PARTE II – LA RICERCA EMPIRICA
6.3 Precarietà di lavoro e precarietà dell’autonomia: una griglia di analisi della precarizzazione
In una parte consistente della letteratura sul tema la flessibilità è racchiusa nel contesto lavorativo e nelle tipologie contrattuali cosiddette “atipiche”. Secondo alcuni analisti, come Maura Franchi, essa è addirittura riducibile alla fase di ingresso del mercato del lavoro. Per usare le sue parole, si tratta «non già di una flessibilità sostitutiva, ma di una flessibilità complementare, finalizzata a ridurre il costo del lavoro, ad aumentare la capacità di risposta delle imprese alle variazioni dei mercati, a selezionare la manodopera all’ingresso attraverso lunghi periodi di prova»29. Le biografie professionali si configurerebbero quindi come un percorso a tappe, in cui viene ravvisata un’intima coerenza sia di strategie individuali sia di contesto:
«Il dualismo mover-stayer non riguarderebbe tanto segmenti distinti di popolazione, quanto fasi diverse di una sola carriera: vale a dire, la maggior parte dei posti di lavoro stabili sarebbero preceduti da uno o più episodi di occupazione breve, favoriti dai meccanismi istituzionali come il contratto di apprendistato, i contratti formativi e tutte le varie tipologie di contratti flessibili (dal lavoro interinale alle collaborazioni). L’alto turn over all’ingresso e l’elevato numero di lavoratori stabili sarebbero il segno di questa ambivalenza che sembra caratterizzare il mercato del lavoro italiano, come quello dei paesi industriali europei»30.
Queste analisi circoscrivono dunque la precarietà a un periodo limitato della carriera lavorativa, qui interpretata in termini piuttosto classici, benché si sottolinei il percorso di transizione al lavoro da parte dei giovani (job shopping) anziché utilizzare il paradigma della ricerca di lavoro (job search). L’ipotesi di Franchi è smentita dalla generalizzazione delle condizioni di precarietà, che non possono più essere ricondotte né a una dimensione generazionale, né a una fase temporale, né a particolari aree geografiche31. Rimanendo nel mercato dell’università, è piuttosto sintomatico
di un’incomprensione di questi trend di fondo il fatto che Franchi affermi con una malcelata sicurezza: «Il vissuto di questi laureati è fortemente ancorato al completamento di un percorso formativo lungo che era stato previsto fin dall’inizio dell’università e che sfocerà, con un ragionevole grado di certezza, in un’attività professionale svolta in forma autonoma o in una posizione dipendente di prestigio»32. Il «ragionevole grado di certezza» è chiaramente contraddetto
dai dati sul precariato universitario su cui ci siamo soffermati in sede teorica, e soprattutto si scontra in modo duro con le biografie dei ricercatori precari raccontate nelle interviste.
Pur focalizzandosi sul breve periodo, in quanto le analisi sui recenti processi di riforma non consentono ancora di avere dati sul lungo termine, il rapporto AlmaLaurea del 2006 traccia un
29 Franchi, M. (2005), Mobili alla meta. I giovani tra università e lavoro, op. cit., p. 40. 30 Ivi, pp. 40-41.
31 Cfr. Bologna, S. (2007), Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro, DeriveApprodi, Roma. 32 Franchi, M. (2005), Mobili alla meta. I giovani tra università e lavoro, op. cit., p. 208.
profilo nitido: il livello di qualificazione e l’accesso all’istruzione superiore cresce in misura inversamente proporzionale alla possibilità di trovare un lavoro non precario e al reddito percepito. Ciò avviene anche tra coloro che hanno raggiunto i migliori risultati: a un anno dalla laurea, infatti, trovano lavoro solo quattro su dieci di quelli che hanno preso 110 e lode. Nello stesso arco temporale, complessivamente trova lavoro solo il 45% dei laureati “triennali” (erano il 52% l'anno precedente) e il 52,4% dei laureati pre-riforma, il che costituisce il dato più basso dal 1999. Il lavoro cosiddetto “atipico” dal 2001 al 2006 è cresciuto di ben dieci punti percentuali. Sulla natura precaria di questi lavori, è un buon indicatore il fatto che un laureato guadagna al mese, in termini reali, meno di quanto percepiva cinque anni prima un suo pari grado. Pur non avendo dati disponibili di medio-lungo periodo sull’università riformata, sembra crescere una diffusa percezione di inadeguatezza della laurea rispetto alla posizione nel mercato del lavoro33.
