PARTE I – IL CONTESTO TEORICO
1.4 Le critiche ai concetti di capitalismo e lavoro cognitivo
Le recenti elaborazioni sul capitalismo e il lavoro cognitivo, come sempre accade per le indagini che si propongono di sondare il delicato equilibrio tra permanenze e innovazioni nelle transizioni sistemiche, stanno cominciando a suscitare un vivace dibattito, non esente da aspre critiche. Queste in parte ricalcano dubbi, differenze di analisi e divergenze di prospettive teoriche emerse nella formulazione di altre ipotesi, da quelle sul passaggio dal fordismo al postfordismo, per arrivare alle elaborazioni sul lavoro immateriale. È dunque motivo di grande interesse discutere i punti di vista contrastanti, per almeno due ordini di motivi: da un lato, sarà possibile verificare la tenuta e i punti problematici dell’apparato teorico precedentemente presentato; dall’altro, questo ci fornirà l’occasione di evidenziare e approfondire le peculiarità e le differenze dei concetti di capitalismo e lavoro cognitivo rispetto ad alter categorie, solo in parte analoghe. Del resto, più che qualificare compiuti postulati analitici, tali concetti sono oggetto di molteplici interpretazioni, il che all’oggi sembra essere un punto di forza e interesse. A titolo esemplificativo prenderemo qui in considerazione il dibattito sulla lista Edu-factory. Tale selezione è dettata da tre ragioni. In primo luogo, Edu-factory è stata tra i primi luoghi a discutere in modo approfondito e plurale il concetto di capitalismo cognitivo. In secondo luogo, lo ha fatto da un punto di vista globale, favorendo il confronto tra figure collocate in varie parti del mondo. Infine, gli autori che citeremo rappresentano, per la serietà e la complessità dell’analisi, un’ottima sintesi dei principali argomenti mossi a critica dei concetti di capitalismo e lavoro cognitivo.
Come abbiamo visto, c’è un generale accordo nell’identificazione del ruolo centrale dei saperi nelle forme di produzione contemporanee. È questo il punto di partenza di George Caffentzis e Silvia Federici, che pure invitano a non esagerare la portata di tale constatazione, e soprattutto a non trarne inappropriate conclusioni rispetto ai processi di gerarchizzazione nelle forme del lavoro e dell’accumulazione capitalistica: «The struggle in the edu-factory is especially important today because of the strategic role of knowledge in the production system in a context in which the “enclosure” of knowledge (its privatization, commodification, expropriation through the intellectual property regimes) is a pillar of economic restructuring. We are concerned, however, that we do not overestimate this importance, and/or use the concept of the edu-factory to set up new hierarchies with respect to labor and forms of capitalist accumulation»114. A partire da questo rischio Caffentzis e Federici sviluppano la loro critica ai concetti di capitalismo e lavoro cognitivo, basata principalmente su due questioni. In primo luogo, argomentano come la storia del capitalismo abbia
114 Caffentizs, G. – Federici, S. (2007), Notes on the edu-factory and cognitive capitalism, consultabile su
mostrato che la sussunzione di tutte le forme di produzione non richiede l’estensione del livello scientifico e tecnologico raggiunto in un particolare punto dello sviluppo a tutti i lavoratori che contribuiscono al processo di accumulazione. In secondo luogo, a preoccupare Caffentzis e Federici sono soprattutto le implicazioni politiche dell’uso dei concetti di capitalismo e lavoro cognitivo: «There is the danger that by privileging one kind of capital (and therefore one kind of worker) as being the most productive, the most advanced, the most exemplary of the contemporary paradigm, etc., we create a new hierarchy of struggle, and we engage in form of activism that precludes a re- composition of the working class»115.
