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PARTE I – IL CONTESTO TEORICO

2.1 Le tecnologie: al di là del bene e del male

«La tecnologia non è né buona né cattiva. E non è neppure neutrale»1. Quanto lo storico delle tecnologie Kranzberg afferma nella sua «legge» costituisce una traccia metodologica importante, anche per analizzare il peso e il significato che le nuove tecnologie assumono nel contesto delle trasformazioni dell’università e del capitalismo cognitivo. Spesso, infatti, i discorsi sulle tecnologie – o sul «regime tecnologico», per dirla con Jan Douwe Van Der Ploeg2 – sono catturati in una dialettica manichea, tra chi ne ha acriticamente esaltato le capacità di immediata liberazione, e chi le ha demonizzati in quanto strumenti di alienazione3. Tentando di sfuggire alla

polarizzazione tra un “bene” e un “male”, preferiamo dunque considerare le tecnologie come cristallizzazione e oggettivazione – temporanea e continuamente aperta al suo mutamento – dei rapporti sociali. Tuttavia, come ci ricorda Kanzberg, le tecnologie non sono neppure neutrali.

Collocandosi in un grande dibattito internazionale, ma soprattutto facendo propria la dirompente critica agita dai movimenti studenteschi nel Sessantotto, Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo de Maria e Giovanni Jona-Lasinio illustravano qualche anno dopo il significato di «non neutralità della scienza»4. Dall’interno della “comunità scientifica”, la ricerca dei quattro fisici era volta a dimostrare l’infondatezza di ogni postulato volto a separare la scienza rispetto al contesto sociale. Ciò non significava ridurre la scienza a puro fattore economico, ma invece saperla interpretare come aspetto specifico delle relazioni di potere di una data società, come funzione determinata della pratica sociale.

Già Thomas Kuhn, come noto, aveva illustrato l’evoluzione non teleologica della ricerca scientifica5. Ogni innovazione teorica radicale6, secondo l’epistemologo americano, non si limita ad aggiungere qualcosa a ciò che è conosciuto: muta invece la concezione del mondo, introduce nuovi

1 Kranzberg, M. (1985), The information age: evolution or revolution?, in Guile, B. R. (a cura di), Information

Technologies and Social Transformation, Nation Academy of Engineering, Washington D.C., p. 50.

2 Van Der Ploeg, J. D. (2006), Oltre la modernizzazione. Processi di sviluppo rurale in Europa, Rubbettino, Soveria

Mannelli.

3 Martinotti, G. (2002), Prefazione, in Castells, M., La nascita della società in rete, op. cit., pp. XI-XXIX. 4 Ciccotti, G. – Cini, M. – de Maria, M. – Jona-Lasinio, G. (1976), L’ape e l’architetto. Paradigmi scientifici e

materialismo storico, Feltrinelli, Milano.

5 Kuhn, T. S. (1969), La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Einaudi, Torino. 6 Nel modello proposto da Kuhn, l’innovazione teorica radicale produce una rivoluzione, quindi una rottura rispetto al

paradigma precedente, mentre la visione “incrementale” o “cumulativa” dello sviluppo scientifico ipotizza un progresso evolutivo basato sulla costante e lineare accumulazione dei contributi degli studiosi in epoche successive.

«paradigmi» che generano modelli inediti nella prassi scientifica. Si tratta perciò di un processo rivoluzionario, che non può essere condotto a termine da un unico uomo, ma è piuttosto frutto di una lunga dinamica di cooperazione e conflitto (per Kuhn quasi solo) all’interno della comunità scientifica. La trasformazione dei paradigmi, dunque, non poggia su un’oggettiva e neutrale idea di progresso, ma vive all’interno di una lotta tra chi tenta di conservare il precedente paradigma e le istituzioni disciplinari ad esso legate, e chi prova invece a introdurne uno nuovo. Ciò permette a Kuhn di stringere un’affascinante analogia tra rivoluzioni politiche e rivoluzioni scientifiche:

