PARTE I – IL CONTESTO TEORICO
1.3 Il lavoro precario
La flessibilità del lavoro – baricentro dell’impiego del termine “atipico” per tutto ciò che sfugge ai parametri legislativi dell’occupazione dipendente e a tempo indeterminato – è ormai da diverso tempo uno dei temi al centro della letteratura sulle trasformazioni produttive90. Essa è stata
intesa in un duplice senso: flessibilità delle imprese da una parte, del lavoro dall’altra. Lo mette in evidenza Dall’Agata: «La flessibilità, insieme all’incertezza, diventa la nuova parola chiave della sfida economica. Flessibilità operativa che viene ricercata snellendo gli organici all’interno delle grandi aziende, diminuendo il capitale fisso (i macchinari) e riducendo le dimensioni strutturali. La grande impresa “dimagrisce” perdendo lavoratori (downsizing) che, però, solo in parte verranno recuperati dall’indotto formato da piccoli e medie imprese, satelliti delle grandi»91.
Negli ultimi anni, poi, alla parola flessibilità – apparentemente neutra, o addirittura intesa come una grande possibilità sia per le imprese sia per i lavoratori – ha iniziato a essere associato il termine precarietà. Un termine, dunque, dagli inequivocabili contorni, che immediatamente richiama le instabili condizioni di vita e di reddito dei lavoratori. Si può dire che sono stati i movimenti degli ultimi anni ad imporre l’uso e la diffusione del concetto di precarietà. Già il 1° maggio 2001 si svolgeva a Milano la prima MayDay parade, la “parata del precariato sociale”, che avrebbe coinvolto nel corso degli anni diverse centinaia di migliaia di persone, per diventare nel 2005 EuroMayDay, attraverso la partecipazione di una quindicina di città a livello continentale92. Il lessico della precarietà, almeno in Italia, è in buona misura riuscito a fare egemonia nelle rappresentazioni del lavoro contemporaneo: entrato in pianta stabile nei media mainstream, è stato – tanto a sinistra quanto a destra – uno degli argomenti forti della campagna per le elezioni politiche del 2006, per far da levatrice addirittura al fiorire di una produzione cinematografica e di romanzi93. Sull’altra sponda dell’Atlantico, è curioso notare come la parola precariousness sia prepotentemente entrata nel linguaggio mediatico, perdendo su The New York Times – sull’onda delle lotte degli studenti francesi nella primavera del 2006 contro il Contrat Première Embauche (CPE)94 – le virgolette che inizialmente la accompagnavano. Dunque, continua Dall’Agata: «Se
l’aumento di autonomia sul versante del lavoro dipendente, viene utilizzato come misura di
90 Per limitarci a un solo importante esempio: Sennet, R. (1999), L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo
capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano.
91 Dall’Agata, C. (a cura di, 2004), I dilemmi del postfordismo, op. cit., p. 178. 92 http://www.euromayday.org
93 Mattoni, A., Transnational social movements and the mediated public sphere. Some suggestions from the
Euromayday Parade, paper presentato al convegno “Transnational Social Movements: Organizational Networks, Discourses and Repertoire of Action”, svoltosi allo European University Institute di Firenze, 7-8 dicembre 2006.
94 Visco, G., Il movimento anti-Cpe tra autonomia studentesca e organizzazioni sindacali, paper presentato al convegno
flessibilità funzionale da parte delle aziende (come risposta alle esigenze del mercato e alle inefficienze organizzative interne), non vi è, però, in cambio nessuna garanzia rispetto a quelle sicurezze che facevano parte del patrimonio di certezze del lavoratore di un tempo (posto fisso, linearità della carriera ecc.), né si incontrano facilmente forme di partecipazione reale e di cogestione (azionariato, stock options ecc.)»95. Se, come osserva Michel Aglietta, nel modello fordista l’incertezza era relegata ai margini del sistema di accumulazione capitalistico, oggi essa invade il “centro” nella forma pervasiva della precarietà96. Sulla stessa lunghezza d’onda Luciano Gallino – senza parlare ancora in modo specifico di precarietà – agli inizi del nuovo millennio descriveva «il costo umano della flessibilità», cioè dell’unilaterale imposizione delle necessità di profitto delle imprese:
«Da una decina d’anni, un gran numero di enti e personaggi autorevoli chiedono ogni giorno che sia accresciuta la “flessibilità del lavoro”. […] Alla fine non ci si potrà sottrarre alla conclusione che l’aumento della flessibilità del lavoro – ossia la diffusione dei lavori flessibili – sia da lungi il bisogno più urgente dell’economia mondiale e con essa, vista le crescenti interdipendenze tra quella e questa, dell’economia italiana. […] All’argomento sin qui esposto a sostegno delle richieste d’una maggiore flessibilità del lavoro non v’è molto da opporre. Al di là delle giustificazioni teoriche, esso rinvia a quanto la maggior parte delle imprese in realtà da tempo fanno. Esso equivale a dire che in tutto il mondo le imprese perseguono l’ideale di utilizzare la forza lavoro pressappoco nel modo in cui utilizzano l’energia elettrica – portando quando serve l’interruttore su on oppure off – perché così si comportano quasi tutte»97.
