PARTE I – IL CONTESTO TEORICO
3.1 Le trasformazioni dell’università nel capitalismo cognitivo
Se saperi, conoscenze e linguaggi diventano il prisma attraverso cui leggere i mutamenti produttivi1, i sistemi di istruzione superiore sono un osservatorio privilegiato per analizzarne le dinamiche. In questa prospettiva, c’è chi si è interrogato sul passaggio a «un’università post- fordista»2, chi ha indagato le nuove forme assunte dalla «fabbrica della conoscenza»3 e chi ha ipotizzato la nascita di un «capitalismo accademico»:
«We call institutional and professional market or marketlike efforts to secure external moneys
academic capitalism. […] Of course, the word capitalism connotes private ownership of the
factors of production – land, labor, and capital – and considering employees of public research universities to be capitalists at first glance seems a blatant contradiction. However, capitalism also is defined as an economic system in which allocation decisions are driven by market forces. Our play on words is purposeful. By using academic capitalism as our central concept, we define the reality of the nascent environment of public research universities, an environment full of contradictions, in which faculty and professional staff expend their human capital stocks increasingly in competitive situations. In these situations, university employees are employed simultaneously by the public sector and are increasingly autonomous from it»4.
Indipendentemente dalla definizione scelta, e dai differenti contesti e modelli di governance accademica, la sempre più stretta compenetrazione tra mercato e istruzione superiore, la diffusione del modello aziendale nel management delle università e l’importanza del ruolo della proprietà intellettuale sono tendenze non perimetrabili ai confini dei singoli stati-nazione, ma connesse a livello globale. In questo quadro, come si mostrerà nel presente lavoro, la precarizzazione del
1 Cfr. Marazzi, C. (1994), Il posto dei calzini, op. cit.; Rullani, E. (2004), Economia della conoscenza. Creatività e
valore nel capitalismo delle reti, Carocci, Roma.
2 Vaira, M. (2003), Verso un’Università post-fordista?, op. cit., pp. 337-355.
3 Aronowitz, S. (2000), The Knowledge Factory: Dismantling the Corporate University and Creating True Higher
Learning, Beacon Press, Boston.
4 Leslie, L. L. – Slaughter, S. (1997), Academic Capitalism. Politics, Policies, and the Entrepreneurial University, The
lavoro, ma anche l’insorgenza di nuove forme di mobilitazione dei ricercatori precari, emergono come un trend comune sul piano transnazionale.
Secondo alcuni studiosi, esiste – almeno dal punto di vista simbolico – un anno cruciale nei rapporti tra università e mercato negli Stati Uniti, il 1980. È questo infatti l’anno della promulgazione del Bayh-Dole Act, che spinge le università americane a intensificare l’utilizzo dei diritti di proprietà intellettuale per le ricerche prodotte con fondi federali: «The various forms this use has taken include the filing of patent applications and the formation of new firms based upon rights that the law transferred from the federal government to the universities»5. Andrew Ross
spiega con chiarezza le conseguenze della legislazione del 1980:
«Il ponte tra accademia e industria è stato strettamente regolato dal Bayh-Dole Act del 1980, con l’intenzione di promuovere l’innovazione americana di fronte alla competizione internazionale: il disegno era di rendere le risorse universitarie più imprenditoriali. Per lo sviluppo delle accademie si è spalancata la parte dello stretto legame con le corporation, la tendenza è stata la diminuzione dei finanziamenti pubblici in favore di una crescita della dipendenza dai fondi esterni, specialmente per la ricerca scientifica, ma anche per le scienze sociali e le humanities, che hanno emulato le facoltà scientifiche nel chiedere la partnership con le industrie. Il Bayh-Dole Act ha dunque incoraggiato le università a dare la priorità alla ricerca rilevante dal punto di vista commerciale. Il corpo docente è stato convertito in questo modo di pensare all’includersi in un ruolo di stakeholder. La scienza applicata e le scienze imprenditoriali hanno mirato al trasferimento di tecnologia perché la linea di frontiera per finanziarsi come università è diventata investire in start-up, proprietà reali delle holding, e opportunità che dovrebbero rafforzare il loro possesso della proprietà intellettuale (copyright, brevetti, marchi registrati). Per esempio, le università americane adesso possiedono la maggior parte dei brevetti sulle sequenze del Dna, e molti scienziati siedono nei consigli di amministrazione delle corporation o hanno stretti legami con imprese di questo tipo. Inevitabilmente, le istituzioni non-profit hanno preso il carattere di for-profit»6.