«Le rivoluzioni politiche sono introdotte da una sensazione sempre più forte, spesso avvertita solo da un settore della società, che le istituzioni esistenti hanno cessato di costituire una risposta adeguata ai problemi posti da una situazione che esse stesse hanno in parte contribuito a creare. In una maniera più o meno identica, le rivoluzioni scientifiche sono introdotte da una sensazione crescente, anche questa volta avvertita solo da un settore ristretto della comunità scientifica, che un paradigma esistente ha cessato di funzionare adeguatamente nella esplorazione di un aspetto della natura verso il quale quello stesso paradigma aveva precedentemente spianato la strada. […] Analogamente alla scelta fra istituzioni politiche contrastanti, la scelta tra paradigmi contrastanti dimostra di essere una scelta tra forme incompatibili di vita sociale. Poiché ha questo carattere, la scelta non è, e non può essere determinata esclusivamente dai procedimenti di valutazione propri della scienza normale, poiché questi dipendono in parte da un particolare paradigma, e questo paradigma è ciò che viene messo in discussione»7.

La lotta tra differenti paradigmi, dunque, non può essere risolta da supposti criteri neutrali pertinenti alla scienza normale, ma viene decisa dai rapporti di forza tra differenti concezioni della prassi scientifica. Nello schema tracciato da Kuhn l’emergere di un nuovo paradigma determina nel tempo la specializzazione e la costruzione di una disciplina; all’interno del paradigma verranno individuate delle anomalie forti, che portano a una situazione di crisi del paradigma stesso; a questo punto alla resistenza nella comunità scientifica per la sua conservazione si oppone un processo rivoluzionario che determina la mutazione del paradigma.

Ciccotti, Cini, de Maria e Jona-Lasinio avanzano dei dubbi sulla linearità dello schema proposto da Kuhn, sostenendo che nella produzione scientifica che contraddistingue la società capitalistica contemporanea i differenti paradigmi possono «coesistere» – intrecciandosi e configgendo – anziché porsi in maniera esclusiva, dunque il loro emergere non conduce necessariamente all’apertura di un periodo di crisi. Soprattutto, per gli autori de L’ape e l’architetto la prassi scientifica e i conflitti tra paradigmi non devono essere racchiusi unicamente all’interno della comunità degli scienziati, ma vanno indagati nel loro intimo legame con il contesto sociale e con il sistema produttivo. Nello specifico degli anni Settanta, i quattro fisici analizzano così l’affermarsi di un modo di produzione scientifico su base industriale per verificare il nesso tra criterio epistemologico di validità scientifica e organizzazione dell’attività di ricerca. Questa

avviene attraverso il superamento dei «piccoli laboratori» e l’imporsi del «grande laboratorio» come centro della ricerca scientifica. Ciò comporta, secondo gli autori, tre conseguenze:

«In primo luogo, l’organizzazione del lavoro di ricerca tende a diventare indipendente delle finalità della ricerca stessa per essere essenzialmente determinata dalla strumentazione usata. […] In secondo luogo, come nella produzione di merce, il tempo diventa elemento determinante perché il lavoro produca un risultato utile. […] In terzo luogo, si afferma l’adozione di un criterio quantitativo, come per le merci, al fine della determinazione dell’efficienza produttiva, che diventa il metro socialmente riconosciuto del successo. […] La necessità di stabilire un criterio quantitativo di misurazione della produzione scientifica porta infatti a una scala qualitativa di valori che privilegia quei contributi in grado di assicurare la produzione successiva del maggior numero di ulteriori pubblicazioni. La misura del successo di un lavoro è determinata perciò dal numero di citazioni, così come la misura dell’efficienza di una istituzione è misurata dal numero di pubblicazioni prodotte»8.

Tornando al ruolo della scienza, il concetto di neutralità ad essa attribuito – sostengono ancora gli autori – risulta non solo ideologico, ma si qualifica come una forma specifica del feticismo, «che attribuisce a proprietà oggettive intrinseche di questo prodotto dell’attività lavorativa intellettuale e manuale degli uomini ciò che discende dai rapporti sociali che tra di essi intercorrono»9.