Ora, però, dopo che – dai movimenti alla letteratura sociologica – è stata disvelata la realtà del lavoro flessibile in quanto processo di precarizzazione delle condizioni di vita, riteniamo necessario un ulteriore approfondimento analitico: da una parte per coglierne la genealogia, dall’altra per indagarne le implicazioni rispetto a quello che era ritenuto il lavoro “normale”. David Harvey accenna il problema, sostenendo che la flessibilità può non essere unicamente un’imposizione dell’azienda, ma anche una richiesta dei lavoratori. Tuttavia è impossibile non osservarne le conseguenze negative per questi ultimi, se solo si guarda agli effetti aggregati, dalla copertura finanziaria alle pensioni98. In altri termini, afferma a ragione Harvey già sul finire degli anni Ottanta, non si può non vedere come la flessibilità sia diventata precarietà. Nella loro ricerca sul «nuovo spirito del capitalismo», Luc Boltanski ed Ève Chiappello approfondiscono il problema, offrendoci un’importante chiave interpretativa per indagare la metamorfosi semantica e la genealogica ambivalenza del termine flessibilità99. Ciò ci permette, nella presente ricerca sui precari
dell’università, di esplorare se e come la flessibilità mantenga una radice legata al conflitto e alle
95 Dall’Agata, C. (a cura di, 2004), I dilemmi del postfordismo, op. cit., p. 183.
96 Aglietta, M. (2000), A Theory of Capitalist Regulation. The US Experience, Verso, London – New York, pp. 404-
405.
97 Gallino, L. (2001), Il costo umano della flessibilità, Laterza, Roma-Bari, pp. 3-4, 7.
98 Harvey, D. (1989), The Condition of Postmodernity: an Enquiry into the Origins of Cultural Changes, op. cit., p. 151. 99 Boltanski, L. –Chiappello, È. (1999), Le nouvel esprit du capitalisme, op. cit.
istanze di autonomia da parte del lavoro vivo, ossia la possibilità di decidere dei propri tempi di vita e di lavoro. Non si tratta di una semplice ricostruzione storica di un diverso significato della parola flessibilità, né di una constatazione di una generica possibilità di leggere lo stesso fenomeno da più punti di vista: tale affermazione, proprio nella misura in cui è vera per qualsiasi processo, risulta essere analiticamente debole. L’assunzione o meno di una costitutiva genealogia ambivalente della flessibilità determina infatti orientamenti di analisi e di giudizio spesso radicalmente diversi sulle trasformazioni contemporanee del lavoro, e conseguentemente sul modo di metterle in discussione.
Passiamo adesso all’altro aspetto del nostro approfondimento. Ci siamo già soffermati sulla sempre più marcata indistinzione tra tempi di vita e di lavoro, che mette in crisi il binomio occupazione-disoccupazione, almeno nelle sue forme classiche. Per certi versi, potremmo dire che, con la messa in produzione di saperi, affetti e linguaggi100, ossia ciò che di più “intimo” appartiene alle forme di vita, si realizza in modo paradossale quella società della piena occupazione che per tanto tempo è stata l’obiettivo delle istituzioni del movimento operaio101. In modo paradossale proprio perché la piena occupazione non assume la forma della società del lavoro “normale”, come anelato dai sindacati e dai partiti della sinistra, ma di un dispositivo102 di precarizzazione dell’intera esistenza.
Per dirla da un altro punto di vista, sulla base della genealogica ambivalenza del presente, le trasformazioni non hanno assunto la forma di un’espansione dell’attività umana e della libera cooperazione sociale, ma invece quella della «lavorizzazione» dello spazio-tempo di vita103.
Commentando un passo del marxiano Frammento sulle macchine, Stanley Aronowitz osserva:
«Questa trasformazione della produzione industriale ha confermato le tendenze previste da Marx: la produzione, prima basata sull’apprendimento pratico trasmesso tra generazioni di artigiani e operai, si basa oggi sul sapere scientifico. La promessa di questo cambiamento, tuttavia, è stata sussulta quasi interamente sotto la bandiera della riproduzione del capitale. Il capitale teme il proprio spirito di cambiamento. Nel momento in cui intere masse vengono liberate dai processi di lavoro, invece di avere la possibilità di un pieno sviluppo del soggetto, il mondo della vita viene colonizzato in tutti i suoi ambiti della produzione e della riproduzione, che lo trasformano in una merce, non solo perché esso diventa parte del consumo, ma perché le interazioni umane appaiono intimamente compenetrate dalla logica del capitale»104.
Per questi motivi ci pare particolarmente preziosa l’analisi sull’emergere di un «lavoro autonomo di seconda generazione», non legata a una particolare tipologia contrattuale ma ad essa
100 Marazzi, C. (1994), Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Edizioni
Casagrande, Bellinzona.
101 Bascetta, M. (2004), La libertà dei postmoderni, Manifestolibri, Roma.
102 Come Foucault, interpretiamo un dispositivo non come statico elemento di dominio o pura imposizione su attori
passivi, ma invece come insieme eterogeneo di pratiche di potere e di resistenza. È quindi basato sulla forma intrinsecamente relazionale del potere (cfr. Foucault, M. (a cura di C. Gordon, 1980), Power/Knowledge. Selected Interviews and Other Writings, 1972-1977, Pantheon Books, New York).
103 Alquati, R. (1998), Lavoro e attività. Per un’analisi della schiavitù neomoderna, Manifestolibri, Roma. 104 Aronowitz, S. (2006), Post-Work. Per la fine del lavoro senza fine, op. cit., p. 61.
trasversale. Si tratta infatti, nell’elaborazione di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli, di una figura ibrida all’interno del mercato del lavoro, che mette in discussione la distinzione tra lavoro dipendente e indipendente, sottoposta ai meccanismi della precarizzazione, ma al contempo dotata di una potenziale autonomia. Intesa in questo senso, in quanto incompatibile con il lavoro “normale”, ma anche con la tradizionale figura del libero professionista, il lavoratore autonomo di seconda generazione diventa la filigrana dell’intera composizione del lavoro flessibile, cognitivo e relazionale, delle sue nuove coordinate spazio-temporali:
«L’elemento che differenzia in maniera fondamentale il lavoro autonomo da quello salariato è il contenuto di operazioni relazionali e comunicative che esso richiede. Poiché queste operazioni non sono considerate, nella società dei salariati, operazioni a valore aggiunto, ma semplici costi aggiuntivi del lavoro indipendente, esse non vengono inserite nel bilancio economico della prestazione. […] Alla stregua del lavoro domestico delle donne che, prima del femminismo, era socialmente invisibile, non iscritto nel bilancio economico della società e dunque considerato non-lavoro, così il lavoro relazionale dei lavoratori indipendenti è invisibile, non iscritto nel bilancio economico della società e in definitiva non facente parte del contenuto del lavoro. Il lavoro autonomo non avrà mai piena cittadinanza finché la sua componente relazionale continuerà a essere considerata una diseconomia esterna del postfordismo»105.
Seguendo il filo di continuità con il quadro teorico sopra delineato, merita un breve approfondimento l’emersione di una nuova genealogia del lavoro flessibile e del capitalismo globale. Questo, come in uno specchio, si trova a fronteggiare un lavoro vivo altrettanto mobile e globale. Paradossalmente, infatti, il problema principale delle corporation transnazionali non è aumentare la flessibilità della forza-lavoro, ma di fidelizzarla. In questo dinamico contesto, la pluralità e compresenza delle forme del lavoro, della produzione e dello sfruttamento, è lo specchio della pluralità e della compresenza delle forme della resistenza dei soggetti alla riduzione a forza- lavoro, laddove proprio la produzione della forza-lavoro è il codice della presunta “normalità” del lavoro106. Ancora una volta i migranti – anche nella misura in cui incarnano la mobilità della produzione di saperi – assumono un carattere paradigmatico, non solo come cifra della mobilità del lavoro vivo contemporaneo, ma anche da un altro punto di vista: sono infatti soggetti che non necessariamente hanno fatto esperienza della riduzione alla forma del lavoro “normale”. Indicano dunque lo scarto (e la potenza che in esso si apre) tra autonomia del lavoro vivo e produzione di forza-lavoro – o, per dirla con Marx, la «fabbricazione di salariati»107. In altri termini, saper