Tuttavia, se la legislazione del 1980 può essere considerata una cartina di tornasole attraverso cui leggere nitidamente l’intensificazione dei rapporti tra università, mercato e corporation, tali legami non sono affatto inediti, ma hanno invece una lunga storia negli Stati Uniti7. Harvey descrive il nuovo ruolo delle università a partire dalla centralità della produzione di saperi in quello che lui definisce regime di accumulazione flessibile: «Universities and research institutes compete fiercely for personnel as well as for being first in patenting new scientific discoveries […]. Organized knowledge production has expanded remarkably over the past few decades, at the same time as it has been increasingly put upon a commercial basis […]. The celebrated Stanford Silicon Valley or the MIT – Boston Route 128 ‘high-tech’ industry connections are configurations that are quite new and special to the era of flexible accumulation»8. La stessa categoria di corporate
5 Etzkowitz, H. – Leydesdorff, L. (1998), The Triple Helix as a Model for Innovation Studies, disponibile su
http://users.fmg.uva.nl/lleydesdorff/th2/spp.htm
6 Intervista ad Andrew Ross, New York City, 26 maggio 2006.
7 Cfr. Newfield, C. (2003), Ivy and Industry. Business and the Making of the American University, 1880-1980, Duke
University Press, Durham.
university è perspicua nella misura in cui coglie il divenire impresa della gestione complessiva dell’istruzione superiore, rischiando al contrario di essere riduttiva o addirittura fuorviante se limitata alle istituzioni private, nella classica dialettica che le vede alternative o complementari al pubblico, erroneamente inteso come statale. Da questo punto di vista, infatti, il sistema universitario americano – al contrario di quello italiano9 – è leggermente più privato che pubblico rispetto al numero delle istituzioni, ma è ampiamente più pubblico che privato per quanto riguarda le iscrizioni degli studenti, in un rapporto che si aggira intorno all’80% contro il 20%10.
L’inadeguatezza della dialettica pubblico-privato nell’analisi dei mutamenti in corso è illustrata in modo convincente e sintetico da Stadtman: «State colleges and universities operated much like private institutions except for the fact that their programs are subject to review by public commissions or officials before they can be executed»11. L’assunzione del modello della corporation da parte del sistema universitario si esplica in alcuni tratti fondamentali:
- lo spostamento dei fondi dal settore pubblico a quello privato; - la gestione manageriale delle istituzioni accademiche;
- lo stretto legame tra università, mercato, industrie e sistema della proprietà intellettuale; - la concentrazione del potere verso l’amministrazione;
- la sempre maggiore pressione sui docenti affinché adottino funzioni e compiti manageriali12 («anche se, come Clark Kerr13 aveva a suo tempo profetizzato, gli accademici sono ora più “inquilini” che “proprietari” delle istituzioni universitarie»14);
- il crescente ruolo corporate delle università nei contesti metropolitani e transnazionali.
Se negli Stati Uniti e in altri contesti internazionali le trasformazione che hanno segnato l’università e il sistema formativo sono state accompagnate da una ricca letteratura in grado di analizzarne senso e orientamenti di fondo, non altrettanto è avvenuto in Italia. Ciononostante, non sono certo mancati importanti lavori di ricerca sul tema, di cui si darà sinteticamente conto nel testo. Partiamo da una constatazione: a prendere parola sull’università sono stati spesso i docenti, che ne
9 Secondo i dati del Miur del 2005-2006, il sistema universitario italiano è composto da 63 atenei statali, 16 privati (di
cui 3 telematici) e 3 scuole speciali (Miur (2006), Guida all'Istruzione Superiore e alle Professioni 2006, disponibile su http://www.pubblica.istruzione.it/news/2006/guida_universita.shtml).
10 Cfr. Leslie, L. L. – Slaughter, S. (1997), Academic Capitalism. Politics, Policies, and the Entrepreneurial University,
op. cit.; Intervista a Guido Martinotti, New York City, 18 aprile 2006.
11 Stadtman, V. (1992), United States, in Clark, B. – Neave, G. (a cura di), The Encyclopedia of Higher Education,
Pergamon Press, New York, p. 782.
12 Cfr. Rhoads, R. A. – Torres, C. A. (a cura di, 2006), The University, State, and Market. The Political Economy of
Globalization in the Americas, Stanford University Press, Stanford; Ruch, R. S. (2001), Higher Ed, Inc. The Rise of the For-Profit University, The Johns Hopkins University Press, Baltimore.
13 Clark Kerr è stato chancellor a Berkeley dal ’52 al ’58, presidente della University of California dal ’58 al ’67, dal
’67 all’80 chairman della Carnegie Commission on Higher Education (poi Carnegie Council), istituzione che ha fatto una delle più ampie e importanti survey sull’istruzione superiore negli Stati Uniti.
hanno spesso descritto il funzionamento a partire dal racconto dell’esperienza personale15. Le interpretazioni e i giudizi che ne emergono sono nella maggior parte dei casi particolarmente critici rispetto alla struttura universitaria (di cui vengono sottolineate le incongruenze gestionali, i labirinti burocratici, la mancanza di fondi ecc.), senza però mettere quasi mai in discussione il più generale processo di aziendalizzazione16 del sistema formativo in connessione con i mutamenti produttivi e delle forme del lavoro, e tutto sommato interrogandosi solo parzialmente sul ruolo dei saperi17 e sulla stessa figura del docente. Al contrario, nella richiesta di una maggior produttività, efficienza, aziendalizzazione e di un attacco ai privilegi dei docenti, alcuni di questi testi potrebbero essere letti come il background delle recenti riforme italiane (Berlinguer, Zecchino e Moratti) ed europee (il cosiddetto Bologna Process, che ha preso avvio dalla Conferenza tenutasi nella città emiliana nel 1999, evento e data simbolica al pari del Bayh-Dole Act del 1980), e della legge Moratti sul «riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari». È questo ad esempio il caso di Raffaele Simone (un «docente pentito», secondo la sua stessa definizione) e della denuncia dei «tre tradimenti» dell’università (nei confronti dello Stato, della ricerca e degli studenti) che campeggiano nel titolo di un suo volume. La ricetta da lui consigliata è a base di selezione, incentivazione della competizione tra gli atenei, quantificazione dei criteri dello studio, dell’insegnamento e della ricerca, una sorta di «colpevolizzazione» del «fuoricorsismo» (e persino – per dirla con Foucault – sua medicalizzazione, attraverso strutture di psicologi, onde evitare i costi pubblici di un «capitale umano» immobilizzato), contratti molto flessibili (all’insegna della «sana paura di perdere il posto»), robuste iniezioni di mercato, fino ad arrivare all’«impresizzazione» del singolo docente18.
D’altro canto, il processo di riforma del sistema di istruzione superiore italiano poggia su un variegato retroterra di legittimazione politica e culturale; benché non tematizzata in modo esplicito, e affrontando solo raramente i nodi della didattica e dei contenuti formativi, da tempo si evidenziava l’urgenza di un intervento che cambiasse i connotati della struttura universitaria italiana. Un superamento dell’università di massa che, tuttavia, ha preso le forme di ciò che è stata definita licealizzazione, ossia dequalificazione dell’istruzione superiore e del valore dei titoli di studio. Difendendo l’operato di Berlinguer, ad esempio, Umberto Eco sosteneva nel 1999 la necessità di una contrazione del livello formativo: l’importante era avere più laureati, anche se
15 Cfr. De Mucci, R. – Sorcioni, M. (1996), La babele dell’università, IdeAzione, Roma; Fondi, R. (2003), Università
riformata o demolita?, Asefi, Milano; Simone, R. (2000), L’università dei tre tradimenti. Un dossier ancora aperto, Laterza, Roma-Bari.
16 Coerentemente con quanto affermato precedentemente, con processo di aziendalizzazione non ci si riferisce solo alla
sempre maggiore commistione tra imprese e sistema formativo, ma innanzitutto al divenire azienda dell’università stessa.
17 Sui nessi tra produzione di conoscenza, organizzazione scientifica, mercato del lavoro e competenze professionali si
articola il testo di Meghnagi, S. (2005), Il sapere professionale. Competenze, diritti, democrazia, Feltrinelli, Milano
meno preparati. Da questo punto di vista, secondo Eco, il processo avviato da Berlinguer faceva ottimamente fronte al problema. Si può dire che sia questa la vera filosofia della riforma, secondo cui il mondo della formazione e il mercato del lavoro hanno bisogno di molte persone addestrate e pochi geni. In tale prospettiva, l’architrave del “3+2” è il “3”19, ossia la laurea di base20. In altri termini, la cosa importante per l’Italia è riuscire a mantenersi al passo – sulle fredde tavole di dati e statistiche – con la media dei laureati a livello europeo, così come ogni azienda universitaria deve la propria vita alla capacità di competere con le altre agenzie formative (atenei e non solo), offrendo le attrattive maggiori (ossia sfornando velocemente un alto numero di certificati), prontamente tradotte nel linguaggio merceologico del marketing21.
