PARTE I – IL CONTESTO TEORICO
5.1 Il contesto europeo e globale del processo di trasformazione dell’università
Abbiamo fino ad ora individuato un trend strutturale di fondo che rende immediatamente comparabili le differenti declinazioni nazionali e macroregionali dei processi di trasformazione dell’istruzione superiore, in quanto interrelati con i mutamenti produttivi, del lavoro e i processi di globalizzazione. In particolare, l’attenzione si è appuntata su due trend comuni a livello globale, cioè il processo di precarizzazione (pur nella diversità di retribuzioni e possibilità per gli incarichi temporanei e intermittenti, tema che verrà approfondito nella parte empirica) e la quantificazione dei saperi come passaggio indispensabile alla loro appropriazione privata e dunque al divenire azienda dell’università. A questi ne va aggiunto almeno un terzo, definibile come il passaggio da meccanismi selettivi basati sull’esclusione a meccanismi di inclusione differenziale1. In altre parole, nel quadro del sistema di accreditamento permanente il curriculum di una persona non dipende più solo dal fatto se abbia frequentato l’università, ma innanzitutto da quali istituzioni di istruzione superiore ha frequentato, formali e informali. La frequenza di istituti qualificati, master, corsi professionali o luoghi non formalmente riconosciuti, infatti, non serve solo all’accreditamento delle proprie competenze formative, ma spesso è utilizzato per accumulare capitale sociale e relazionale. Detta in termini sintetici, se in Italia fino agli anni Sessanta il collo della bottiglia della selezione era molto stretto, collocato tra la fine delle scuole superiori e l’ingresso all’università, esso si è andato via via allargando2, incalzato dai movimenti sociali prima ancora che dalle necessità di razionalizzazione endogene del sistema capitalistico3. È infatti il Sessantotto che fa saltare il collo della bottiglia, inaugurando ciò che prenderà le forme dell’università di massa. Ora, il problema per i governi italiani non è restringere gli accessi, bensì aumentarli, per non restare indietro nelle
1 Già negli anni Settanta Pierre Bourdieu analizzava la trasformazione del sistema dell’istruzione secondaria nei termini
di un passaggio da criteri selettivi netti e dai confini ben delimitati, a processi di inclusione che potremmo appunto definire differenziali (cfr. Bourdieu, P. (1983), La distinzione. Critica sociale del gusto, op. cit.).
2 Dai 268.000 iscritti all’università negli anni Sessanta in Italia, si è passati a circa 1,8 milioni studenti oggi. 3 Lo sottolineano, implicitamente, Stanchi e Trombetti analizzando l’ampliamento delle figure in possesso di
competenze elevate: «A questo processo sociale ed economico, ha fortemente contribuito, sulla spinta al rinnovamento impresso dal movimento degli studenti, la liberalizzazione degli accessi all’università (legge 910/1969) che ha
consentito l’iscrizione a qualsiasi corso universitario, a prescindere dal tipo di diploma secondario conseguito» (Stanchi, A. – Trombetti, A. L. (2006), Laurea e lavoro. Tra aspettative degli studenti ed esigenze del mondo del lavoro, op. cit., p. 13).
statistiche europee ed internazionali. Tra i paesi dell’OCSE, infatti, l’Italia è quello che ha meno laureati in quasi tutte le fasce di età: possiede un titolo di studio universitario appena il 12% della popolazione in età compresa tra i 25 e i 34 anni, ben al di sotto del 22% registrato dalla Germania, molto distante dal 33% del Regno Unito, dal 37% della Francia o dal 38% della Spagna4. Il processo di inclusione si è accompagnato tuttavia ad una dequalificazione dei saperi: ciò che viene definita come licealizzazione dell’università altro non è che un innalzamento degli step attraverso cui guadagnare competenze e skill spendibili sul mercato del lavoro. Un processo non dissimile, anche se storicamente precedente, è descrivibile negli Stati Uniti, laddove i meccanismi selettivi non riguardano solo le variabili di classe e in misura differente di genere, come in Italia, ma anche e in modo precipuo di razza. Anche nei college americani, tuttavia, possiamo leggere un segno di parte nella crisi dei meccanismi classici di esclusione: da questo punto di vista, le affirmative action sono state una risposta alle lotte dei neri degli anni Sessanta e Settanta, come alcuni teorici si sono incaricati di dimostrare anche dal punto di vista statistico5. Ciò non significa, ovviamente, la scomparsa dei meccanismi di esclusione, quanto piuttosto lo spostamento dei processi di conflitto sulla qualità dell’inclusione: dal fuori al dentro.