Il quadro che gli intervistati disegnano della flessibilità è alquanto diverso da quello individuato dalle analisi precedentemente menzionate. Per i ricercatori che si sono mobilitati, e anche per coloro che non lo hanno fatto, la flessibilità reale è all’oggi interpretata innanzitutto come precarietà. Evitando di soffermarci sugli aspetti più ovvi, per quanto assolutamente concreti nelle forme di vita quotidiana, privilegeremo gli elementi di analisi rispetto a quelli del racconto biografico, con l’obiettivo di costruire una prima griglia di lettura che consenta di cogliere specificità e differenti caratteristiche all’interno della comune figura che si è autonominata «ricercatore precario».
Gli attori intervistati, la cui composizione restituisce in modo piuttosto fedele quella di coloro che si sono mobilitati, sono dottorandi (con o senza borsa, che si aggira sugli 820 euro al mese), borsisti o assegnisti di ricerca (per uno o due anni, con assegni rinnovabili o meno che mediamente vanno dai 1.200 ai 1.400 euro lordi al mese), docenti a contratto (i contratti – il cui ammontare varia da sede a sede, ma spesso si tratta di cifre irrisorie – sono pagati a ore di lezione, senza conteggiare quelle dedicate a esami, tesisti o attività di ricerca), ricercatori confermati o non confermati, i cui stipendi vanno dai 1.100 ai 1.500 euro al mese.
Ognuna di queste figure vive condizioni di lavoro diverse, che si differenziano ulteriormente nelle diverse sedi universitarie, esprimendo al contempo delle rivendicazioni particolari. Da questo punto di vista, ad esempio, condizioni e claims dei docenti a contratto34 non possono essere
33
AlmaLaurea (a cura di, 2006), VIII Profilo dei laureati italiano. I primi figli della riforma, op. cit.; Stanchi, A. – Trombetti, A. L. (2006), Laurea e lavoro. Tra aspettative degli studenti ed esigenze del mondo del lavoro, op. cit.
34 Nel 2006, ad esempio, il nodo romano della RNRP, Precat, ha aperto una campagna sulle condizioni di lavoro dei
docenti a contratto, dal significativo titolo «Indecenze a contratto». Dopo aver ottenuto il dato relativo a docenti e tutor a contratto per l’anno 2004-2005 all’università “La Sapienza” (1.830), l’associazione scrive sul proprio sito: «I docenti a contratto, oltre a tenere i corsi, si fanno carico delle sessioni di esami, ricevono gli studenti per approfondimenti e domande, seguono le tesi di laurea. Tutte mansioni che non sono limitate nel tempo al periodo in cui viene
completamente omogeneizzati con quelli degli assegnisti35: anche nella mobilitazione, come molti intervistati mettono in evidenza, la saltuarietà e temporaneità della presenza nel contesto universitario dei primi ne ha reso più difficoltosa la partecipazione. La presenza di un alto numero di ricercatori nelle mobilitazioni è facilmente spiegabile: obiettivo del Ddl Moratti è la messa in esaurimento di tale figura. È tuttavia significativo che solo alcuni dei ricercatori presenti nelle iniziative di protesta abbiano preso parte alle attività della RNRP. Chi lo ha fatto, ne illustra i motivi: «Molti ricercatori non si rendono conto che la precarietà non riguarda solo chi non è ancora strutturato, ma anche loro. E non è solo per il Ddl Moratti, non è nemmeno una questione di posto fisso, ma è una questione di modulo accademico che diventa sempre più senza tutele: tu devi lavorare, devi subire, devi dire sì. Sei sempre più ricattabile, cambiano i rapporti di forza»36.
Questa citazione ci può aiutare a tracciare una differenziazione nella comune condizione di precarietà, distinguendo tra due aspetti che emergono chiaramente dalle interviste.
- In primo luogo, possiamo parlare in particolare di precarietà del lavoro per quelle figure che non sono inserite stabilmente nella struttura accademica, quindi dottorandi, borsisti, assegnisti e contrattisti. Per costoro la precarietà si traduce – per usare le parole degli intervistati – in «mancanza di tutele», «non continuità di reddito», «incertezza di prospettive» ed «estrema ricattabilità».
- In secondo luogo, ci sono i ricercatori che, pur avendo una posizione stabile, percepiscono una «perdita di forza e di peso nella struttura accademica», che lede la loro «forza sia contrattuale sia di autonomia» rispetto ai contenuti formativi e di ricerca, accrescendo il controllo sulla loro attività. In questo caso, la precarietà funziona come aumento della pressione anche su coloro che hanno un posto di lavoro garantito. Potremmo indicarla come precarietà dell’autonomia. È ciò che mette in evidenza Sergio Bologna, quando osserva come il fenomeno più grave del nostro tempo non sia solo la precarietà intesa come lavoro “atipico”, bensì «il deterioramento della qualità del lavoro dipendente, in termini di retribuzione, in termini di dinamiche di carriera, in termini di
retribuiti nei modi e nei termini più disparati, così come arbitrario è il loro “reclutamento”, mediante contratti di diritto privato. In moltissimi casi non solo la retribuzione ma anche la stipula del contratto avviene l’anno successivo alla prestazione del servizio, se avviene. Il compenso minimo deliberato dal senato accademico è di 200 euro. Nonostante questo, esistono addirittura contratti che prevedono il compenso possa saltare per cause di bilancio, ci sono docenti precari che insegnano ed esaminano senza contratto (pagati al nero o non pagati), non tutti hanno la titolarità del corso, pochi possono partecipare alle riunioni sulla didattica e quando possono non hanno diritto di voto sulle decisioni prese. Infine i professori e gli esercitatori a contratto non hanno nessun diritto e nessuna tutela in caso di malattia, infortunio e maternità» (Precat (2006), Indecenze a contratto, consultabile su
http://www.precat.it/joomla/index.php?option=com_wraper&Itemid=66).
35 Attraverso una vertenza nel 2006 Precat ha ottenuto per i titolari degli assegni di ricerca lo sblocco (con i relativi
arretrati) dell’aumento della retribuzione prevista per decreto dal MIUR nel febbraio 2004 e non applicata da “La Sapienza”.
rapporti col sistema gerarchico/disciplinare dell’impresa, anche in termini di rapporti tra colleghi, in termini di stress, di lunghezza delle giornate lavorative, in termini di sicurezza del posto di lavoro, in termini di riconoscimento del merito e così via»37.
Entrambi gli aspetti qui delineati non sono necessariamente riconducibili a figure determinate, quindi strutturati da un lato e non strutturati dall’altro, ma continuamente si intrecciano nei vissuti e nelle tensioni soggettive degli intervistati. Inoltre, non sono affatto circoscrivibili al caso italiano, ma riguardano anche la corporate university americana. Tuttavia, se negli Stati Uniti ciò che abbiamo definito precarietà dell’autonomia si declina principalmente nei termini dell’academic freedom, che si inscrive nelle compatibilità dei comportamenti e delle azioni dei lavoratori accademici rispetto ai codici di gestione dell’azienda universitaria, in Italia gli intervistati sottolineano come la maggiore ricattabilità si traduca innanzitutto nel rafforzamento dei rapporti di subordinazione individuale lungo la linea gerarchica – in questo caso tra docente e ricercatore, precario o precarizzato. Ciò dipende dalle differenti strutture dei due sistemi accademici, al cui interno si collocano le attività e i conflitti dei lavoratori. Le parole degli intervistati spiegano in modo piuttosto chiaro le diversità: nel caso di studio italiano, come vedremo più approfonditamente in seguito, le possibilità di superare la condizione di precarietà del lavoro sono affidate non tanto a criteri di produttività aziendale, quanto soprattutto alla fidelizzazione personale con i cosiddetti «baroni». Il superamento della precarietà del lavoro, in altre parole, viene scambiata con la precarietà dell’autonomia.
Questi due aspetti della precarietà, infine, sono accomunati da una condizione che non riguarda esclusivamente le tipologie contrattuali, né la dialettica tra posto fisso e lavoro temporaneo; va addirittura al di là del tradizionale ambito di impiego. Si configura come precarietà di vita, concetto che emerge continuamente dalle interviste. Complessivamente, la precarietà di vita riguarda la perdita di controllo sulla propria esistenza, enuclea il nodo dell’autodeterminazione come terreno centrale per le figure del lavoro vivo contemporaneo. Bologna la ritiene l’istanza centrale dei «lavoratori autonomi di seconda generazione», intimamente connessa con l’«autoformazione» che plasma la nuova composizione di classe, paragonabile a ciò che l’egualitarismo era stato per le lotte dell’«operaio massa»: «L’autodeterminazione è un percorso, un lungo itinerario attraverso i condizionamenti, una sfida che si può vincere o perdere, per la quale sono necessarie tutte le energie di cui disponiamo, è il biolavoro per parafrasare Foucault, dunque è qualcosa che richiede un continuo arricchimento di strumenti conoscitivi e relazionali, un continuo
riciclo di capitale umano, per convivere con l’instabilità e la globalizzazione, superando i limiti della cittadinanza con una mente da apolide»38.
