PARTE I – IL CONTESTO TEORICO
5.4 La produzione del comune
Affrontiamo ora le implicazioni della dinamica exit-voice dal punto di vista del mutamento sociale, tema affrontato da Steven Pfaff in uno studio sul collasso del regime socialista della Germania Est nel 1989. Partendo dalla non completa soddisfazione per i modelli abitualmente usati nella sociologia e scienza politica, Pfaff ha scelto di mettere alla prova in questo case study la dinamica exit-voice, giungendo a conclusioni non troppo dissimili da quelle di Hirschman precedentemente illustrate62. Il caso della DDR, infatti, smentisce la supposta proporzionalità inversa tra exit e voice, ossia il doppio assunto per cui l’exit indebolirebbe le possibilità di una trasformazione rivoluzionaria, mentre l’abbassarsi dei costi dell’azione collettiva spingerebbe a optare per la voice anziché per l’uscita. La fuga di massa, nonostante gli alti livelli repressivi e di controllo del regime, ha infatti costruito le condizioni di possibilità per la mobilitazione collettiva.
L’opzione «flight», sostiene correttamente Pfaff, non implica il venir meno della necessità della voice: perché la transizione abbia luogo, si deve al contrario combinare virtuosamente con l’opzione «fight», il cui intervento si rivela in ultima istanza decisivo. Tuttavia, potremmo aggiungere che le stesse forme della voice cambiano: sono espressione non più di una battaglia simmetrica per il controllo dello stesso campo, ma di un conflitto asimmetrico teso a difendere ciò che si è materialmente prefigurato nelle reti cooperative della fuga. Descrivendo la riconfigurazione della coppia concettuale schmittiana amico-nemico nella teoria politica dell’esodo, Virno sostiene: «Non c’è rapporto simmetrico fra amico e nemico perché si dà un'apertura di uno spazio diverso, dello spazio pubblico dell'intelletto, proprio perché è iniziata la defezione costruttiva, la sottrazione intraprendente. Non si assiste ad un conflitto all’interno di uno spazio predefinito, in quanto muta lo spazio stesso. […] L’uso della forza non è mai proteso a quella che una vecchia canzone socialista diceva essere il domani, ossia qualcosa che si attende e verso cui ci si protende; il suo principio ispiratore non è uno scopo da realizzare, ma la garanzia del rispetto e la persistenza di ciò che si è costruito fino a oggi, nel cammino dell’esodo. L’uso della forza non innova mai, ma prolunga qualcosa che già c’è; a differenza di quello medioevale, il diritto di resistenza nell’esodo va pensato a partire da autonome espressioni dell’agire cooperativo e da forme di assistenza e di reciproca protezione sorte fuori e contro l'amministrazione statale»63.
Dunque, quello exit-voice è, a tutti gli effetti, un modello valido per indagare il mutamento sociale: ciò ci consente di utilizzarlo nell’analisi dei casi di studio. A scanso di equivoci, converrà da subito sottolineare che la categoria exit descrive una gamma di pratiche e gradi di intensità
62 Pfaff, S. (2006), Exit-Voice Dynamics and the Collapse of East Germany. The Crisis of Leninism and the Revolution
of 1989, Duke University Press, Durham – London.
estremamente differenziata, che va dalla mobilità all’interno del mercato del lavoro come strumento di autovalorizzazione alla costruzione di istituzioni autonome. Pur facendo attenzione a non confonderli, ci proponiamo al contempo di indagare nei nostri case studies le possibili connessioni all’interno del complesso spettro delle opzioni di fuga. Per ora, ci limitiamo a poggiare sul nuovo modello exit-voice, che descrive l’asimmetricità del conflitto tra autonomia e subordinazione del sapere/lavoro vivo, la categoria di comune e della sua produzione. Definiamo in questi termini il processo di liberazione e trasformazione dai rapporti di sfruttamento, laddove è fallita l’opzione della presa del potere statale. Spiazzando il culto liberale dell’individualismo e il mito socialista del collettivo, il comune ha in sé i concetti di molteplicità e di singolarità: tale categoria non è quindi affatto imparentata con l’universalismo di matrice illuminista, fondato sull’idea di omogeneità e uniformazione. Il comune non è neppure un dato di origine, identificabile con gli elementi naturali, oppure con una vagheggiata “cultura” o “essenza” della comunità distrutta dall’affermazione del capitalismo. È invece prodotto dalle forme di cooperazione e soggettività esistenti all’interno dei rapporti sociali, cioè dei rapporti di sfruttamento e di conflitto64.