Questa è anche l’ipotesi sostenuta da Vercellone, che legge proprio nei conflitti che hanno portato alla scolarizzazione di massa e all’intellettualità diffusa, quindi alla messa in discussione della tradizionale divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, la radice della crisi del rapporto sociale fordista:
«Nella sua lettura dello sviluppo della divisione capitalistica del lavoro Marx riconosce un ruolo centrale alle lotte per la socializzazione dell’istruzione le cui finalità (“abolizione della vecchia divisione del lavoro”) sono “diametralmente antitetiche” alla dinamica della sussunzione reale. In questo senso è possibile affermare per Marx lo sviluppo di una scolarizzazione di massa era una delle condizioni essenziali che avrebbe permesso ai salariati di accumulare un sapere “tecnologico teorico e pratico” adeguato al livello raggiunto dallo sviluppo capitalistico della divisione tecnica e sociale del lavoro e in condizione, allo stesso tempo, di intraprenderne il superamento. In realtà è proprio sotto la spinta di una dinamica conflittuale e non solamente per la necessità di adattare il sistema della formazione alle esigenze del mercato del lavoro, che lo Stato è stato condotto a sviluppare progressivamente l’insegnamento pubblico, socializzando una parte dei costi della riproduzione della forza lavoro al di fuori della logica mercantile. La scolarizzazione di massa e lo sviluppo di un’intellettualità diffusa renderanno infatti il sistema educativo un luogo centrale della crisi del rapporto salariale fordista»6.
In questo framework, la classica rivendicazione del diritto allo studio, caratteristica dei movimenti studenteschi degli ultimi decenni, perde la sua incisività. La garanzia del diritto allo studio sembra diventare una delle maggiori preoccupazioni del governo italiano per risalire nelle
4 Ivi.
5 Facciamo qui riferimento alle correlazioni tra lotte dei neri e accesso alle università di élite discusse da Jerome
Karabel nel seminario tenuto alla NYU il 20 aprile 2006, dal titolo The Origins of Affirmative Action at Elite Universities: A Discussion with Berkeley Professor.
statistiche internazionali sul numero dei laureati, oltre che uno dei motivi centrali che hanno animato il processo di riforma. Il problema è che all’estensione del diritto allo studio corrisponde un processo di dequalificazione dei saperi e dei titoli. Dunque, le battaglie sull’accesso tendono oggi a riconfigurarsi, nelle pratiche dei movimenti di studenti e precari, come lotte contro i filtri e i blocchi posti all’interno del percorso formativo (tra laurea di base e specialistica, tra questa e il master o il dottorato, tra un’istituzione e un’altra, ecc.), che impediscono la libera circolazione del lavoro/sapere vivo nella lifelong learning e che ne determinano un processo di déclassement, senza garantire neppure – al compimento di ogni step – un innalzamento del valore della forza-lavoro7. I
dati relativi al rapporto tra laurea e mercato del lavoro lo testimoniano con sufficiente chiarezza:
«Secondo l’ultima indagine svolta dal Consorzio AlmaLaurea, riferita ai soggetti che hanno conseguito il titolo nel 2004, il tasso di occupazione dei laureati vecchio ordinamento è pari al 54,5%, il 20% dichiara di non lavorare ma di proseguire gli studi, il 25,5% si dichiara alla ricerca di un impiego. […] Va detto inoltre che di questo 54,5% non tutti hanno trovato un impiego al termine degli studi grazie alla laurea, anzi 14 risultavano già occupati prima della laurea e continuano a svolgere la stessa attività anche dopo: per questi soggetti la laurea non è stata dunque l’elemento che ha consentito di trovare un impiego o di cambiare (in meglio) la propria posizione lavorativa. Se si tiene conto di ciò, la quota di soggetti che iniziano a lavorare o che hanno cambiato lavoro dopo la laurea scende al 40%»8.