Autonomia e autodeterminazione divengono quindi terreni centrali nei processi di soggettivazione e formazione della composizione di classe. Sotto questa luce, può apparire limitante la sola rivendicazione del “posto fisso” da parte di coloro che al momento sono impiegati in maniera temporanea. Il problema si sposta infatti sulla possibilità di aumentare i propri spazi di autonomia e autodeterminazione, in quell’incrocio tra vita e lavoro che è pienamente investito dalla condizione di precarietà.
Da questa angolazione, gli studenti sono per certi versi figure paradigmatiche di una condizione ibrida, permanentemente al confine tra formazione e mercato del lavoro, tra precarietà di vita e di lavoro appunto39. Nel momento in cui il sistema produttivo sempre più si basa sulla messa a valore di saperi, conoscenze, relazioni, linguaggi, informazioni, è proprio questo confine ad essere messo in discussione. Del resto, la linea di demarcazione tra formazione e lavoro tende a sfumarsi da entrambi i lati: da una parte, stage e tirocini entrano sempre più stabilmente a far parte del percorso dell’istruzione superiore40, connotandosi immediatamente come lavoro non retribuito; dall’altra, cresce il numero di studenti che lavorano durante il percorso di studi, anche se non in maniera continuativa, e perlopiù in modo saltuario e precario41. Nelle mobilitazioni gli studenti hanno individuato un terreno comune con i ricercatori a partire dalla condizione di precarietà, di vita prima ancora che di lavoro, sia nella prospettiva futura sia nella percezione del presente: «La precarietà io la vivo già, dovendomi arrangiare tra mille lavoretti per tirare avanti e per studiare, che già di per sé è un lavoro, ma non retribuito. Insomma, la precarietà è stare in bilico e non sapere domani cosa ti succede, non avere quella sicurezza che ti permette di fare dei progetti, di pensare al futuro in maniera costruttiva»42.
Proprio il percepirsi non più come forza-lavoro in formazione, ma come lavoratori precari a tutti gli effetti, può spiegare perché il picco più alto delle mobilitazioni contro il Ddl Moratti sia stato trainato dagli studenti, a partire (dopo il blocco stradale davanti al Senato del 29 settembre 2005) dall’occupazione della facoltà di Fisica de “La Sapienza” il 10 ottobre 2005, presto diffusasi ad altre facoltà a Roma e in Italia, e culminata con la già menzionata manifestazione del 25 ottobre
38 Bologna, S. (2007), Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro, op. cit., pp. 35-36.
39 Come osserva un dottorando dell’Università di Milano: «Mi pare che la componente più attiva sia costituita
innanzitutto da studenti e dottorandi, da assegnisti e da persone che sono ai primi gradi della carriera accademica» (Intervista a Stefano, Milano, 21 aprile 2004).
40 Secondo il rapporto AlmaLaurea «nel primo livello post-riforma ne hanno svolti il 57,2 per cento dei laureati, mentre
nel vecchio ordinamento meno di un terzo (il 19 per cento)» (Cammelli, A. – Cimini, C. – Mignoli, G. P. (2006), in AlmaLaurea (a cura di), VIII Profilo dei laureati italiano. I primi figli della riforma, op. cit., p. 59).
41 Sempre dalla stessa fonte: «Nel 2005 i lavoratori-studenti rappresentano l’8 per cento del totale dei laureati, gli
studenti-lavoratori il 67 e i laureati senza alcuna esperienza di lavoro il 24 per cento» (Ivi, p. 54).
2005. A partire da una misura legislativa sul lavoro, gli studenti-precari hanno dunque saputo generalizzare la mobilitazione propria e dei ricercatori al complessivo assetto dell’università riformata e ai dispositivi di inclusione differenziale della lifelong learning.
Su questa base è ora possibile allargare lo sguardo oltre il mondo accademico, proprio perché questo risulterebbe un osservatorio troppo limitato per analizzare i percorsi di vita e di conflitto dei precari dell’università. Ciò di permette di descrivere un mercato della formazione – consustanziale e strategico all’interno del mercato del lavoro – composto da una pluralità di attori differenziati (da quelli istituzionali a quelli aziendali, da quelli statali a quelli privati). L’università è solo uno di questi attori, tra l’altro con un deficit di credibilità dal punto di vista delle capacità competitive. L’accumulo formativo dei soggetti sociali – che si sviluppano nella forma del mosaico utilizzata da Berlinguer per descrivere la strategia della sua riforma – passa attraverso i percorsi gerarchizzati attraverso le differenti agenzie. A fianco e intrecciato al mercato ufficiale, comunque irriducibile ad esso, le reti cooperative diffuse e informali del sapere vivo – al cui interno maturano le biografie formative – costituiscono ciò di cui il sistema produttivo non può fare a meno, benché ne ecceda i criteri di misurabilità e quantificazione43. Ne abbiamo una precisa descrizione dalle parole di quasi tutti gli intervistati: «Per me percorso accademico significa percorso universitario, percorso universitario significa che ho iniziato a fare i movimenti nel ’90 e poi nel ’94. Quindi, significa di fatto un’università gestita in maniera collettiva. Ho fatto per anni seminari autogestiti, che sono stati la parte più rilevante di tutta la mia università […] Gran parte della mia formazione è stata fatta là, ed è stata riversata in quello che faccio ora, sia come contenuti, sia come modalità di lavoro. Potrei dire che l’università se ne è appropriata»44; «Penso che le reti informali, le amicizie, i gruppi di cui ho fatto parte abbiano contato probabilmente più di quello che ho appreso studiando e lavorando in questo ambiente. […] Devo dire che la direzione del flusso di sapere va più che altro dalle reti informali all’università, che prende e incamera»45. La produzione del sapere vivo, dunque,
avviene in buona parte in luoghi esterni all’istituzione accademica, che – come si evince dal brano citato – si limita ad appropriarsene, gerarchizzando e segmentando la forza-lavoro. Le competenze e le relazioni sociali accumulate tanto nel mercato ufficiale quanto nelle reti cooperative, per poter essere spendibili sul mercato del lavoro, devono poi essere calcolate tramite la logica
43 Gregory Bateson definisce «deutero-apprendimento» il processo sotterraneo in cui si formano capacità e risorse molto
più importanti di quelle apprese nei programmi di studio formali. Queste ultime saranno ancora più insufficienti nel momento in cui l’individuo si troverà a fronteggiare situazioni nuove e impreviste (Bateson, G. (1976), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano).
44 Intervista a Claudio, Napoli, 9 luglio 2004.
45 Intervista a Simone, Firenze, 26 maggio 2004. Ma potremmo citare altri esempi: «Dovessi pensare a quello che sono
oggi, ha avuto più influenza questo ambiente politico-culturale piuttosto che l’ambiente universitario. Scienze Politiche e Giurisprudenza, soprattutto qua a Roma, sono ambienti accademici estremamente autoreferenziali, chiusi, una torre d’avorio, un condensato dell’autoreferenzialità dell’accademia e allo stesso tempo del braccio culturale dell’élite al potere. I maggiori impulsi culturali li ho quindi trovati fuori dall’accademia» (Intervista a Giuseppe, Roma, 8 luglio 2004).
dell’accreditamento46, dunque attraverso quei tentativi di misurazione e quantificazione cui
sfuggono continuamente.
Nell’insieme, se osserviamo la precarietà dal punto di vista dell’inclusione nella struttura accademica e della posizione occupata dai differenti segmenti della forza-lavoro, risultano con chiarezza le diversità tra le varie figure in cui si scompone il soggetto precario. Da tale angolazione, sono altresì visibili le articolazioni di potere tra le stesse figure all’interno della gerarchia accademica. Nel funzionamento del sistema universitario, infatti, le relazioni tra i docenti precari e gli studenti sono articolate verticalmente. Gli studenti intervistati mettono infatti in evidenza un atteggiamento talvolta «paternalistico» da parte dei primi, che rafforzano spesso tale percezione parlando della «non piena maturità» degli studenti, oppure della necessità di «renderli consapevoli» della situazione in cui vivono. D’altro canto, dottorandi, borsisti, assegnisti e contrattisti risultano in competizione rispetto alla possibilità di guadagnare un posto di ruolo nell’accademia47.
Tuttavia, quelle stesse figure si possono invece ricombinare attorno a un elemento comune proprio nella misura in cui riescono a mettere in discussione i rapporti di potere della struttura accademica, così come la logica complessiva del sistema. Il terreno comune della precarietà ha permesso – anche se forse solo per un periodo limitato – di cambiare le relazioni di potere e le