento delle tasse universitarie e costi aggiuntivi per la specializzazione) e la sua deregolamentazione legata alle esigenze dei settori industriali privati (concorrenza tra poli di formazione-ricerca universitari). D’ora in poi formazione non può far

rima che con precarizzazione58»59.

Nel quadro delle trasformazioni dell’università, della gestione aziendale degli atenei60 e della crescita della domanda sociale di istruzione superiore, è aumentata la fetta di tempo che i docenti dedicano all’attività didattica e alle mansioni organizzative e amministrative. La sempre più diffusa esigenza di liberare tempo da dedicare alla ricerca crea un perverso meccanismo a catena, in cui – come ben illustrato da Roberto Moscati – a farne le spese sono i precari e i ricercatori appena strutturati. Secondo la 382/80 costoro non avrebbero dovuto svolgere – se non in forma saltuaria e occasionale – mansioni didattiche, impegno riservato quasi esclusivamente a ordinari e associati. Va anche detto che, come molti non mancano di sottolineare, l’imposizione del carico didattico della parte forte del corpo docente nei confronti dei giovani che hanno intrapreso la carriera accademica, si è talvolta accompagnata all’ambiguo atteggiamento dei ricercatori, che hanno ritenuto l’attività didattica non tanto un’occasione formativa e di sperimentazione delle proprie capacità, quanto una possibilità di prestigio:

«C’è stata una realizzazione di quello che è il tentativo di difesa da parte di docenti che si vedono ridurre il tempo da dedicare alla ricerca e lo scaricano su altri. Però, il carico didattico scaricato finisce per mettere in difficoltà l’anello debole della catena, cioè i ricercatori. La cosa non finisce lì, perché poi si sta allargando ai dottorandi, ai post-doc e via di questo passo. […] Si riproduce dunque il problema della prevaricazione dei docenti più forti sui più giovani e deboli, stravolgendo il loro progetto di crescita. […] C’è una forma di ricatto implicito, ma c’è anche una forma di sfruttamento della forza-lavoro, perché non vengono pagati e pagati pochissimo. […] Dobbiamo prendere atto che la didattica è diventata molto importante, ma è diversa da quella tradizionale, e comunque va tradotta in un’offerta formativa che consenta ai membri del mondo accademico di continuare a fare la ricerca, il che è un nodo cruciale. O facciamo così, o resteranno soluzioni sempre più di disuguaglianza interna al mondo accademico, perché sempre più ci saranno persone illuse di fare carriera e sfruttate duramente, salvo poi trovarsi a non riuscire a entrare per ragioni “oggettive”, cioè perché non hanno prodotto abbastanza. Ma perché non hanno prodotto abbastanza? Perché non hanno il tempo per farlo. Ci saranno persone che nella migliore delle ipotesi resteranno a galleggiare dopo il dottorato per dieci anni in una situazione di precariato, con rinnovi più o meno occasionali, finché riusciranno a mettere insieme una monografia che avrebbero potuto scrivere in due anni, allora lì potranno anche presentarsi a un concorso con speranza di essere reclutati, entro il 2013 vista la legge Moratti»61.

58 Corsivi nostri. 59 Ibidem.

60 Sottolineiamo ancora che, come il caso italiano dimostra, il processo di aziendalizzazione degli atenei non è per nulla

alternativo alla gestione feudale del potere accademico.

Complessivamente, possiamo sostenere l’esistenza di un nesso strutturale tra le trasformazioni produttive e dell’istruzione superiore, i processi di riforma in atto e l’allargamento della precarizzazione accademica, nella misura in cui la disseminazione dei corsi e la proliferazione di saperi a veloce obsolescenza richiedono una forza-lavoro “usa e getta”, che possa essere utilizzata per un tempo molto breve, dunque senza concrete prospettive di formazione e ricerca sul medio-lungo periodo62. In questo senso, è ampiamente giustificata la posizione di chi in Italia sostiene che la legge Moratti è la formalizzazione di una situazione già esistente: i numeri dei precari sopra riportati, infatti, datano prima del 25 ottobre 2005, data di approvazione del Ddl.

Essendo situata all’interno delle trasformazioni produttive a livello globale, la