Da questa angolazione, è certamente perspicua la considerazione di Massimo De Angelis, tesa a evidenziare come esista un “comune capitalistico” identificabile con la misura dello sfruttamento: «What is really common across the “multitude“ is that our production in common in so far as capital production is concerned, occurs through the subjection of multiplicity to a common alien measure of doing, of giving value to things, of ranking and dividing the social body on the basis of this measure. […] We are faced here with the strategic attempt to launch a new wave of enclosures and disciplinary integration that recreate the “fucked up” commons that capital attempts to impose on all of us: that of its measure of life processes»65. È proprio questo “comune capitalistico”, continuamente messo in discussione e riaffermato dai rapporti di lotta e di potere, il framework in cui i processi di liberazione vanno pensati. Come osserva Read: «What human individuals have “in common” is not some abstract idea of humanity but their specific relations, which are constituted each moment in multiple forms»66. Il “comune capitalistico”, dunque, si alimenta solo nell’espropriazione del comune prodotto dalle reti della cooperazione sociale. In questo senso abbiamo parlato dell’accumulazione originaria un processo non confinabile ad un punto storico, l’oscura notte in cui il capitalismo è nato: essa si deve ripetere continuamente per
64 Così Read definisce il comune: «This movement is nothing other than the restaged and enlarging conflict between the
collective productivity/production of subjectivity and the continual attempt on the part of capital to reduce this production to the valorization of existing capital» (Read, J. (2003), The Micro-Politics of Capital. Marx and the Prehistory of the Present, op. cit., p. 155).
65 De Angelis, M. (2007), Measure, excess and translation: some notes on “cognitive capitalism”, op. cit. 66 Read, J. (2003), The Micro-Politics of Capital. Marx and the Prehistory of the Present, op. cit., p. 23.
privatizzare ciò che è comune e per mercificare le condizioni di produzione e riproduzione67. Allo stesso modo, il capitalismo cognitivo poggia la sua ragione di vita e la sua possibilità di riproduzione alla continua espropriazione del sapere vivo.
La transizione capitalistica è dunque tratteggiata da un incessante processo di espropriazione e di traduzione del sapere/lavoro vivo in sapere/lavoro astratto, del comune in “comune capitalistico”. Proprio il tema della traduzione è al centro dell’analisi che Tsing propone del neoliberalismo: «The global spread of liberalism depends on translation. The terms through which liberalism is to be enacted must be made accessible in new locales. Liberalism is perfectly reproduced only if its language finds universal equivalents. In fact, translation carries cultural genealogies from an original language even as it takes on new genealogies of thought and action from the new language. Concepts are transformed in translation»68. Come sottolineano Naoki Sakai e Jon Solomon, la traduzione nomina il processo di codificazione/decodificazione richiesto per trasferire contenuto informazionale tra differenti sfere culturali-linguistiche69. Sakai insiste sul fatto che la traduzione è una pratica che produce una differenza a partire da una incommensurabilità, non una equivalenza a partire da una differenza. Da qui, il filosofo giapponese opera una distinzione tra traduzione omolinguale e traduzione eterolinguale. La traduzione omolinguale è l’affermazione/imposizione di un codice linguistico unico e universale. Potremmo dire, utilizzando le categorie marxiane, che è la riduzione del lavoro vivo a lavoro astratto. La traduzione eterolinguale è invece quella che avviene tra più soggetti che, nel loro incontro, ibridano i propri codici, producendo un nuovo linguaggio70. Quella eterolinguale è quindi la traduzione dei conflitti e delle resistenze, del tempo eterogeneo e piano, è il piano su cui è possibile la comunicazione e la circolazione delle lotte a livello globale. Ciò significa che i processi di resistenza non possono comunicare tra loro attraverso un codice unico e universale, quello della Storia 1 per usare le suggestioni di Chakrabarty, cioè attraverso la loro riduzione a una forma astratta e vuota che permette lo scambio tra equivalenti; possono invece essere tradotti nel linguaggio della singolarità e del molteplice che caratterizza la Storia 2.
Così interpretata, al di fuori di qualsiasi teleologia della storia e progressione stadiale, ma invece carica di rapporti sociali di espropriazione e resistenza, il processo di transizione capitalistico pone immediatamente il problema dei suoi possibili punti di rottura e di liberazione della potenza della cooperazione sociale. Il comune capitalistico, dunque, deve continuamente sussumere il
67 Ivi, p. 27.
68 Tsing, A. L. (2005), Friction. An Ethnography of Global Connection, op. cit., p. 224.
69 Sakai, N. – Solomon, J. (2007), Translation, biopolitics, colonial, consultabile su http://www.edu-
factory.org/index.php?option=com_content&task=view&id=45&Itemid=33difference
70 È, ad esempio, la forma di comunicazione prodotta dall’incontro di due stranieri che utilizzano una terza lingua,
chiaramente diversa da quella abitualmente parlata da ognuno dei due, ma differente e innovativa anche rispetto a quella prescelta come strumento di comunicazione.
comune del sapere/lavoro vivo, ma non lo può eliminare né totalmente controllare. Al contempo, la possibilità di costruire istituzioni autonome, come vedremo più dettagliatamente nella parte empirica, deve confrontarsi con la necessità di incidere sulle basi sociali dello sfruttamento, pena limitarsi a rappresentare una nicchia ininfluente, o addirittura completamente funzionale alla riproduzione dei rapporti sociali dominanti. Per usare i termini di Hirschman e Pfaff, l’organizzazione dell’exit non può rinunciare alla voice, sebbene quest’ultima assuma nuove forme.