Approfondendo la lettura delle statistiche, analizzando dunque la qualità dell’occupazione dopo il raggiungimento del titolo, si evidenzia come il tratto dominante sia quello della precarizzazione: «Mentre i contratti atipici o i lavori senza contratto riguardavano il 42% dei laureati occupati nel 2000, tale quota è aumentata fino al 60% nel 2004. […] Anche dopo tre anni dalla conclusione degli studi si vanno sempre più diffondendo forme flessibili di lavoro: si passa, infatti, da 27 impieghi flessibili su 100 nel 2000 a 35 su 100 nel 2004»9. Tuttavia, se è vero che la
situazione italiana riveste caratteri di particolare gravità, è altrettanto indubbio che il trend assume delle connotazioni compiutamente transnazionali: in Francia, ad esempio, il déclassement è una delle questioni centrali della rivolta contro il CPE della primavera 2006, mentre processi non dissimili sono verificabili nell’altro caso di studio qui analizzato, gli Stati Uniti.
Comunque, se la differenziazione dei percorsi formativi è uno degli obiettivi del Bologna Process, riassunti nella formula del 3+2 e del cambiamento dei curricula, nel sistema statunitense dell’istruzione superiore la selezione storicamente avviene attraverso la diversificazione istituzionale: i tre livelli della laurea, Bachelor, Master e Ph.D, si riflettono nella strutturazione della
7
Lo dimostra il caso dei master, che già nel 2003-2004 nelle università italiane erano 1.200: «Si tratta di un mercato assai fiorente, favorito da politiche universitarie che non hanno esitato a organizzare master anche a di là degli effettivi sbocchi occupazionali. Infatti, come emerge chiaramente dalle analisi condotte da AlmaLaurea, i laureati che possono vantare lo svolgimento di un master hanno un tasso di occupazione superiore di soli tre punti percentuali rispetto ai colleghi privi di tali esperienze formative» (Stanchi, A. – Trombetti, A. L. (2006), Laurea e lavoro. Tra aspettative degli studenti ed esigenze del mondo del lavoro, op. cit., p. 48).
8 Ivi, pp. 46-47. 9 Ivi, p. 68.
gerarchia formalizzata di community (o junior) college, college quadriennale e università. Eccellenza competitiva, ricerca e libertà di accesso vengono dunque associati ai diversi percorsi e luoghi dell’istruzione superiore, che a loro volta si differenziano per essere privati o statali, con un forte grado di competitività a tutti i livelli. Test attitudinali accompagnano lo studente dall’ingresso nel college via via per i vari gradi del percorso formativo, con valore non solo di orientamento ma di indirizzo rispetto alle capacità e conseguentemente ai percorsi da seguire, determinando spesso quel ridimensionamento delle aspirazioni individuali definito cooling-out process.
«Although many advanced capitalist societies in Europe and Japan have significant systems of postsecondary education, the proportion of adult populations attending these institutions is far less than in the United States. Sixty-two percent of high school graduates enter college. With nearly fifteen million students, one of nine Americans under age sixty-five attends some sort of postsecondary school; half of them attend four-year colleges and universities and half are in community colleges. In contrast, European higher educational systems and those of Japan are far more restrictive: France, Germany, and the United Kingdom have fewer than a quarter of high school graduates in universities, and the extent of their total adult population in higher education is less than 5 percent. In 1995, the United States had more than 3,200 higher education schools, more than double the pre-World War II number, 70 percent of which were in the public sector. Europe and Japan have had a substantial growth but not nearly to the same extent as the United States. A college or university degree does not guarantee a job, let alone a career, but it has become the premier sign that informs employers and other educational institutions that the candidate has endured a regime that on balance assures reliability. […] The credential signifies the student’s mobility aspiration, especially an ability to endure a long journey toward an indefinite conclusion, and a capacity to tolerate boredom. These, more than any specific content, are crucial job and educational skills. The “hidden” curriculum of schooling, including that of college, is that the student is willing to jump through hurdles without a definite employment outcome»10.
En passant, è interessante osservare come alcuni teorici descrivano il passaggio a meccanismi di inclusione differenziali, simili a quelli del sistema di istruzione superiore, per analizzare i cambiamenti della figura della cittadinanza nell’epoca della globalizzazione. Da questo punto di vista, i migranti assumono il carattere di figura paradigmatica: benché ovviamente i classici meccanismi di esclusione non svaniscano (come nel sistema universitario, del resto) il processo che li seleziona all’interno dei confini, infatti, è basato innanzitutto su differenti livelli di inclusione, che dipendono in primo luogo dalla loro funzionalità alle esigenze del mercato del lavoro11. D’altro canto, secondo Chandra Mohanty il processo di inclusione differenziale (nella cittadinanza, in questo caso) non costituisce una novità negli Stati Uniti:
«È un modello che è sempre esistito in questo paese: l’inclusione differenziale è la principale strategia dello stato, forse ora è più esacerbata come risposta ai movimenti sociali. Per esempio, una delle differenze tra le lotte degli afro-americani e quelle dei nativi americani è proprio questa. Da una parte ci sono politiche di esclusione per gli afro-americani, da cui le lotte per i
10 Aronowitz, S. (2001), The Last Good Job in America. Work and Education in the New Global Technoculture,
Rowman & Littlefield, Lanham, pp. 139-140.