Il primo punto sollevato dal contributo di Caffentzis e Federici è in sintonia con l’argomentazione precedentemente sviluppata a partire dal significato del post: esso è necessario per sottolineare il punto di discontinuità tra un prima e un dopo, mettendo in evidenza l’urgenza teorica di dotarsi di nuove categorie e griglie interpretative. Il post diventa tuttavia problematico nella misura in cui sottende l’idea di una lineare successione tra differenti stadi nello sviluppo capitalistico, sottovalutando quelli che abbiamo definito elementi di compresenza di differenti forme e tempi della produzione e del lavoro. Dunque, è su ciò ampiamente condivisibile la lettura marxiana proposta da Caffentzis e Federici: «We should not dismiss the critiques of Marxian theory developed by the anti-colonial movement and the feminist movement, which have shown that capitalist accumulation has thrived precisely through its capacity to simultaneously organize development and underdevelopment, waged and un-waged labor, production at the highest levels of technological know-how and production at the lowest levels»116. Proprio in questa drezione, tuttavia, appare meno convincente la ricerca non di quelle che Tsing chiama «connessioni globali», ma piuttosto delle differenze irriducibili: «What is really “common” in their labor, taking into account all the complex of social relations sustaining their different forms of work? What is common, for instance, between a male computer programmer or artist or teacher and a female domestic worker who, in addition to having a paid job, must also spend many hours doing unpaid labor taking care of her family members (immigrant women too have often family members to care for also in the countries where they migrate, or must send part of their salary home to pay for those caring for their family members)?»117. Per dirla in termini più chiari: è certamente evidente la diversità tra le figure nominate, sarebbe un grave errore volerle ridurre a un omogeneo e astratto soggetto universale. D’altro canto, però, l’impressione è che Caffentzis e Federici sottovalutino le complesse interconnessioni e sovrapposizioni del lavoro e dei processi di accumulazione capitalistica, quelle che Xiang Biao ha ottimamente descritto nel caso dei lavoratori hi-tech, dei
115 Ibidem. 116 Ibidem. 117 Ibidem.
contadini e dei migranti. Augusto Illuminati, intervenendo nel dibattito, ha evidenziato il problema in modo condivisibile: «Schiavismo e alta tecnologia, con tutti i gradi intermedi, si articolano perfettamente e si “traducono” reciprocamente in lavoro astratto, cioè produzione ed estorsione di plusvalore, in cui la sussunzione reale funzionalizza quella formale, il plusvalore relativo quello assoluto. In cui, cioè, confluiscono i contributi di chi lavora ben pagato 35-40 ore a settimana e chi si ammazza 12-14 ore al giorno per un salario di merda»118.
Soprattutto, Caffentzis e Federici corrono paradossalmente il rischio di incappare nel pericolo correttamente ravvisato, ossia di riprodurre dal punto di vista politico le gerarchie capitalistiche. E qui arriviamo alla seconda critica mossa dal loro contributo. Questa sembra cogliere adeguatamente nel segno rispetto alle note teorie sui lavoratori della conoscenza. Per limitarci a due esempi, lo schema proposto tanto da Richard Florida rispetto alla «classe creativa» quanto da McKenzie Wark119 sulla «classe hacker», al di là delle indubbie differenze di impostazione e prospettiva politica, convergono sulla tradizionale separazione tra classe in sé e classe per sé, laddove il collegamento tra l’una e l’altra sarebbe unicamente appannaggio di una non meglio specificata azione della coscienza. Entrambi i soggetti, dunque, ricoprono un ruolo egemone in quanto occupano una posizione centrale nella gerarchia capitalistica: acquisire la coscienza di classe è ciò che consente di essere all’altezza del ruolo storico che lo sviluppo capitalistico ha loro assegnato – quello di un nuovo ceto medio capace di promuovere un «new deal globale» per Florida, il rovesciamento dialettico della «classe vettoriale» per Wark120. In entrambi i casi, la
composizione tecnica – ossia la posizione occupata dai soggetti all’interno della gerarchia sistemica – è oggettivamente speculare alla composizione politica, cioè al potenziale ruolo nei processi di conflitto e trasformazione. Molto differente è invece la prospettiva analitica del concetto di lavoro cognitivo. La cognitivizzazione del lavoro non significa la sua «computerizzazione e riorganizzazione attraverso Internet», come affrettatamente dedotto da Caffentizs e Federici. Non vi è infatti nessun determinismo tecnologico su cui tale concetto si basa, fondato sul presunto ruolo motore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: tali accezioni vengono invece criticate proprio nella misura in cui sottovalutano od occultano il ruolo centrale del sapere vivo e delle reti di cooperazione sociale che innervano, mobilitano e trasformano le tecnologie stesse121.
