PARTE I – IL CONTESTO TEORICO
1.2 La composizione di classe nel capitalismo cognitivo
Di fronte al diffondersi della flessibilità negli anni Novanta è stata coniata la categoria di “lavoro atipico”, per indicare tutte le tipologie contrattuali differenti da quelle ritenute “tipiche”, ossia dipendenti e a tempo indeterminato. Nel suo semplice qualificarsi in opposizione a qualcos’altro, la nozione di atipicità evidenzia per contrasto una precisa idea di quella che viene ritenuto il lavoro “normale”, che per brevità potremmo sintetizzare nel lavoro salariato “fordista”. Per altri versi, riprendendo ancora la grammatica marxiana, si potrebbe forse dire che si cela un’idea di normalità e naturalità della produzione di forza-lavoro in quanto merce. L’emergere del lavoro flessibile e precario47, innervato dall’analisi sulle trasformazioni produttive e dall’ipotizzata transizione al capitalismo cognitivo, mette in crisi esattamente il presupposto di normalità e naturalità del rapporto di lavoro. Di pari passo alla messa in produzione di saperi, linguaggi e relazioni, sembra per alcuni aspetti in crisi la classica dicotomia lavoro-non lavoro. I dispositivi di precarizzazione non sono infatti strumenti di esclusione dal lavoro, quanto piuttosto di inclusione segmentata e dequalificante. Il lavoro nell’università è, da questo punto di vista, un buon angolo prospettico. Complessificando l’ipotesi dell’aziendalizzazione dell’università, Andrew Ross appunta la propria attenzione anche sul movimento opposto, ossia l’assunzione nel modello corporate delle caratteristiche del lavoro universitario, che diventa per certi versi paradigmatica nel descrivere la permeabilità dei confini tra tempi di vita e di lavoro:
«L’uso di lavoro nel campo dell’information technology probabilmente ha avuto più impatto nei posti di lavoro aziendali che nelle accademie. Perché l’università è sempre stato un posto di lavoro in cui i confini sono indistinti, la maggior parte degli accademici non sa quando è al lavoro e quando non lo è. Dunque, è difficile dire quando non si sta lavorando, se guardi la televisione analizzi e produci ricerca ad esempio. Per alcuni versi la mentalità del lavoro accademico sta diventando prevalente nel lavoro aziendale»48.
Il lavoro cognitivo, se assunto come cifra delle trasformazioni contemporanee, si rivela una categoria utile nella misura in cui è utilizzata come la filigrana attraverso cui è possibile osservare, come in un’esposizione universale, l’intero spettro delle forme di produzione e di lavoro49, non semplicemente giustapposte una all’altra, ma nella loro compresenza. Dire ciò non significa limitarsi a sottolineare che anche nel lavoro cognitivo non viene meno l’aspetto manuale. Significa invece sottolineare con forza che le facoltà intellettuali e fisiche nell’erogazione della prestazione
47 Come già accennato in sede introduttiva, i concetti di “flessibilità” e “precarietà” vanno tra loro distinti: è questo uno
dei compiti teorici che ci proponiamo di sviluppare nel corso del testo.
48 Intervista ad Andrew Ross, New York City, 26 maggio 2006.
49 Mezzadra, S., Attualità della preistoria. Per una rilettura del capitolo 24 del primo libro del Capitale, «La cosiddetta
lavorativa si sovrappongono continuamente, diventando – con differenti gradazioni – il bagaglio indispensabile della forza-lavoro. Dunque, assumiamo la cognitivizzazione come un paradigma delle forme del lavoro contemporaneo, «una illuminazione generale in cui tutti gli altri colori sono immersi e che li modifica nella loro particolarità […] [l’]atmosfera particolare che determina il peso di tutto quanto essa avvolge»50, e non come l’indicazione del contenuto specifico di occupazioni determinate, ovvero come criterio di distinzione tra lavori creativi e «Mcjob»51. Tale distinzione porta invece Dall’Agata a riproporre una dicotomizzazione tra lavoro intellettuale, che conduce all’autoimprenditorializzazione dei suoi soggetti, e lavoro manuale, sottoposti a modalità di neo- taylorizzazione e ad alta precarietà: «Accanto a questo processo di responsabilizzazione e “imprenditorializzazione” del lavoro dipendente si assiste, sull’altro versante, ad un processo di subordinazione dei lavoratori indipendenti e di neo-taylorizzazione dei lavori ad alta prescrittività»52. Sostenere al contrario, come fa Gianni Cirino sulla scorta delle analisi di Lorenzo Cillario, che «il lavoro cognitivo è altro dal lavoro “intellettuale” ed in parte anche dal lavoro “ideativo”, non si contrappone al lavoro operaio o manuale, esso è “cognitivo” se e solo se “riflette”, modifica ed ottimizza le sue procedure organizzative, le sue modalità di svolgimento»53, non significa dal nostro punto di vista annullare le evidenti differenze (di reddito, grado di sfruttamento, erogazione di sforzo intellettuale e manuale, contenuti e livello di fatica) tra le diverse occupazioni, quanto piuttosto indagare la nuova gerarchizzazione del mercato del lavoro attraverso la chiave della cognitivizzazione del lavoro e della sua misura.
Come emerge da una vasta ricerca sugli intermittenti dello spettacolo in Francia, ad esempio, l’artista contemporaneo non ha più nulla a che vedere con la classica figura dell’artista. Inseriti in uno dei gangli centrali dell’economia postfordista, i lavoratori dello spettacolo si trovano a svolgere contemporaneamente una molteplicità di mansioni, di cui la performance è solo una piccola parte54. Lo stesso ricercatore universitario, per restare al nostro tema di indagine, fa una vita
molto diversa da quella del puro scienziato o del “topo da biblioteca”: deve farsi “imprenditore di se stesso” per vendersi sul mercato delle competenze, curare la proprietà intellettuale dei propri prodotti, e magari accompagnare la propria attività principale con altre fonti di reddito e
50 Marx, K. (1968-1970), Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, Vol. I,
p. 34.
51 Beck, U. (2000), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi,
Torino.
52 Dall’Agata, C. (2004), I dilemmi del postfordismo, op. cit., p. 183.
53 Cirino, G. (1999), Il lavoro “cognitivo” nella fase dell’accumulazione flessibile: uno schema interpretativo del
“fenomeno” dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, disponibile su www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=63&artsuite=2#nh2
sostentamento55. I knowledge workers della net economy sono allo stesso tempo lavoratori autonomi e sottoposti al regime della dipendenza salariale, produttori post-industriali, impiegati in mansioni ripetitive e «artigiani digitali»56. D’altro canto, gli operai della fabbrica toyotista o i
portuali dei siti containerizzati e automatizzati, pur nella permanenza della fatica fisica, devono fare i conti con la manipolazione di segni e simboli (ancorché a basse competenze) che li rende più simili al lavoro del data-entry nelle imprese della net economy che non alle tute blu di Mirafiori o ai camalli57. Per sopravvivere e muoversi all’interno del mercato, i soggetti del lavoro devono oggi essere flessibili, imprevedibili, capaci di adattarsi continuamente a situazioni in rapido cambiamento e a veloce obsolescenza. Devono cioè essere in grado di attraversare continuamente i confini che tracciavano una rigida distinzione tra lavoro manuale e intellettuale. Analizzando le esperienze dei «tecnomigranti» indiani – high skill e low wage – in California, esperienze che costituiscono l’asse portante dello sviluppo economico della Silicon Valley, Aihwa Ong descrive in modo precipuo la compresenza di una gamma differenziata di facoltà appartenenti alla forza-lavoro contemporanea, attraversando non solo i confini tra un luogo e un altro, ma anche all’interno degli stessi spazi, in una peculiare sincronia dei tempi della produzione e dello sfruttamento capitalistico:
«I interviewed a software worker I call Sajit from Amritsar, Punjab, who received his degree from the Guru Nanak Engineering Technology Institute. A few months into his first job in India, Sajit applied to Aviance, a body shop, to be sent to the United Sates. Aviance obtained his ticket and visa and found him a job in a software company in Houston. When this particular project was completed, Sajit joined the body shop Novetel Network, which operates mainly in California. He claimed that Novetel paid him US$1,200 a month for six months while locating a job for him in Silicon Valley. Meanwhile, still waiting for the job to materialize (or “sitting on the bench”), Sajit was driving a cab, a profession that is dominated by his countrymen, it seemed a flexible way to pick up some money, but it was “hard for an educated man” to take the abuse from some passengers. Sajit was feeling a bit depressed about sharing a small apartment with three other migrant workers in order to save money while waiting for the economy to pick up again. If it did not, they might have to return to India. Meanwhile, he dreamed of the day when he would be free of the body shop and could find work on his own. If an American company took him on as a permanent worker, he could make up to $75,000 a year and have a