11 Cfr. Mezzadra, S. (2001),
Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, op. cit.; Sassen, S. (2006), Territory Authority Rights. From Medieval to Global Asssemblages, Princeton University Press, Princeton.
diritti civili, dall’altra ci sono le politiche di inclusione differenziale per i nativi americani. Quindi, i nativi americani devono lottare per non essere fatti americani, il genocidio ha assunto l’immagine della loro civilizzazione. Il conflitto è dunque sull’inclusione e sulla sovranità, non sui diritti civili, che è un tipo di rivendicazione differente. L’inclusione differenziale è sempre stata presentata come un processo per le persone viste come non ordinarie all’interno della comunità, perciò il problema è renderle parte del centro. Quando noi leggiamo la definizione degli asiatici-americani come “minoranza-modello” siamo esattamente all’interno delle politiche di inclusione differenziale»12.
Ritorniamo ora al Bologna Process, assumendolo come terreno privilegiato di analisi dei mutamenti dell’istruzione superiore in Italia, all’interno del «processo di allentamento dei legami tradizionali tra università e Stato-nazione»13, dunque scartando l’improbabile ipotesi di un ritorno a luoghi formativi isolati all’interno dei confini della sovranità statuale. Cominciato con gli accordi della Sorbona (siglati il 25 maggio 1998 a Parigi tra i ministri dell’istruzione di Francia, Italia, Gran Bretagna e Germania), proseguito con la loro ratifica ed estensione a ventinove paesi nell’incontro di Bologna del 18 giugno 1999 (da cui il nome della città che caratterizza il processo), e infine ribaditi nella Conferenza di Praga del 2001, il processo di armonizzazione – anche se non di completa omogeneizzazione – delle diverse linee di riforma dell’università ha appunto i suoi perni nel mutamento della struttura curricolare, ossia il 3+2, e nell’impiego del sistema dei crediti. Attualmente sono 45 i paesi coinvolti nel processo di Bologna.
Tuttavia, gli stessi paesi firmatari degli accordi di armonizzazione dell’istruzione superiore devono fare i conti al proprio interno con resistenze, inerzie o un sostanziale disinteresse verso la costruzione dello spazio europeo, che funziona spesso più come retorica che non come impegno reale. Se – come da più parti si sostiene – i processi di riforma segnano l’affermazione del modello anglosassone, o meglio il suo elevamento a standard verso cui orientare i provvedimenti di omogeneizzazione dell’istruzione superiore, «l’ignoranza britannica del processo di Bologna è che “non interessa” dato che il modello di sistema di istruzione superiore definito dagli accordi è essenzialmente quello britannico e quindi la Gran Bretagna non deve fare altro che aspettare che il resto di Europa si allinei con essa»14.
Contrariamente all’opinione diffusa, l’Italia non solo non è “arretrata” rispetto ai processi di riforma europei, ma addirittura si è da subito presentata come il laboratorio privilegiato di applicazione dall’alto. Tanto è vero che, se negli altri paesi l’attenzione è puntata sul processo di Bologna, nel contesto italiano questo coincide con la riforma. Il motivo è alquanto semplice, ed è spiegato in modo convincente da Massimiliano Vaira:
12 Intervista a Chandra T. Mohanty, Ithaca, 20 giugno 2006.
13 Enders, J. (2003), Istruzione superiore “à la bolognese”?, in Rassegna Italiana di Sociologia, pp. 371-372.
14 Trowler, P. (2003), Il Regno Unito e lo “Spazio Europeo dell’Istruzione”, in Rassegna Italiana di Sociologia, op. cit.,
«Dagli accordi della Sorbona del maggio ’98 in avanti quelle sono state le leve con cui legittimare la riforma italiana; ricordo un’intervista a Berlinguer, Martinotti e Guerzoni in cui dicevano “è l’Europa che ce lo chiede, abbiamo firmato un accordo e non possiamo adesso chiamarci fuori”, ma nello stesso tempo ciò aveva una valenza di accelerazione e di rendere sicuro il fatto che si facesse questa riforma. La priorità era riformare. Da noi la riforma è partita prima, con questa legittimazione e accelerazione, ed è stata portata più avanti rispetto agli altri, che in fondo sono più restii»15.
Da ciò ne consegue che l’impatto del cambiamento non è stato mediato, rispetto alla fase della sperimentazione si è privilegiata l’immediata messa a regime, nel timore che il processo di riforma potesse essere bloccato o inceppato dagli altri stakeholders del mondo universitario. Come fanno notare analisti direttamente coinvolti (ad esempio Roberto Moscati) in Italia si è tentato di tradurre e applicare dall’alto la riforma in un solo colpo (operando «una scelta di carattere giacobino», secondo Luciano Benadusi16), mentre negli altri paesi europei il processo sta tuttora procedendo per gradi17. In Germania, una delle situazioni più resistenti al cambiamento, la transizione dal vecchio al nuovo ordinamento è prevista non prima del 2010. Incertezze, dubbi e vischiosità nel mutamento non troppo diverse si registrano altrove, in Francia o in Spagna ad esempio.
«In Germania hanno lasciato agli atenei la possibilità di sperimentare i due percorsi, quello vecchio e quello nuovo contemporaneamente, si organizzano come credono, verificano, certo avranno degli incentivi, nel 2010 i Land che saranno più avanti verranno premiati. C’è una visione più realistica della possibilità di organizzare una riforma così importante, che deve rompere con consuetudini, visioni culturali, tradizioni, costruzioni di poteri, tante incrostazioni difficili da sciogliere tutte sic et simpliciter. La commissione Martinotti, quando ha finito di lavorare e ha presentato il suo rapporto al ministro Berlinguer, ha detto a lui e al sottosegretario Guerzoni: attenzione, questa è una cosa che non si può realizzare nel giro di qualche mese e pensare che vada a regime entro un anno. La risposta è stata: questo sul piano culturale e scientifico può avere senso, sul piano politico no, perché o facciamo questa riforma subito, o non passerà mai. Infatti, questa è una riforma che non è stata nemmeno discussa in parlamento, è passata di soppiatto nelle maglie della finanziaria del ’98, con un lavoro sotterraneo soprattutto di Guerzoni con i parlamentari perché accettassero questa cosa che la maggior parte di loro non aveva nemmeno capito dove andasse a parare. La logica è stata: o passa adesso tutta in un colpo, o non passa più»18.
Dunque, se si escludono il Regno Unito o l’Olanda (dove già vigeva quel modello anglosassone su cui si è ricalcato il nuovo impianto di costruzione di uno spazio europeo dell’istruzione superiore), smentendo le retoriche sulla sua supposta anomalia l’Italia risulta invece tra i paesi più avanzati nell’applicazione della riforma. Come è facilmente intuibile dall’analisi qui
15 Intervista a Massimiliano Vaira, Pavia, 24 gennaio 2006.
16 Benadusi, L., L’attuazione della riforma e le prospettive di revisione degli ordinamenti didattici, relazione al
convegno AIS-Facoltà di Sociologia, L’impatto della riforma universitaria del “3+2” sulla formazione sociologica, Roma, 12 dicembre 2005.
17 Moscati, R., Lo stato di attuazione del processo di Bologna nel contesto europeo, relazione al convegno AIS-Facoltà
di Sociologia, L’impatto della riforma universitaria del “3+2” sulla formazione sociologica, Roma, 12 dicembre 2005.
condotta, tale termine non ha tuttavia necessariamente un significato positivo. In ogni caso, quello che si vuole qui evidenziare è che gli aspetti negativi dell’università italiana non ci parlano solo delle disfunzioni del contesto nostrano, ma sono invece lo specchio immediato di un generalizzato processo di dequalificazione dei saperi e della formazione a livello europeo e globale.
A livello continentale, comunque, il processo complessivo di costruzione di uno spazio dell’istruzione superiore è attraversato da una profonda contraddizione. Da un lato, come sottolinea Enders, è una «versione regionale dei processi di internazionalizzazione», nella sua crescente interazione tra governi e istituzioni nazionali e sub-nazionali; dall’altro, «si può anche argomentare