Del resto, come Read ci ricorda, per lo stesso Marx la divisione tra lavoro manuale e intellettuale, così come la complessiva relazione tra organizzazione del sapere e della produzione,
118 Illuminati, A. (2007), (2007), Discussion on cognitive capitalism, consultabile su http://www.edu-factory.org/ 119 Wark, M. (2005), Un manifesto hacker. Lavoratori immateriali di tutto il mondo unitevi!, Feltrinelli, Milano. 120 Per un approfondimento del tema cfr. Roggero, G. – De Nicola, A. – Vecchi, B. (2007), Contro la creative class, in
Posse, in corso di stampa.
121 Negri, A. – Vercellone, C. (2007), Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo cognitivo, in Posse, in corso di
non è in alcun modo riconducibile a una questione puramente tecnica: è comprensibile solo all’interno di un rapporto politico e di potere122. Analizzando il rapporto tra lavoro manuale e
intellettuale in questi termini, è opportuno il rilievo critico mosso da Nate Holdren, che però tende erroneamente a sovrapporre il concetto di lavoro cognitivo ad alcune teorie sul lavoro immateriale: «The classical opposition between mental and manual labor was always problematic – manual labor was never activity without thought and mental labor was never noncorporeal – and more importantly that important social struggles have always problematize this dichotomy»123. Nel concetto di lavoro cognitivo non vi è infatti l’indicazione di un settore egemone, ricalcato sulla lettura della composizione tecnica di classe: le centralità politiche vengono continuamente riarticolate dai processi di lotta. Il lavoro cognitivo è invece la filigrana attraverso cui leggere l’eterogeneità del lavoro vivo postfordista e i nuovi rapporti di sfruttamento. Non implica altresì un lineare processo di intellettualizzazione della forza-lavoro, o dell’espansione progressiva di occupazioni creative. Le dinamiche di déclassement, non a caso, sono state uno dei terreni di battaglia delle recenti lotte di studenti e precari a livello europeo e globale. Cognitivizzazione del lavoro, dunque, significa cognitivizzazione della misura e dello sfruttamento, cognitivizzazione della gerarchia di classe e della regolazione salariale, cognitivizzazione della divisione del lavoro e delle forme di resistenza.
Non vi è allora nessuna illusione emancipatoria, come si sostiene in un altro contributo critico, quello di Massimo De Angelis, che si muove in sintonia con la linea interpretativa sviluppata da Caffentizs e Federici: «The specific character of these new wave has certainly to be critically studied in details. But it is terribly dangerous to approach this study with the illusion that the current emphasis on knowledge production by the institutional agents of capital is anything else but to serve as instrument of competitiveness, capitalist growth, new modes of enclosures and commodification of life, and, therefore, planetary class stratification»124. Sulla base di quanto fin
qui argomentato, il problema non consiste nel descrivere una nuova fase che sostituisce quella precedente, quanto di individuare il nuovo paradigma al cui interno si riarticolano i processi di gerarchizzazione, di «polarizzazione della forza-lavoro»125 e la compresenza delle differenti forme di lavoro e produzione126. Da questo punto di vista, è metodologicamente corretta l’impostazione
122 Read, J. (2003), The Micro-Politics of Capital. Marx and the Prehistory of the Present, op. cit., p. 94. 123 Holdren, N. (2007), Discussion on cognitive capitalism, consultabile su http://www.edu-factory.org/ 124
De Angelis, M. (2007), Measure, excess and translation: some notes on “cognitive capitalism”, consultabile su http://www.edu-factory.org/index.php?option=com_content&task=view&id=63&Itemid=33
125 Silver, B. J. (2003), Forces of Labor. Workers’ Movement and Globalization since 1870, op. cit., p. 107.
126 La configurazione dualistica del mercato del lavoro è evidenziata in modo chiaro da Negri e Vercellone analizzando
la relazione tra i cambiamenti nei rapporti tra salario, rendita e profitto e la nuova politica di segmentazione della composizione di classe: «Un primo settore concentra una minoranza privilegiata della forza lavoro, impiegata nelle attività più redditizie e sovente più parassitarie del capitalismo cognitivo, come ad esempio i servizi finanziari alle imprese, le attività di ricerca orientate verso l’ottenimento di brevetti, le attività giuridiche specializzate nella difesa dei
utilizzata da Harvey: «Flexible accumulation has to be seen as a particular and perhaps new combination of mainly old elements within he overall logic of capital accumulation»127.
Tuttavia, dei contributi di Caffentzis, Federici, De Angelis e Holdren ci pare ampiamente condivisibile l’attenzione sui rapporti di potere, onde evitare posizioni ingenue o parzialmente deterministiche, presenti ad esempio in alcune teorizzazioni sul lavoro immateriale128. Al contempo, ci permettono di chiarire ulteriormente le domande che affronteremo nella parte empirica: a partire dall’analisi della soggettività dei lavoratori precari dell’università, dovremo infatti mettere a verifica quanto nei due casi di studio presi in considerazione essi tendano a giocare un ruolo di settore separato, o piuttosto tentino di combinare istanze differenti all’interno della composizione di classe. Quanto, in altri termini, i precari dell’università ricalchino e riproducono le gerarchie esistenti, oppure quanto provino o riescano a metterle in discussione.
diritti di proprietà intellettuale. Questa componente del cosiddetto cognitariato (che si potrebbe anche qualificare di “funzionari della rendita di capitale ”) vede le sue qualificazione e le sue competenze esplicitamente riconosciute. […] Il secondo settore concentra invece una manodopera le cui qualificazioni e competenze non sono riconosciute. Questa categoria maggioritaria del lavoro cognitivo finisce dunque per subire - come abbiamo visto – un pesante processo di declassamento » (Negri, A. – Vercellone, C. (2007), Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo cognitivo, op. cit.).
127 Harvey, D. (1989), The Condition of Postmodernity: an Enquiry into the Origins of Cultural Changes, op. cit., p.
196. Nello stesso testo, poche pagine prima Harvey così rispondeva a chi riteneva non ci fosse nessun elemento nuovo nel paradigma della flessibilità: «The evidence for increased flexibility (sub-contracting, temporary and self-
employment, etc.) throughout the capitalist world is simply too overwhelming to make Pollert’s counter-examples credible. […] The insistence that there is nothing essentially new in the push towards flexibility, and that capitalism has periodically taken these sorts of paths before, is certainly correct […]. The argument that there is an acute danger of exaggerating the significance of any trend towards increased flexibility and geographical mobility, blinding us how strongly implanted Fordist production systems still are, deserves careful consideration. And the ideological and political consequences of overemphasizing flexibility in the narrow sense of production technique and labour relations are serious enough to make sober and careful evaluations of the degree of flexibility imperative. If, after all, workers are convinced that capitalists can move or shift to more flexible work practices even when they cannot, then the stomach for struggle will surely be weakened. But I think it equally dangerous to pretend that nothing has changed, when the facts of deindustrialization and of plant relocation, of more flexible manning practices and labour markets, of automation and product innovation, stare most workers in the face» (Ivi, p. 191).
128 Analizzeremo in seguito i problemi relativi al lavoro di André Gorz (cfr. Gorz, A. (2003), L’immateriale.