È proprio sul rapporto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale che si concentra la ricerca di Alfred Sohn-Rethel10, che utilizza come criterio di analisi la loro separazione storicamente determinata, soprattutto rispetto alle scienze naturali e alla tecnologia. Su questa separazione, sostiene il teorico tedesco, poggia il dominio di classe. Il che non significa, precisa Sohn-Rethel, che possa esistere lavoro umano in cui non agiscano contemporaneamente mano e mente, poiché esso ha come caratteristica peculiare rispetto al comportamento animale l’essere un’attività intenzionale. Il problema è se il risultato perseguito dal processo lavorativo è «nella testa di chi svolge il lavoro o nelle teste di parecchi che compiono insieme il lavoro oppure in una testa estranea che assegna ai lavoratori semplici frammenti del processo, che non fanno loro intendere alcun risultato perseguito, essendo imposti da terzi»11. I rapporti tra mano e mente, ovvero tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, si distinguono e si modificano a seconda dei casi. Il taylorismo, dunque i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro, è letto come culmine di questa separazione, come strumento della lotta di classe dalla parte della direzione aziendale. Più precisamente, sostiene Sohn-Rethel, al massimo della socializzazione del processo lavorativo deve corrispondere il massimo dell’estraneazione dei singoli lavoratori, dunque l’«usurpazione» delle conoscenze operaie come conservazione del comando capitalistico sul lavoro.

8 Ciccotti, G. – Cini, M. – de Maria, M. – Jona-Lasinio, G. (1976), L’ape e l’architetto. Paradigmi scientifici e

materialismo storico, pp. 113-115.

9 Ivi, p. 106.

10 Sohn-Rethel, A. (1977), Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli, Milano. 11 Ivi, p. 91.

L’autonomizzazione della scienza produce quindi la sua cecità concettuale nei confronti della vita sociale, dei rapporti di produzione e delle «potenze» con cui si relaziona, «denaro» e «capitale»12. Lo stesso marxismo, secondo Sohn-Rethel, si è troppo spesso piegato all’accettazione

della verità atemporale delle epistemologie dominanti all’interno delle scienze naturali, vale a dire sulla loro supposta neutralità: si tratta allora di elaborare una teoria materialistica della conoscenza, che parta dal superamento della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Proprio il taylorismo dimostra come lo sviluppo tecnologico non riposa su un pacifico utilizzo del progresso scientifico, ma sul furto e l’usurpazione come veicoli dell’appropriazione: «Così come la proprietà è furto del lavoro del produttore immediato nella transizione dal feudalesimo al capitalismo,» sostiene Aronowitz, «la tecnologia è furto dell’arte dell’artigiano nella transizione dalla sussunzione formale a quella reale del lavoro sotto il capitale»13. L’idea del “furto dei saperi” (artigiani prima, operai successivamente) come base dello sviluppo tecnologico – ipotesi elaborata anche dall’operaismo italiano negli anni Sessanta e Settanta14 – ci permette di situare la questione delle macchine nelle forme di cooperazione del lavoro vivo e di vederle come esito di un conflitto, anziché di un processo armonioso. Ci permette dunque di non separare le innovazioni tecnologiche dai rapporti di potere15.

Tale punto di osservazione può costituire la base su cui mettere a critica il «determinismo tecnologico» che ha tratteggiato molte analisi sulle trasformazioni produttive dell’ultimo quarto di secolo, leggendole come processi legati ad una sorta di razionalità interna allo sviluppo macchinico:

«[Una] difficoltà [rispetto alla conoscenza e all’immateriale nel funzionamento del sistema economico] sta nella visione riduttiva del ruolo della conoscenza propria alla maggior parte delle interpretazioni relative al sorgere di una EFC [economia fondata sulla conoscenza]. Certo, l’interesse di questi approcci è di evidenziare l’esistenza di discontinuità storiche. Tuttavia, l’origine di una EFC è spiegata essenzialmente dalla mutata ampiezza del fenomeno, una sorta di passaggio hegeliano dalla quantità alla qualità. Questa accelerazione della storia è l’esito dell’incontro, a mo’ di shock, di due fattori: da un lato, una tendenza di lungo periodo all’aumento relativo della quota di capitale detto “intangibile” (istruzione, formazione, R&S, sanità), dall’altro, il cambiamento nelle condizioni di riproduzione e trasmissione della conoscenza e dell’informazione grazie alla “diffusione spettacolare” delle nuove tecnologie di comunicazione e informazione (TIC). Quest’ultimo punto contiene senza dubbio una parte di verità, ma comporta almeno due rischi. Il primo è il determinismo tecnologico. Alle TIC viene attribuito un ruolo guida nel passaggio alla “produzione di massa della conoscenza e dei beni immateriali”, secondo uno schema meccanicistico simile all’approccio che – per Thompson – fa della macchina a vapore il vettore che conduce dalla prima rivoluzione industriale alla formazione della classe operaia e alla produzione di massa di beni materiali. Una tale distorsione – come mostra Paulré – è tipica di molti approcci alla New Economy, tendenti a identificare un’EFC con la rivoluzione informatica. Questa visione va di pari passo con l’incapacità di operare una netta distinzione tra il concetto di informazione e quello di conoscenza, dove quest’ultimo si fonda sulla capacità cognitiva di interpretare e mobilitare

12 Ivi, pp. 78-79.

13 Aronowitz, S. (2006), Post-Work. Per la fine del lavoro senza fine, op. cit., p. 150. 14 Alquati, R. (1975), Sulla Fiat e altri scritti, op. cit.

l’informazione, che di per se stessa sarebbe altrimenti una risorsa sterile. Il secondo rischio riguarda il riduzionismo storico di un approccio che, se propone di definire la nozione di EFC come “categoria della storia economica della crescita”, tuttavia tende a considerarla come semplice ampliamento della variabile “conoscenza” nell’economia. La maggior parte degli approcci all’EFC sono, infatti, caratterizzati da una visione positivista e non conflittuale della scienza e della tecnologia che porta ad eludere le contraddizioni sociali, culturali, etiche insite nella dinamica di un’EFC. Da questo punto di vista, forte è la tendenza a trattare la produzione di conoscenza e il progresso tecnologico a prescindere dall’analisi dei rapporti sociali e dei conflitti che, per dirla con Marx, hanno attraversato tutta la storia del capitalismo intorno alla questione cruciale del controllo delle “potenze intellettuali della produzione”»16.

Abbiamo riportato questo ampio stralcio dell’analisi di Lebert e Vercellone poiché ci consente di inquadrare la questione delle tecnologie, specificatamente delle tecnologie informatiche, della comunicazione e dell’informazione, nel contesto dell’ipotizzata transizione al capitalismo cognitivo e delle sue contraddizioni. Non vi è dubbio, come del resto i due autori sostengono, che le nuove tecnologie siano state di eccezionale importanza nel determinare la rivoluzione delle coordinate spazio-temporali in cui le forme di produzione e di vita contemporanee si situano. La rete telematica, in particolare, permettendo un’interconnessione simultanea a livello globale, ha virtualmente eliminato le distanze fisiche e temporali della comunicazione e delle relazioni. Ha agito dunque come uno dei vettori portanti della globalizzazione, del “farsi uno del mondo”. Questo processo, però, non appartiene unicamente a una logica completamente interna allo sviluppo capitalistico. Proprio il caso di Internet è da questo punto di vista esemplificativo. Nato come progetto militare, il world wide web si è sviluppato attraverso le pratiche relazionali degli studenti nei campus americani degli anni Settanta, ed il suo processo di evoluzione è stato ed è oggi tutt’altro che privo di conflitti. Al contrario, nella rete telematica è permanentemente verificabile una lotta tra i sostenitori della libera cooperazione sociale e le grandi corporation, che la inseguono e utilizzano per condurla sotto il segno della proprietà intellettuale, quindi della segretezza e privatizzazione. In termini analoghi, possiamo al contempo sottolineare come la tendenziale socializzazione del lavoro e la crisi della separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale non abbia condotto alla dissoluzione della società divisa in classi, assumendo invece il segno di una nuova forma di capitalismo: il capitalismo cognitivo, appunto.

16 Lebert, D. – Vercellone, C. (2006), Il ruolo della conoscenza nella dinamica di lungo periodo del capitalismo: