PARTE I – IL CONTESTO TEORICO
5.3 Oltre la dicotomia exit-voice: verso nuove pratiche di autonomia?
Situiamo dunque sulla frontiera – in questo caso tra università e metropoli, tra istituzione formale e produzione diffusa di saperi – la ricerca della potenziale emergenza di pratiche di autonomia e cooperazione alternativa. In un interessante parallelismo storico, si può pensare a come gli apologeti americani del capitalismo nell’Ottocento abbiano a gran voce denunciato lo scandaloso rifiuto della forza-lavoro a trasformarsi in operai salariati, preferendo la fuga verso le terre incolte dell’Ovest. Come già Marx appuntò nell’ultimo capitolo del Libro primo de Il capitale, la diserzione di massa dalla fabbrica, il rifiuto non solo di essere trasformati in operai salariati, ma di introiettare la logica della dipendenza, era resa possibile da una frontiera nella quale inoltrarsi, un territorio di abbondanza nel quale fuggire. La produzione di eccedenza rispetto alle logiche stringenti dell’economia politica, in quanto scienza della scarsità, la sottrazione dal rapporto e dal senso di dipendenza del lavoro vivo dal capitalista, possono mandare in pezzi la legge della domanda e dell’offerta di lavoro40. In una chiave in parte analoga può essere letta la rivolta argentina del 2001, valida esemplificazione di un’insurrezione che ha praticato l’immediata costruzione di spazio pubblico e l’allusione a un radicale altrove rispetto tanto allo Stato, quanto al mercato. La sua origine non sta tanto, o almeno non solo nelle prepotenti imposizioni degli organismi sovranazionali, o nelle condizioni catastrofiche in cui è precipitato il ceto medio gonfiato dall’amministrazione di Menem, ma innanzitutto nel collasso del legame tra Stato, salario e cittadinanza prodotto da una sconnessione soggettivamente determinata, nell’eccedenza rispetto ai meccanismi di «fabbricazione di salariati»41: «Lungi dall’essere prodotte da un percorso cumulativo di proletarizzazione e socializzazione nella forme del lavoro salariato, le lotte dei piqueteros argentini esprimono il sostanziale fallimento dell’estensione, da parte dello Stato “sviluppista” latinoamericano, del lavoro salariato come norma fondamentale del legame sociale e della cittadinanza»42. In America – come, in forme diverse, in Argentina – la sottrazione al lavoro di fabbrica e la costruzione di forme di lavoro indipendente non sono accomunabili al ritorno a residui di un passato ormai tramontato – non in senso cronologico, ma nelle pratiche di vita; si tratta invece di tragitti che, fuoriuscendone, hanno attraversato la potenza della moderna cooperazione produttiva, nel suo complesso spettro segnato dalla molteplicità delle forme di attività umana e dalla carica dei conflitti. Non si tratta di indicare un processo storico segnato da un pre e da un post,
40 Cfr. Marx, K. (1994), Il capitale. Critica dell’economia politica, op. cit., Libro primo. 41 Ivi, p. 828.
42 Barchiesi, F. – Mezzadra, S. (2003), Prefazione, in Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il
come nell’interpretazione lineare e storicistica dei processi43, quanto piuttosto di individuare delle coordinate spazio-temporali che, per quanto interni alle dinamiche capitalistiche, rendano al contempo materialmente visibile l’irriducibilità e l’incommensurabilità dei loro passati e dei loro presenti alla logica del capitale.
Già negli anni Settanta Hirschman ha cercato di scompaginare la tradizionale separazione tra l’opzione exit e l’opzione voice, abitualmente ricondotte la prima alla sfera economica, la seconda a quella politica. Anche grazie allo scienziato sociale americano (e forse in parte al di là delle sue intenzioni), la pratica dell’uscita ha assunto nella teoria politica tutta la sua radicale pregnanza in quanto defezione dallo Stato, laddove la protesta rischiava di essere sempre più confinata al possibile mutamento di rapporti di forza all’interno di confini stabiliti44. Circa vent’anni dopo la prima pubblicazione del suo celebre Exit, Voice, and Loyalty, Hirschman è tornato ad analizzare le categorie di uscita e protesta per verificarne la tenuta concettuale ed euristica dentro un evento concreto, la caduta del regime socialista della Repubblica Democratica Tedesca. Innanzitutto, ha messo in discussione il modello «idraulico» della relazione, basato sul convincimento che «il deterioramento genera la pressione del malcontento, che s’incanalerà nella voce o nell’uscita: ebbene, quanto maggiore è la pressione che si scarica attraverso l’uscita, tanto minore sarà quella che rimane disponibile per fomentare la voce»45. Ben diversamente, secondo il sociologo, gli storici eventi del 1989 simboleggiati dal crollo del Muro di Berlino, mettono in evidenza come «l’uscita (l’emigrazione) e la voce (le dimostrazioni di protesta contro il regime) hanno agito di concerto, e si sono rafforzate reciprocamente, talché il crollo del regime è stato il risultato della loro azione congiunta»46. Fino ad arrivare nel giro di pochi formidabili mesi – secondo la sarcastica battuta di Friederich Dieckmann – al celebre stadio finale del comunismo, quello del dissolvimento dello Stato e dei suoi organi repressivi. Più discutibile è la lettura di Hirschman dell’uscita come bene privato, che solo in una fase successiva si può trasformare in azione pubblica. Le esperienze dei migranti ci mostrano invece il tessuto relazionale e cooperativo che accompagna l’intraprendente scelta della fuga47.
Se si vuole ripercorrere la storia delle stesse università, poi, l’esistenza di spazi aperti e grandi risorse non ancora sfruttate negli Stati Uniti del XVIII e XIX secolo costituivano condizioni favorevoli alla proliferazione delle istituzioni accademiche. Scavando nelle radici della nascita del
43 Chakrabarty critica in modo radicale la forma mentis dello storicismo, in quanto vera ideologia della pretesa
superiorità dell’«Occidente», che «confinava gli indiani, gli africani e le nazioni altrettanto “rozze” in un’immaginaria sala d’aspetto della storia. Ciò finiva per trasformare in una sala d’aspetto anche la storia stessa. […] L’attesa realizzava il “non ancora” dello storicismo» (Chakrabarty, D. (2004), Provincializzare l’Europa, op. cit., pp. 22-23).
44 Cfr. Hirschman, A. O. (1982), Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano. 45 Hirschman, A. O. (1997), Autosovversione, op. cit., p. 23.
46 Ivi, p. 23.
47 Cfr. Mezzadra, S. (a cura di, 2004), I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee,
sistema di istruzione superiore americano e del suo genealogico pluralismo culturale, Christopher Jencks e David Riesman evidenziano come molti preferivano tentare un’iniziativa autonoma piuttosto che tentare di risalire la lunga scala delle istituzioni esistenti:
«Once it became clear that no single group of men had the power to shape society as a whole, many preferred to strike out on their own rather than try to climb the long ladder into existing institutions. Religious dissenters found less and less reason to try to reform the churches within which they had been raised; it was often easier to set up a new church with a new dogma. Rebels against local mores had equally little reasons to struggle against them; it was easier to move west where neither law nor entrenched social custom hemmed one in. Entrepreneurs who didn’t like the way the family business was run were similarly inclined to go into business for themselves, and they usually had as good a chance of staying afloat as their more venerable competitors. The same pattern was reflected in higher education: the dissidents who disliked Harvard, Yale, or William and Mary did not in most cases try to transform them, as English dissidents did Oxford and Cambridge during this same era. Instead, they set up their own competitive colleges to serve new purposes, many of which had not previously been regarded as appropriate for a college»48.
Anche qui, dunque, l’exit precede e rafforza la voice, ma soprattutto non ne costituisce l’alternativa. La frontiera, dunque, è cultura e pratica di vie di fuga, sottrazione allo status quo imposto dai confini, è lo sfuggire all’aut aut stabilito, l’affermazione di un tertium datur: quando le esigenze di valorizzazione capitalistica premono sulla forza-lavoro, questa ha una via di fuga verso un proprio ovest, ha la possibilità di non cedere al ricatto e praticare un nuovo campo di possibilità, fuori dall’alternativa imposta49. È lo stesso problema sollevato da Žižek quando insiste sulla divaricazione radicale tra la libertà odierna come facoltà di scelta all’interno delle coordinate di potere esistenti («tra Coca e Pepsi»), e la libertà come possibilità di minare alle basi quelle stesse coordinate50.
Gli economisti classici e le teorie sociologiche della scelta razionale individuano un legame ben definito tra il numero di persone che si iscrivono all’università e i vantaggi economici che una laurea può offrire. Analogamente, in una ricerca condotta in Francia, Raymond Boudon suppone che le scelte degli studenti siano dettate dall’aspirazione a più alti salari51. Un ragionamento non troppo diverso è condotto da alcuni ricercatori che si sono mobilitati, nel nome di un indubbio realismo che rischia tuttavia di sfociare nel riconoscimento dell’inevitabile oggettività del mercato. E se invece non fossero solo i vantaggi economici a guidare le scelte individuali? Se ciò che si ritiene naturale (il lavoro e le sue leggi) non lo fosse affatto? Quella che abbiamo definito come eccedenza soggettiva, della passione, della vita potrebbe essere individuata proprio come il tertium datur laddove si pensava non ci potesse essere che scelta tra un’alternativa imposta.
48 Jencks, C. – Riesman, D. (1968), The Academic Revolution, Doubleday and Co., Garden City (N. J.), p. 2. 49 Cfr. Virno, P. (1994), Mondanità, Manifestolibri, Roma.
50 Žižek, S., Né Pepsi né Coca. La scelta di Lenin, in il manifesto, 21 gennaio 2004, p. 17. 51 Boudon, R. (1981), Effetti «perversi» dell’azione sociale, Feltrinelli, Milano.
Ma la frontiera, quindi la possibilità della fuga e della diserzione, non sta solo nell’esistenza di spazi fisici: è un altrove in quanto pratica di sottrazione non necessariamente accompagnata da spostamenti geografici. Le terre incolte sono la cifra simbolica di potenziali forme di cooperazione e vita in comune oltre le logiche dell’imbrigliamento capitalistico e statuale. Oggi, nella misura in cui la possibilità di individuare un fuori rispetto al sistema capitalistico sembra illusoria dal punto di vista spaziale52, la possibile ricerca della produzione del fuori si colloca prioritariamente nella dimensione temporale53. Proprio il tempo, infatti, diventa una questione cruciale per comprendere la «nuova antropologia» del lavoratore cognitivo e precario54. Diversi studiosi mettono in evidenza,
non senza ragione, come la promessa di liberazione del tempo di lavoro a opera dell’automazione non sia stata mantenuta, mutandosi addirittura in un aumento dell’orario effettivo di lavoro55. Bologna invita però a non dimenticare l’altra faccia del processo, dimenticando la ricerca di libertà che ha caratterizzato la rottura del tempo “fordista”: «Sarebbe fuorviante, tuttavia, caratterizzare la percezione del tempo di lavoro del lavoratore indipendente solo in maniera negativa, come intensificazione dello sfruttamento e insicurezza permanente. La rottura dell’orario di lavoro normato e l’autorganizzazione del tempo di lavoro hanno consegnato a una fetta importante della società moderna un nuovo senso della libertà, un nuovo abito mentale nei confronti delle istituzioni e dei processi di disciplinamento, hanno dislocato le frontiere della democrazia e imposto all’individuo un governo della propria esistenza capace di creare sistemi di vita migliori di quelli del lavoro salariato. È difficile tuttavia cogliere il senso “collettivo” di questa trasformazione, la
52 Hardt, M. – Negri, A. (2002), Impero, op. cit.
53 Scrive in merito Chakrabarty: «Il “fuori” a cui sto pensando è diverso da ciò che la prosa storicistica pensa
semplicemente come “prima o dopo il capitale”. Utilizzando categorie riconducibili a Derrida, io penso questo “fuori” come annesso alla categoria stessa di “capitale”, qualcosa che travalica una zona di confine della temporalità, che si conforma al codice temporale in cui emerge il capitale pur violandolo, qualcosa che siamo in grado di vedere solo perché possiamo pensare/teorizzare il capitale, ma che ci ricorda continuamente che altre temporalità e altri modi di “mondeggiare il mondo” sono possibili e coesistono. […] Gli studi subalterni, nella mia visione, possono collocarsi solo in quello snodo in cui né Marx né la “differenza” vengono abbandonati, poiché […] la resistenza di cui parlano può realizzarsi solo all’interno dell’orizzonte temporale del capitale, e allo stesso tempo va pensata come ciò che ne spezza l’unità» (Chakrabarty, D. (2004), Provincializzare l’Europa, op. cit., p. 133).
54 Bologna così descrive il rapporto tra il lavoratore autonomo di seconda generazione e il tempo: «Nessun elemento
costitutivo dello statuto del lavoro autonomo ha un carattere di specificità così mercato quanto il senso del tempo. Si potrebbe dire che la differenza fondamentale tra lavoro salariato e lavoro autonomo consiste nella diversa
organizzazione del tempo di lavoro. Il tempo di lavoro del salariato è un tempo di lavoro regolamentato, quello dell’indipendente è un tempo di lavoro senza regole, dunque senza limiti. […] Malgrado questo mutamento macroscopico, il prolungamento della giornata lavorativa non solo sembra essere passato inosservato, ma avviene il contrario e cioè che illustri sociologi e saggisti, i quali amano esercitarsi in analisi del capitalismo contemporaneo, vanno scrivendo il contrario e cioè che il tempo di lavoro si è accorciato. […] Una giornata lavorativa senza limiti non è la sola differenza nella percezione del tempo di lavoro tra salariati e indipendenti. Una seconda differenza riguarda la percezione del tempo inserita nella progettualità dell’esistenza. Il rischio immanente di fallimento è costitutivo dello statuto del lavoro autonomo; la sensazione di camminare sul filo del rasoio, con la possibilità di passare rapidamente dal benessere del ceto medio all’indigenza, il cosiddetto “rischio povertà” dei lavoratori indipendenti, producono un abito socialpsichico incapace di progettare a lungo termine» 54 (Bologna, S. (1997), Dieci tesi per la definizione di uno statuto
del lavoro autonomo, in Bologna, S. – Fumagalli, A. (a cura di),Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, op. cit., pp. 19, 22).
capacità plasmatrice di una nuova civilizzazione, se ne colgono per ora gli effetti a livello individuale»56.
A partire dalla produzione dei saperi la questione diventa nitidamente leggibile, avendo a che fare innanzitutto con la questione del tempo, prima che con quella dello spazio. Tuttavia, la produzione dei saperi vive – per citare Walter Benjamin57 – in una temporalità eterogenea e piena, irriducibile al tempo omogeneo e vuoto, lineare e progressivo del sistema capitalistico58. Per tradurre tale proposizione nel nostro oggetto di studio: i tempi della formazione sono irriducibili al tentativo di misurazione rappresentato dai crediti formativi, che da questo punto di vista sono l’imposizione della temporalità – unica e uniformante – del capitalismo postfordista. L’imposizione, cioè, del sapere astratto sul sapere vivo. Del resto, il credito – in quanto unità di misura del lavoro medio dello studente, che nella riforma è arbitrariamente quantificata in 25 ore tra lezioni, esercitazioni e studio individuale – non è altro che la riduzione del sapere vivo a sapere astratto. Nello scarto tra artificialità del comando e differenti temporalità che lo eccedono puntualmente, che altro non è che la frontiera tra università – in quanto regolazione del tempo attraverso la localizzazione istituzionale – e metropoli, come spazio striato e aperto alla densa eterogeneità dei flussi produttivi e delle forme di vita, si colloca appunto la possibilità di produrre il fuori.
Tutto ciò, in ogni caso, non significa che la frontiera e la fuga siano immediatamente sinonimo di incipiente liberazione: le terre incolte possono essere teatro di nuovi modelli di oppressione e di selvaggio sfruttamento. La frontiera è, per usare il linguaggio di Tsing, una zona baricentrale di frizione59. È questa stessa ambivalenza che Paul Gilroy evidenzia nei suoi studi sull’«Atlantico nero»: da un lato sottolinea il carattere drammatico e di aberrante coercizione su cui poggia la modernità occidentale, l’indelebile segno degli schiavi incatenati; dall’altra parte, tuttavia, le navi che per secoli hanno fatto la spola tra le due rive dell’Atlantico, sono state anche veicoli di
56 Bologna, S. (1997), Dieci tesi per la definizione di uno statuto del lavoro autonomo, op. cit., p. 23. 57 Benjamin, W. (1997), Sul concetto di storia, Einaudi, Torino.
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Edward P. Thompson ha descritto il processo di imposizione del tempo capitalistico nell’affermarsi del capitalismo industriale: «La prima generazione di operai di fabbrica era stata istruita dai padroni sul valore del tempo; la seconda generazione formò le sue commissioni per la riduzione d’orario nell’ambito del movimento delle dieci ore; la terza generazione scioperò per lo straordinario come tempo maggiorato del 50 per cento. Gli operai avevano accettato le categorie dei loro padroni e avevano imparato a lottare all’interno di esse; avevano appreso la loro lezione – che il tempo è denaro – anche troppo bene» (Thompson, E. (1981),Società patrizia cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull'Inghilterra del Settecento, Einaudi, Torino, p. 33).
59 Scrive in proposito l’antropologa di origine indonesiana: «What do cancer and nuclear weapons have in common?
Their expansion, proliferation, is always already out of control. Proliferation, too, is a key principle of capitalist expansion, particularly at capitalist frontiers where accumulation is not so much primitive, that is, archaic, as savage. Frontiers are not just edges; they are particular kinds of edges where the expansive nature of extraction comes into its own. Built from historical models of European conquest, frontiers create wildness so that some – and not others – may reap its rewards. Frontiers are deregulated because they arise in the interstitial spaces made by collaborations among legitimate and illegitimate partners: armies and bandits; gangsters and corporations; builders and despoilers. They confuse the boundaries of law and theft, governance and violence, use and destruction. These confusions change the rules and thus enable extravagant new economies of profit – as well as loss» (Tsing, A. L. (2005), Friction. An Ethnography of Global Connection, op. cit., pp. 27-28).
circolazione e formazione di una cultura politica radicale e sovversiva, costitutivamente diasporica e transnazionale (come per i «ribelli dell’Atlantico» raccontati da Linebaugh e Rediker), irriducibile dunque a rivendicazioni statuali e nazionali60.
È questo un nodo teorico tanto importante quanto arduo da affrontare, soprattutto alla luce di ciò che Virno osserva: «La cultura della defezione è estranea alla tradizione democratica e socialista. Quest’ultima ha interiorizzato e riproposto l’idea europea di “confine” contro quella americano di “frontiera”. Il confine è una linea su cui fermarsi, la frontiera è un’area indefinita in cui procedere. Il confine è stabile e fisso, la frontiera mobile e incerta. L’uno è ostacolo, l’altra occasione. La politica democratica e socialista si basa su identità fisse e delimitazioni sicure. Suo fine è restringere l’“autonomia del sociale”, rendendo esaustivo e trasparente il meccanismo di rappresentanza che congiunge il lavoro allo Stato. L’individuo rappresentato nel lavoro, il lavoro nello Stato: una sequenza senza crepe, basata com’è sul carattere stanziale della vita dei singoli»61. Quanto queste pratiche di autonomia siano riuscite o meno a trovare le proprie forme organizzative, incidendo efficacemente sui meccanismi dell’istituzione universitaria, è oggetto della ricerca empirica. Tuttavia, il solo fatto di esistere – come metteremo a verifica nei due casi di studio – rappresenta un’allusione forte alla trasformazione dell’università, e un’indicazione di ricerca su alcune possibili strade del mutamento del sistema formativo.
60 Cfr. Gilroy, P. (2003), The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza , Meltemi, Roma. 61 Cfr. Virno, P. (2002), Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica, Ombre Corte, Verona, p. 181.