In questo quadro, non mancano le eccezioni critiche. È questo il caso di Maurizio Ferraris, che propone la suggestiva immagine di un’università modellata sullo stile Ikea, caratterizzata dalla frammentarietà e scomponibilità dei saperi, in cui un malinteso adattamento alle esigenze del mercato ha la meglio sulla qualità22. In quanto ridotta ad «ammortizzatore sociale e [a] fabbrica di titoli a bassissimo costo»23, l’università si rivela – secondo il docente torinese – completamente inadeguata rispetto alle promesse della knowledge society24:
«Nel momento in cui più si predica, e a giusto titolo, la necessità di arricchire le competenze (e questo arricchimento può venire solo dalla conoscenza dei princìpi), in un mondo lavorativo che cambia e cambierà sempre più, proliferano dei corsi di laurea che più applicativi non si può»25.
Sembrerebbe dunque essersi affievolito lo spazio di dibattito e sperimentazione dentro il sistema formativo apertosi negli anni Settanta attraverso la tensione diffusa tra docenti e ricercatori
19 Cfr. Fasanella, A., Analisi longitudinale dei flussi delle immatricolazione ai corsi di laurea sociologici, relazione al
convegno AIS-Facoltà di Sociologia, L’impatto della riforma universitaria del “3+2” sulla formazione sociologica, Roma, 12 dicembre 2005.
20 Tale idea è stata, tra l’altro, ampiamente messa in crisi dalle scelte degli studenti: solo una piccola percentuale si
ferma dopo il conseguimento della laurea di base, quasi tutti scelgono di proseguire con la specialistica.
21 Negli ultimi anni, parallelamente all’assenza di discussione sulle trasformazioni dell’università nel sistema
produttivo, si sono invece moltiplicati i testi sul suo marketing. Per limitarci a due soli esempi: Mazzei, A. (2000), La comunicazione per il marketing dell’università, Franco Angeli, Milano; Boldrini, M. – Morcellini, M. (a cura di, 2005), Un’idea di Università. Comunicazione universitaria e logica dei media, Franco Angeli, Milano.
22 Ferraris, M. (2001), Una Ikea di università, Raffaello Cortina, Milano. 23 Ivi, p. 104.
24 I contenuti, gli orientamenti e le aspettative di una società in cui la conoscenza diventa risorsa centrale, sono
chiaramente delineati – nel quadro del processo di unificazione europea – dalla Strategia di Lisbona (si veda http://www.istruzione.it/buongiorno_europa/lisbona.shtml). Per un approfondimento sul tema si veda Reding, V. (2004), L’Europa della conoscenza: elemento chiave della Strategia di Lisbona, in Vittadini, G. (a cura di), Capitale umano. La ricchezza dell’Europa, Guerini e Associati, Milano. Così Andrea Ricci analizza i primi risultati della Strategia di Lisbona: «In quell’occasione i capi di Stato e di governo europei hanno lanciato un programma decennale di interventi e di strategie volte a fare dell’Europa la principale economia innovativa del mondo nell’arco di un decennio. Gli assi attorno ai quali si è mossa la strategia di Lisbona sono stati la deregolamentazione dei mercati, in particolare di quello del lavoro, per incrementare il grado di concorrenza e di efficacia interna, e la qualificazione professionale della forza lavoro. A cinque anni di distanza dal vertice portoghese possiamo dire che il ritardo tecnologico dell’economia europea si è notevolmente aggravato. È difficile negare il fallimento di quella strategia e il fatto che le ricette di Lisbona non abbiano sortito alcun effetto positivo, perché erano sbagliate le analisi su cui si fondavano» (Ricci, A. (2004), Dopo il liberismo. Proposte per una politica economica di sinistra, op. cit., pp. 102-103).
a un rinnovamento dal basso della didattica, di cui le 150 ore hanno costituito uno degli esempi più significativi. Al contempo, si è riscontrata una certa delusione per le possibilità che la legge 382/80 sembrava aver dischiuso, in particolare attraverso l’istituzione dei dipartimenti e del dottorato; come Martinotti e Moscati hanno fatto notare già due anni dopo, si è rimasti ben lontani da un progetto di innovazione organico, soprattutto in quanto pressoché innominato è risultato l’aspetto della didattica26.
Nelle analisi correnti, il nodo problematico e irrisolto sembra spesso consistere nella contestualizzazione della trasformazione delle istituzioni formative all’interno dei più generali mutamenti del sistema produttivo e sociale dell’ultimo quarto di secolo, che sono per brevità riassumibili nella formula del passaggio dal “fordismo” al “postfordismo”. È proprio tale questione ad essere tematizzata da Massimiliano Vaira in un numero della Rassegna Italiana di Sociologia del 2003 (su cui ritorneremo più avanti per la perspicua comparazione offerta tra diversi sistemi formativi in Europa). Partendo dalla domanda se è lecito parlare di un’università postfordista per descrivere la ridefinizione del suo ruolo istituzionale e delle pratiche organizzative all’interno dei grandi cambiamenti a cavallo tra XX e XXI secolo, Vaira giunge alla conclusione che è più opportuno assumere la prospettiva della «logica adattiva», secondo cui esistono modificazioni o alterazioni nell’organizzazione o in alcune sue parti. Dunque, più che un evento che segna il passaggio da uno stato a un altro, si tratta di una dinamica di cambiamento processuale, in cui convivono «elementi postfordisti e tradizionali in una qualche particolare configurazione e con diverse intensità»27. La chiave interpretativa offerta da Vaira consente anche di problematizzare un’interpretazione lineare dei processi di cambiamento sociale e produttivo, incardinando quindi l’analisi a partire dagli elementi di compresenza tra le differenti forme e tempi della produzione e del lavoro precedentemente analizzati, e che si ripropone anche in una delle istituzioni-chiave del capitalismo cognitivo.
I processi di aziendalizzazione del sistema universitario sono stati affrontati dagli analisti incentrando l’attenzione soprattutto sulla politica dell’autonomia da una parte e sull’individuazione di criteri di governance, accountability e new managerialism dall’altra. Per quanto riguarda il primo aspetto, le approfondite ricerche di Giliberto Capano mettono in evidenza come, dalla legge 168/89 in avanti, tale politica si è concretizzata come autonomia finanziaria e amministrativa molto più che didattica, costringendo i singoli atenei a pensarsi come aziende che si devono procacciare fondi, all’interno di un quadro del percorso formativo disegnato a livello centrale. La politica dell’autonomia configura dunque, afferma Capano, «un ruolo diverso dello Stato che non significa,
26 Cfr. Martinotti, G. – Moscati, R. (a cura di, 1982), Lavorare nell’università oggi. Esperienze di didattica nella crisi
dell’istruzione superiore, Franco Angeli, Milano.
in realtà, meno Stato, quanto piuttosto “un diverso Stato”»28. Se nella tradizione anglosassone esiste un relativo grado di indipendenza del corpo docente rispetto al potere centrale, il sistema accademico dell’Europa occidentale si è sempre caratterizzato per una stretta relazione con lo Stato e la forte gerarchizzazione interna. Caldeggiando una più decisa politica di autonomia, Capano sottolinea quindi come «l’organizzazione piramidale del sistema di governo universitario mancava di una struttura intermedia capace di mantenere legami sufficientemente congruenti tra il vertice (il centro del sistema) e la periferia (i singoli cattedratici). Tale mancanza era riconducibile all’assenza di autonomia e identità istituzionale delle strutture intermedie: le amministrazioni universitarie e le facoltà»29. In altri termini, è come se potere centrale e governo universitario si fossero divisi le
rispettive sfere di gestione.
Secondo alcuni osservatori critici dei processi di riforma dell’ultimo decennio, l’autonomia è innanzitutto una retorica che serve in realtà a coprire processi di ulteriore centralizzazione e statalizzazione, come del resto sembrerebbero confermare il noto caso del commissariamento del Cnr nel 2002 e l’impianto stesso della riforma Moratti della scuola, che attribuisce potere di nomina e revoca dei dirigenti scolastici all’autorità politica regionale30. L’autonomia si configura piuttosto – afferma ancora Capano – come un «particolare modo attraverso il quale lo Stato cerca di governare e rendere efficiente ed efficace il comportamento delle università. […] I governi hanno cercato di costruire, con maggiore o minore successo a seconda dei casi nazionali, delle politiche orientate a delimitare un “quasi-mercato” universitario attraverso una competizione regolata dal centro del sistema. […] La politica delle autonomie, quindi, non significa una politica con “meno Stato”, ma una politica in cui il potere pubblico governa in modo diverso, giocando il ruolo di regolatore a distanza del sistema universitario»31. L’autonomia «altro non è che uno strumento di politica pubblica utilizzando il quale il governo può intervenire per mettere in opera le proprie strategie nel