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Le unità di misurazione dei saperi e del “capitale umano”

PARTE I – IL CONTESTO TEORICO

4.2 Le unità di misurazione dei saperi e del “capitale umano”

All’interno dei processi di riforma dell’istruzione superiore, il sistema dei crediti può essere interpretato proprio come il tentativo di imporre un’unità di tempo per misurare la produzione di ciò che non è misurabile. Già da molto tempo vigente negli Stati Uniti e nel Regno Unito, esso è una delle direttrici principale del Bologna Process, assumendo la denominazione di European Credit Transfer and Accumulation System (ECTS). Nel tentativo di creare uno spazio continentale dell’istruzione superiore, l’ECTS assume la funzione di fornire unità di misura delle performance degli studenti comparabili e trasferibili all’interno dei paesi dell’Unione Europea19. Che cosa il credito sia è spiegato in modo chiaro da Stanchi e Trombetti:

«Ma che cos’è il credito? Semplicemente un’unità di misura del lavoro dello studente: si tratta di 25 ore tra lezioni, esercitazioni e studio individuale; 60 ore equivalgono a 1.500 ore di impegno annuo, che è come dire lavorare (in questo caso studiare, seguire lezioni o esercitazioni) per 8 ore al giorno, 5 giorni la settimana, per 9 mesi»20.

Il sistema dei crediti rappresenta inoltre una buona esemplificazione del passaggio dalle tradizionali agenzie formative alle imprese della conoscenza21. È equivalente al sistema dei brevetti e dei copyright: la proprietà privata del sapere sottrae ai soggetti che lo hanno prodotto un “bene comune”. Marco Bascetta propone una suggestiva immagine, che ci riporta al tema dell’accumulazione originaria. Secondo Bascetta, la privazione della conoscenza, propedeutica alla sua privatizzazione, non può che avvenire su un piano formale, essendo impossibile escludere realmente i soggetti della cooperazione sociale dai prodotti delle proprie relazioni, come agli albori del capitalismo i contadini vennero espulsi dalle terre comuni: a differenza delle terre e delle risorse materialmente tangibili, infatti, il sapere non è un bene scarso22. Accumulazione originaria, privazione formale, produzione artificiale di scarsità laddove vi sono sovrabbondanza e ricchezza non sono un semplice atto fondativo, ma si devono ripetere continuamente per consentire lo sviluppo del capitalismo cognitivo. È questa, per usare i termini di Mezzadra23, quell’attualità della preistoria del capitalismo cognitivo che separa – artificialmente, appunto – i lavoratori cognitivi dalla proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Per separare, cioè, i beni-saperi dalle

19

Ogni anno accademico corrisponde a 60 crediti ECTS indipendentemente dagli standard o dai tipi di qualifica.

20 Stanchi, A. – Trombetti, A. L. (2006), Laurea e lavoro. Tra aspettative degli studenti ed esigenze del mondo del

lavoro, op. cit., p. 101.

21 Cfr. Etzkowitz, H. – Leydesdorff, L. (a cura di, 1997), University and the Global Knowledge Economy. A Triple

Helix Of University-Industry-Government Relations, Pinter, London.

22 Cfr. Bascetta, M. (2004), La libertà dei postmoderni, op. cit.

23 Mezzadra, S., Attualità della preistoria. Per una rilettura del capitolo 24 del primo libro del Capitale, «La cosiddetta

“terre comuni” della loro produzione, ossia il general intellect24. Si tratta di un’origine, dunque, che è destinata a ripetersi, in quanto non è collocata temporalmente prima dello sviluppo capitalistico – come vorrebbe una distorta immagine lineare della storia, ricostruibile solo ex post –, ma è ad esso immanente25.

Analogamente alla ricerca dei criteri per la misurazione della produttività nel sistema formativo, le metodologie per quantificare il “capitale umano” devono fare i conti con elementi che sfuggono alla mera grandezza economica26. Questo vale tanto per la misurazione dei «costi di allevamento», quanto per il calcolo della loro produttività futura, che finisce spesso per adottare un principio attuariale – basato sulla stima prevista di costi e benefici – preso a prestito dal campo assicurativo. Non si tratta semplicemente del caso e dell’imprevedibilità che caratterizza ogni fenomeno sociale ed economico; piuttosto, l’eccedenza rispetto ai criteri della misurabilità economica è la peculiarità delle attività umane basate sulla produzione di sapere e conoscenza, il punto in cui i due termini dell’ossimoro “capitale umano” entrano in evidente contraddizione. Vittadini e Lovaglio, nella loro attenta disamina delle diverse metodologie di quantificazione dello human capital, giungono ad affermare: «I soli e puri aspetti produttivi non sono sufficienti a valutare il valore monetario dell’uomo. Ognuno possiede in sé un valore positivo al di là di ogni connotazione monetizzabile e misurabile scientificamente»27. Perciò, i due autori arrivano a nominare come «desiderio» l’aspetto decisivo e non misurabile in termini di incremento di reddito e di ricchezza.

Dentro la cornice critica del capitalismo, che si trova a dover ridurre alla legge del valore ciò che sfugge ai criteri della misurabilità, sarebbe anche interessante analizzare la proliferazione della categoria di capitale nell’ossimorico accostamento con le forme di vita e cooperazione umana. Come sostiene Gorz, del resto, «le parole non sono innocenti quando includono “ingenuamente” nei rapporti sociali del capitale ciò che, solo qualche anno fa, sembrava destinato a sfuggire loro. Penso all’inflazione di “capitali” veicolata ormai dal pensiero dominante: “capitale culturale”, “capitale intelligenza”, ”capitale istruzione”, “capitale esperienza”, “capitale sociale”, “capitale naturale”,

24

Virno, P. (2004), L’Esodo come teoria politica, seminario all’Università della Calabria, copia interna.

25

Facciamo qui riferimento alla relazione introduttiva di Alberto De Nicola al seminario su L’accumulazione originaria tenuto da Sandro Mezzadra nel programma del «Lessico marxiano» della Libera Università Metropolitana, Roma, 16 febbraio 2007.

26 Scrive in merito Marazzi: «Quando si parla di “investimento in capitale umano” si intende implicitamente che è sulla

forza-lavoro come insieme di competenze passate e di lavoro vivo presente che occorre investire per alimentare nel tempo la crescita economica. Si tratta di un vero e proprio investimento, di costo di utilizzazione della forza-lavoro come anello tra presente e futuro, un costo che comprende il salario come prezzo della forza-lavoro (che permette la riproduzione della capacità lavorativa dell’operaio), ma che comprende anche l’investimento nel corpo del lavoratore come ricettacolo del sapere, delle competenze sociali presenti della società» (Marazzi, C. (2005), Capitalismo digitale e modello antropogenetico di produzione, op. cit., p. 115).

27 Vittadini, G. – Lovaglio, P. (2004), Fattori materiali e immateriali del capitale umano, in Vittadini, G. (a cura di),

“capitale simbolico”, “capitale umano” e “capitale conoscenza” o “cognitivo”, soprattutto, base del “capitalismo cognitivo”, ossia della “società cognitiva”, capitalistica, evidentemente»28.

Allontanatasi dalle feconde linee di ricerca di Bourdieu, che configurava i diversi ambiti di capitale come campi di battaglia e conflitto29, l’«inflazione di capitali» di cui scrive Gorz pare rispondere anche a significativi spostamenti semantici e lessicali che ben rappresentano i cambiamenti nelle relazioni di potere determinatisi negli anni Ottanta e Novanta nel contesto dei rapporti di produzione. Quello stesso ossimoro ben rappresenta quella sorta di schizofrenia all’interno dei singoli lavoratori (come nel caso dei lavoratori autonomi di seconda generazione studiati da Bologna e Fumagalli), che sembrano così racchiudere i due lati antagonistici del rapporto sociale capitalistico, essendo al contempo capitale e lavoro.

Il tema del “capitale umano” e della sua gestione si inserisce nel più generale quadro delle politiche “neoliberali”, come anestetizzazione del conflitto sociale e passaggio a forme di governamentalità della vita sociale30. Non a caso Anna Grandori, curatrice di un testo dedicato all’organizzazione e alla governance del “capitale umano” nella nuova economia, sostiene che, nei nuovi assetti produttivi, è diventata completamente obsoleta la tradizionale relazione tra capitale e lavoro, per essere sostituita da un processo in cui una pluralità di soggetti sono «conferenti di capitale» finanziario, tecnico e umano31. È uno degli aspetti di quella «tecnicizzazione della politica» che, secondo Aihwa Ong, costituiscono il «neoliberalismo come eccezione», basato sulle strategie di calcolo, basate sul binomio costi-benefici:

«Neoliberalism as exception is a “technicalization of politics” that recasts politics as mainly a problematizing activity, one that shifts the focus away from social conflicts and toward the management of social life. Governamentality at a level of specificity refers to different styles of reasoning and problematization that are fundamentally concerned with transforming situations of uncertainty into calculative strategies. The reduction of politics to identifying problems and making technical interventions in order to shape human conduct has wide implications for the new meaning of human being and the social. The interrelationships linking problematizing activity, calculative choice, and everyday conduct transform and give value to human beings and social life»32.

I tentativi di misurare il “capitale umano” non hanno del resto avuto migliore fortuna dei tentativi di misurare la produzione di saperi, e per motivi in buona parte simili. Li evidenzia Richard Florida, alla ricerca di indici attraverso cui misurare l’«economia creativa». È ancora una volta la questione dell’eccedenza dei saperi, in questo caso dalla quantificazione nei titoli di studio, a mettere in crisi i parametri dell’economia politica:

28 Gorz (2003), L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, op. cit., pp. 51-52. 29 Bourdieu, P. (1983), La distinzione. Critica sociale del gusto, op. cit.

30 Ong, A. (2006), Neoliberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, op. cit.

31 Grandori, A. (2001), Il modello analitico e la metodologia, in Grandori, A. (a cura di), Organizzazione e governance

del capitale umano nella nuova economia, Egea, Milano, pp. 1-5.

«Secondo i maggiori studiosi di oggi, lo sviluppo delle economie non dipende tanto dal capitale fisico e d’investimento, quanto dalle riserve di capitale umano di cui dispongono. Il capitale umano, però, è tipicamente misurato dagli economisti in base al livello d’istruzione formale dei lavoratori. Se ci accontentiamo del più convenzionale parametro di valutazione del capitale umano – la percentuale di persone in possesso di una laurea di primo grado –, rischiamo di ignorare gli straordinari contributi resi da figure imprenditoriali e creative che non hanno necessariamente terminato il college. […] La valutazione del capitale umano, inoltre, si fonda sul presupposto che a fare la differenza siano determinate qualità, e che tali qualità siano quelle insegnate dal nostro sistema scolastico. Un’idea del genere aveva senso nell’era industriale, quando la produzione di massa era cruciale e le abilità venivano inculcate in ampi settori della forza lavoro. Nell’era creativa, ai fini di una reale crescita economica occorre ben più di una laurea. […] Affinché economisti e studiosi possano misurare questo capitale con qualche efficacia, dobbiamo elaborare sistemi che prendano in considerazione l’intero spettro del potenziale creativo umano. È per questo che, nelle mie ricerche, sono approdato a un modello di misurazione su base occupazionale: non giunge ancora al cuore della crescita dell’economia creativa, ma sono convinto che sia più accurato della consueta misurazione sulla base del livello d’istruzione»33.

Risalendo all’origine anglosassone del vocabolo conoscenza, Sergio Bologna traccia una precisa distinzione tra knowledge e skill: «Knowledge worker non vuol dire skilled worker. Il termine skill, che spesso è stato tradotto in italiano con “specializzazione” (skilled worker = operaio specializzato), riporta a un’abilità, manuale o intellettuale, che è fatta anche di esperienza, di apprendimento nel corso del lavoro: skilled worker è l’operaio esperto, è l’operatore addetto al controllo dei sistemi automatici, con una certa anzianità aziendale. Lo skill si acquisisce anche o soprattutto attraverso la pratica. Ed è qui la prima grande differenza con il “lavoratore della conoscenza”. Proprio Drucker insiste con forza che uno dei requisiti per poter classificare una persona come knowledge worker è il suo essere dotato di un determinato curriculum di studi: è la formal education che distingue questa figura professionale»34. Oggi, tuttavia, è proprio la certificazione della conoscenza attraverso l’educazione formale ad essere messa in crisi. Il nesso tra knowledge e skill si fa più stretto e immediato, e travalica i confini delle istituzioni formative.

Infatti, se nel periodo “fordista” l’università forniva le principali qualificazioni sulla cui base di articolavano le segmentazioni e le gerarchie all’interno del mercato del lavoro, oggi l’istituzione accademica è solo uno dei vari luoghi in cui è possibile accumulare “capitale umano”35. La sua formazione e accumulazione, non riducibile al solo apprendimento scolastico e professionale36, diventa centrale nello sviluppo delle nuove forme metropolitane: «In these neoliberal times, the political work of the metropolis has also been about creating and sustaining regimes of

33 Florida, R. (2006), La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chi perde, op. cit., pp. 34-35. 34 Bologna, S. (2005), I “lavoratori della conoscenza” e la fabbrica che dovrebbe produrli, op. cit., p. 25.

35 Aglietta, M. (2000), A Theory of Capitalist Regulation. The US Experience, op. cit., 435-436.

36 Già notava Schultz in un pioneristico lavoro sullo human capital: «During the past decade [gli anni Cinquanta], there

have been important advances in economic thinking with respect to human capital. This set of investments is classified as follows: schooling and higher education, on-the-job training, migration, health, and economic information» (Schultz, T. W. (1961), Investment in Human Capital, in American Economic Review, vol. 51).

universalization associated less with human rights that with human capital and its formation, collection, and circulation. […] By creating conditions of possibility for the accumulation of human capital, the megacity is also interrupting the rule of citizenship»37.

Sulla scorta di quanto affermato da Jill Blackmore in uno studio sul genere e la definizione delle competenze in Australia, si può inoltre affermare che i teorici dello human capital – così come lo stesso Florida – corrono il rischio di dare per presupposta l’astoricità e neutralità di saperi, capacità e formazione, che vengono così privati di soggettività e singolarità, relazioni e contesti38. La cultura, argomenta Chandra Mohanty seguendo una linea di riflessione analoga, diventerebbe dato non contraddittorio e aconflittuale, eternamente legato a supposte radici che ne escludono la contingenza e processualità39. A conferma di quanto si è detto, Aronowitz descrive in modo dettagliato come la misurazione e gerarchizzazione dei saperi siano la base della riduzione del lavoro intellettuale a “capitale umano”, ma enuclea anche le contraddizioni immanenti al paradigma tecnoscientifico del capitalismo contemporaneo:

«Il lavoro intellettuale, la cui presunzione di autonomia professionale si sgretola sotto il peso della subordinazione alla tecnoscienza e all’organizzazione, diviene anch’esso una forma di capitale umano, le cui componenti sono saperi specialistici e capitale culturale accumulato differenzialmente, attraverso credenziali gerarchizzate. […] La verità è che le scoperte nascono da saperi “inutili” e ampiamente finanziati. […] Oggi, nel momento in cui insistono sulla ricerca “dedicata” come una condizione necessaria per accedere ai fondi, il governo e le politiche d’impresa dichiarano di aver scelto il fallimento piuttosto che lo sviluppo dell’innovazione a lungo termine. Questa autolimitazione della ricerca non è una scelta intenzionale, ma il risultato della logica tecnoscientifica di un paradigma del capitale umano secondo cui i saperi in disciplinabili minacciano l’ordine sociale, sia perché sprecano risorse sia perché offrono all’immaginazione stimoli sgradevoli. […] Il paradosso di questa situazione è che il processo attraverso cui la scienza è stata quasi del tutto sottomessa al capitale, che a sua volta ha trasformato il lavoro intellettuale in capitale umano, non è un processo positivo per il sistema. Così come l’emergere del sapere come forza produttiva “risolve” il problema della produttività e al tempo stesso intensifica il problema della valorizzazione del capitale stesso, la subordinazione dei saperi all’innovazione tecnologica a tutti i costi va contro un presupposto fondamentale dell’innovazione: tempo libero senza restrizioni per i produttori di saperi»40.

Un discorso in parte analogo vale per il concetto di capitale sociale, che tuttavia è nato nell’ambito della sociologia e non in quello della scienza economica. Sviluppatesi negli ultimi trent’anni, le teorie sul capitale sociale hanno trovato una grossa diffusione soprattutto negli anni Novanta, nel tentativo di sistematizzare dal punto di vista analitico l’eccedenza delle relazioni e della cooperazione. Esse andrebbero assunte rovesciandone il segno. Per i teorici del capitale sociale, infatti, legami, saperi extra-istituzionali e la stessa eccedenza soggettiva sono un mezzo razionalmente indirizzato a un fine, individuato nel miglioramento delle proprie condizioni

37 Ong, A. (2007), Please Stay: Pied-a-Terre Subjects in the Megacity, op. cit. p. 85.

38 Cfr. Blackmore, J. (1997), The Gendering of Skill and Vocationalism in Twentieth-Century Australian Education, in

AA.VV., Education. Culture Economy Society, Oxford University Press, New York.

39 Mohanty, C. T. (1990), On Race and Voice: Challenges for Liberal Education in the 1990s, op. cit. 40 Aronowitz, S. (2006), Post-Work. Per la fine del lavoro senza fine, op. cit., pp. 61-63.

lavorative. Nell’analisi che qui stiamo conducendo, invece, riteniamo che sia proprio il miglioramento di queste condizioni ad essere finalizzato a un percorso di autovalorizzazione, che passa indubbiamente da un lato per l’avanzamento delle posizioni individuali di reddito e carriera, ma è indirizzato anche al benessere, costituito dalla produttività e ricchezza delle proprie risorse relazionali e cooperative. Constata Carlo Trigilia: «Le reti, una volta stabilitesi, sono dei circuiti in cui circolano informazioni e fiducia che possono essere utilizzato per finalità diverse, a seconda dei vincoli e delle opportunità determinate dal contesto istituzionale in cui esse sono inserite. L’uso si modifica nel tempo al mutare delle esigenze di adattamento degli attori rispetto al contesto»41. La

produttività sociale e la ricchezza relazionale delle reti cooperative, indipendentemente da quale sia il suo fine, viene captata dai processi di valorizzazione capitalistica. In altri termini, i percorsi di autovalorizzazione e relazionali, singolari e collettivi, diventano capitale sociale solo nel momento in cui vengono messi al lavoro; e tuttavia, mantengono un’indipendenza, un’autonomia e uno scarto rispetto ad esso. Da questo punto di vista, anche il conflitto è costruzione di relazione e percorso di autovalorizzazione, che può essere tradotto in capitale sociale solo se viene deprivato dei suoi contenuti di incompatibilità.

Lo spillover della produzione di saperi non è tuttavia racchiudibile nelle anguste e aziendalmente diffuse categorie del valore aggiunto e delle esternalità42. Le imprese, infatti, catturano valore attraverso l’utilizzo di un «capitale umano» che non hanno prodotto, «non hanno mai accumulato e che esse tuttavia considerano come facente parte integrante del loro capitale fisso. Questo “capitale” è stato costituito da quelle attività non pagate, le più comuni e quotidiane, che si confondono con l’attività produttiva vivente in un ambiente situato. Quell’originaria “produzione di sé” che ciascuno compie fuori o a monte del lavoro remunerato e che lo rende capace di interagire, di comunicare, di apprendere, di svilupparsi, gioca qui un gioco comparabile a quello del “pluslavoro”, a partire dal momento in cui quella produzione di sé è “messa al lavoro” nella produzione del valore»43. È ciò che Yann Moulier Boutang definisce «sfruttamento al secondo grado», che è una forma di «predazione delle esternalità»44. Tuttavia, nella misura in cui non può essere interamente catturata dalle imprese, l’eccedenza non può essere pensata all’interno della classica dialettica dello sviluppo delle forze produttive, pena non coglierne la peculiare

41 Trigilia, C. (2001), Introduzione: ritorno alle reti, in Bagnasco, A. – Piselli, F. – Pizzorno, A. – Trigilia, C., Il

capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Il Mulino, Bologna.

42

Secondo la definizione di Simon: «Le esternalità sono i costi e i benefici monetari o non monetari che risultano dai fenomeni di interdipendenza sociale. […] Per i teorici dell’economia del benessere […], le esternalità riflettono il fallimento del mercato nel processo di allocazione delle risorse e necessitano dell’intervento pubblico per ridurre la divergenza tra i costi sociali e quelli privati» (citato in Foucault, M. (2005), Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, Feltrinelli, Milano, p. 321).

43 Gorz, A. (2004), Economia della conoscenza, sfruttamento dei saperi, in Posse, Roma, pp. 109-110.

44 Moulier Boutang, Y. (a cura di, 2002), L’età del capitalismo cognitivo. Innovazione, proprietà e cooperazione delle

incommensurabilità rispetto alle strutture sociali deterministicamente analizzate. Dunque, tale eccedenza costituisce proprio il potenziale scardinamento dei meccanismi della valorizzazione capitalistica. Indica la possibile sottrazione al valore, la materiale diserzione dalle sue leggi. Da questo punto di vista, l’economia politica dei saperi si impone come un processo di cattura dei saperi esternamente al processo che li produce, o addirittura – come Aronowitz suggerisce – rischiando di bloccarne le dinamiche di innovazione.

Capitolo 5

Dentro la globalizzazione:

trend comuni e nuove forme di conflitto nell’università in transizione