55 Analogamente sostiene Sims Taylor: «Da buoni knowledge workers ci piace pensare che la maggior parte del nostro
lavoro riguarda la creazione di conoscenza, di una conoscenza che non esisterebbe senza il nostro sforzo mentale. Sfortunatamente, questa è solo una parte relativamente piccola del nostro lavoro. Se proviamo ad esaminare i contesti lavorativi di un knowledge worker, troviamo sei tipi più o meno distinti di attività: 1) il lavoro di routine che è difficilmente separabile dal lavoro di conoscenza. Formattare un articolo, per esempio, è un lavoro che può essere svolto da una dattilografa, ma può essere fatto dal knowledge worker se gli fa perdere meno tempo che preparare un documento e formattarlo con le istruzioni per la dattilografa; 2) lavoro di relazione, di promozione, di socializzazione; 3) cercare dati e informazioni necessari a produrre la conoscenza; 4) creare quello che altri hanno probabilmente già creato se implica minore perdita di tempo che cercare, trovare e adattare ciò che è stato prodotto da altri; 5) lavoro di conoscenza veramente originale — creando ciò che non è stato creato prima; 6) comunicare quello che si è prodotto o si è appreso» (Sims Taylor, K. (1998), The Brief Reign of the Knowledge Worker: Information Technology and
Technological Unemployment, relazione presentata all’International Conference on the Social Impact of Information Technologies, St. Louis, Missouri, 12-14 ottobre 1998, citato in Bologna, S. (2005), I “lavoratori della conoscenza” e la fabbrica che dovrebbe produrli, in L’ospite ingrato, Macerata, anno VIII, n. 1, pp. 24-25).
56 Ross, A. (2003), No-Collar. The Human Workplace and Its Hidden Costs, Basic Books, New York.
57 Commisso, G. (1999), Il conflitto invisibile. Forme del potere, relazioni sociali e soggettività operaia alla Fiat di
Melfi, Rubbettino, Soveria Mannelli; Della Corte, E. (2002), Il lavoro sul fronte dei porti. Telematica e Organizzazione del Lavoro a Gioia Tauro, Southampton e Felixstown, Rubbettino, Soveria Mannelli.
good chance of getting a green card. But such opportunities are extremely rare, since body- shopped migrants are by definition a circulating low-wag workforce entirely at the mercy of the fluctuating needs of the labor market»58.
Sulla stessa lunghezza d’onda, a partire da un’importante ricerca etnografica proprio sul sistema globale del body shopping tra India e Australia, Xiang Biao ha evidenziato come il settore informale e le strutture comunitarie non siano un residuo del passato, ma al contrario parte integrante del quotidiano funzionamento dell’Information Technology59. Le stesse “tradizioni”,
come quella della dote o dei matrimoni combinati, lungi dall’appartenere all’essenza delle caratteristiche culturali, sono continuamente reinventate e utilizzate nella regione di Andhra Pradesh all’interno di complesse strategie di investimento e trasferimento di capitali dalle campagne alle città. Le comunità locali non sono affatto nicchie di resistenza all’egemonia dei processi globali: più frequentemente diventano strutture di imbrigliamento e valorizzazione al servizio del capitalismo hi-tech. Lungo le catene delle relazioni comunitarie, alimentate dall’invisibile lavoro riproduttivo delle donne, i lavoratori stessi diventano spesso intermediari tra i body shop e i loro amici, per indurli all’obbedienza. La dettagliata descrizione che Xiang Biao ci offre sembra contrastare in modo evidente con la semplice riduzione degli indiani a lavoratori di servizi massificati in un ciclo arretrato dello sviluppo capitalistico60. Essi emergono piuttosto come «spina dorsale» della new economy, sottoposti a condizioni semi-schiavistiche che non contraddicono affatto la loro appartenenza alla forza-lavoro high skill, ma anzi alimentano il settore hi-tech. Anche in questo caso, le mappe concettuali disegnate dalla divisione internazionale del lavoro sembrano oggi inutilizzabili.
Per indagare i processi di cognitivizzazione al di fuori della dicotomia tra lavoro manuale e intellettuale, si consideri inoltre il lavoro di cura, che assume dei tratti di rilievo centrale nella descrizione delle nuove forme della produzione e della riproduzione. In esso, infatti, gli aspetti “materiali” si intrecciano in modo complesso con l’erogazione delle facoltà cognitive e timiche, in
58 Ong, A. (2006), Neoliberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, op. cit., p. 164. 59
Scrive Xiang Biao: «India’s role as the coordinating center of global body shopping reflects the simple fact that the profits and advantages accruing through the production and supplying of Indian IT labor to the global market were large enough to be shared by varied actors (e.g., body shops, specialist IT companies, and training institutes). Body shops and the related players constituted an “informal IT sector” where economic transactions were hardly reflected in official records and involved various unlawful activities such as making false declarations and issuing fake documents. This informal IT sector was, however, an integral part of the formal IT sector both in India and abroad: some IT workers obtained their first work experience at body shops to make them a “ready” workforce for the industry, and more importantly the majority of IT professionals in Andhra Pradesh entered the international market through this informal sector. Unemployed workers provided cheap and flexible labor for the global market, but more critically they formed the resource base that allowed body shops to survive the market downturn and move into the formal sector by growing into viable software firms» (Xiang, B. (2007), Global “Body Shopping”. An Indian Labor System in the Information Technology Industry, Princeton University Press, Princeton, p. 52).
primo luogo con la produzione di «affection»61. La compresenza di tratti caratteristici del «lavoro non libero»62 si intrecciano con gli aspetti paradigmatici del lavoro cognitivo. Da questo punto di
vista è possibile parlare di una «femminilizzazione del lavoro»63: non semplicemente per descrivere
l’entrata sempre più massiccia delle donne all’interno del mercato del lavoro, ma innanzitutto per analizzare la messa in produzione delle attitudini relazionali, affettive, di cura, appartenenti all’ambito definito di riproduzione della forza-lavoro e determinate storicamente come femminili64.
Potremmo dunque affermare che la divisione cognitiva del lavoro assume delle coordinate spazio-temporali completamente differenti rispetto al passato, estremamente mobili e continuamente rideterminate non solo dentro le singole aree geografiche, ma anche all’interno delle biografie individuali. I casi di Sajit e delle lavoratrici della cura dimostrano che le condizioni lavorative dai tratti semi-schiavistici non sono confinate né ad altri tempi, né ad aree remote del pianeta, bacini di brutale accumulazione originaria di capitale; essi sono pienamente interne alle punte avanzate dello sviluppo hi-tech, dei processi di alta formazione e di produzione e riproduzione cognitiva.
È tuttavia necessaria una precisazione, onde evitare discutibili generalizzazioni che corrono il rischio di una completa indistinzione delle differenti mansioni, sussumendo così le gerarchie lavorative (di reddito e competenze) all’interno della categoria di knowledge workers. In un documentato saggio sul tema, Sergio Bologna rintraccia le radici storiche di tale espressione e ne discute l’attualità nel postfordismo: «Sembra sia stato Peter Drucker, viennese emigrato negli Stati Uniti nel 1937 e “padre” delle teorie del management, ad aver coniato questo termine in un suo libro degli anni Cinquanta. Certamente è Drucker che lo ha lanciato alle soglie degli anni Novanta come parola chiave della “nuova economia”, definita anche “società della conoscenza” (knowledge society) o dell’informazione o “economia dell’immateriale”»65. A metà degli anni Novanta, Drucker sosteneva che, seppur fossero ancora una forte minoranza sul totale della forza-lavoro, i knowledge
61 Del Re, A., Produzione e riproduzione, relazione al seminario «Lessico marxiano» della Libera Università
Metropolitana, Roma, 17 maggio 2007.
62 Ibidem.
63 Vantaggiato, I. (1996), La “femminilizzazione” del lavoro, in AA.VV., Stato e diritti nel postfordismo,
Manifestolibri, Roma.
64
Chistè, L. – Del Re, A. – Forti, E. (1979), Oltre il lavoro domestico. Il lavoro delle donne tra produzione e riproduzione, Feltrinelli, Milano.
65 Bologna lo ricostruisce con estrema precisione: «Era accaduto lo stesso fenomeno alle soglie del periodo fordista. In
Germania, tra il primo decennio del secolo ed il primo dopoguerra si fa strada il termine Kopfarbeiter (che possiamo tradurre con “lavoratore della mente”). In Inghilterra, nel 1921, R.H. Tawney, figura eminente del movimento laburista moderato, parla, nel suo libro sulla “società acquisitiva”, di brain worker e della “crescita di una nuovo proletariato intellettuale”17. A cosa alludono questi termini? Kopfarbeiter viene riferito in generale alla figura del salariato cui sono richieste prestazioni di tipo intellettuale e creativo. Si pensa soprattutto all’industria dei media; in particolare
all’industria editoriale, che in metropoli come Berlino aveva raggiunto già prima della guerra mondiale una dimensione e una struttura capitalistica avanzate, con grandi concentrazioni finanziarie (si pensi a Mosse, Ullstein, Scherl, Fischer), tecnologie di punta, elevatissima divisione del lavoro, sistemi di distribuzione moderni e quindi capacità di creare posti di lavoro in grande quantità» (Bologna, S. (2005), I “lavoratori della conoscenza” e la fabbrica che dovrebbe produrli, op. cit., p. 14).
workers imprimessero sulla società della conoscenza il loro volere, la loro leadership, le sfide con cui deve misurarsi e il suo profilo sociale. Il loro peso, dunque, non è quantitativo, bensì qualitativo: benché non ancora classe dominante, essi potevano già ritenersi la classe trainante della knowledge society. L’ascesa di questa nuova figura sociale, che nel capitalismo postfordista assume una caratterizzazione peculiare, non è tuttavia priva di un corposo background storico66. Dopo aver sottolineato la problematicità delle classificazioni esistenti (a partire da quella del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, che suddivide i knowledge workers in Italia in tre grandi segmenti: legislatori, dirigenti, imprenditori; professioni intellettuali; professioni tecniche intermedie) e le contraddizioni terminologiche, a suo dire frutto di una visione della società contemporanea subalterna alle ideologie della new economy, Bologna evidenzia come anche i punti critici di tali categorizzazioni permettano comunque di incarnare nella figura del lavoratore un discorso che viceversa rischia di rimanere alquanto generico e indeterminato:
«Ma anche queste contraddizioni rivelano che definire un sistema sociale con termini suggestivi e sostanzialmente equivalenti è più facile che definire una realtà ben individuabile e concreta come quella rappresentata da una figura lavorativa. Parlare di “società della conoscenza” ci consente di restare nel vago; parlare di “lavoratore della conoscenza” ci costringe a dare un volto preciso a una figura reale. […] L’ordine simbolico del lavoro è un ordine con cui non si scherza (o non si dovrebbe scherzare)»67.
Movendosi in una direzione molto diversa da quella di Bologna, con una prospettiva tutt’altro che critica e piuttosto apologetica, già da alcuni anni Richard Florida ha coniato la categoria di «creative class» per indicare un complesso di figure impegnate in «una gamma di settori che spazia da scienza e ingegneria all’architettura e al design, da arte, musica e spettacolo alle professioni più creative nei campi del diritto, del commercio, della finanza, della sanità e simili»68. Si tratta, secondo i calcoli dell’economista americano, di oltre il 30% della forza-lavoro
complessiva negli Stati Uniti, quasi 40 milioni di persone. Secondo queste stime, il settore creativo dell’economia rappresenterebbe poco meno della metà del lavoro retribuito, quasi quanto il manifatturiero e il terziario insieme. È di particolare rilievo che Florida approdi (pur conscio dei suoi limiti, e forse anche delle difficoltà di qualsiasi tentativo di quantificare l’«economia creativa») a un modello di misurazione del «capitale creativo» su base occupazionale, privilegiando le attività effettivamente svolte rispetto ai criteri standard del “capitale umano”, quantificato rispetto al titolo di istruzione formale. Quest’ultimo non è più, sostiene l’economista americano, un indicatore adeguato nel rendere conto della complessità biografica e relazionale attraverso cui la conoscenza viene prodotta. Altrettanto interessante è la sua proposizione di un Global Creativity Index, basato
66 Ivi, p. 18. 67 Ivi, p. 15.
68 Florida, R. (2006), La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chi perde, Mondadori, Milano,
su tre T: Tecnologia, Talento e Tolleranza. Se le prime due sono abitualmente utilizzate da chi si