105 Bologna, S. (1997), Dieci tesi per la definizione di uno statuto del lavoro autonomo, in Bologna, S. – Fumagalli, A.
(a cura di),Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano, pp. 14- 15.
106 Questa è anche la tesi di Peter Linebaugh e Marcus Rediker, che in una monumentale opera storiografica
rintracciano la genealogia della globalizzazione capitalistica nella mobilità e nel meticciato di un proletariato ab origine transnazionale; per usare le parole degli autori, un’«idra dalle molte teste» che, attraverso le navi e i porti di un altro Atlantico, di un «Atlantico rivoluzionario», si è ribellato e si è battuto per affermare un cosmopolitismo differente da quello che andavano prefigurando i movimenti delle merci e dei capitali (Linebaugh, P. – Rediker, M. (2004), I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, Milano).
leggere la paradigmaticità dei migranti rispetto alla precarietà non significa solo indicarne la condizione di estrema ricattabilità, quindi esclusivamente il carattere di ricatto e assenza (di diritti e tutele); vuol dire innanzitutto individuare in essi le figure attraverso cui leggere la compresenza delle forme del lavoro e del conflitto, ma anche il possibile punto di crisi dei meccanismi di regolazione della forza-lavoro laddove la mobilità non riesce a essere controllata.
Al contempo, le stesse caratteristiche del lavoro cognitivo, cioè la costitutiva intermittenza, flessibilità e mobilità della produzione dei saperi, il suo essere irriconducibile alla standardizzazione e alla rigidità spazio-temporale della formazione e della produzione, ne fanno il paradigma del lavoro precario contemporaneo108. O meglio, indaghiamo la precarietà come un dispositivo di
imposizione del regime salariale e della legge del valore laddove essi sono stati messi in crisi dalle forme assunte dalla cooperazione sociale e dalle stesse trasformazioni produttive. Nel lavoro cognitivo la flessibilità diventa immediatamente il campo di battaglia tra autonoma gestione da parte del lavoro vivo dei propri tempi di vita, e imposizione aziendale. Nella misura in cui vengono messe direttamente in produzione le facoltà cognitive, la linea del conflitto e della gerarchizzazione corre dunque, in tutta evidenza, non più semplicemente tra inclusione ed esclusione dal mercato del lavoro, ma innanzitutto tra autonomia e subordinazione109. Osserva in merito Vercellone:
«La crisi della legge del valore non significa la sua scomparsa in quanto il capitale continua a mantenerla in vigore in maniera forzosa, come “base miserabile” della misura della ricchezza e norma della sua distribuzione. Al tempo stesso, prolungando il pensiero di Marx, si può affermare che lo sgretolamento delle frontiere tradizionali tra lavoro e non lavoro legato al carattere sempre più immateriale e intellettuale del lavoro conduce ad un’estensione dei meccanismi di estrazione del plusvalore sull’insieme dei tempi sociali che partecipano alla produzione sociale. […] Questo schema di lettura permette anche di comprendere che la precarietà delle condizioni i remunerazione e di impiego che caratterizzano il capitalismo cognitivo non può in alcun modo essere considerata una logica economica ineluttabile. Il senso storico di questa tendenza consiste piuttosto nel far riemergere con forza la natura primaria del rapporto salariale: quella di essere un vincolo monetario che fa del lavoro salariato la condizione d’accesso alla moneta, ovverosia un reddito reso dipendente dalle anticipazioni dei capitalisti che determinano il volume della produzione e dell’impiego»110.
A scanso di equivoci, precisiamo ancora che l’assunzione della paradigmaticità del lavoro cognitivo nelle forme della produzione contemporanea non significa né proporre un’indistinzione e un’apparente assenza di gerarchie (sussunte, come fa Florida, in un concetto come quello di
108 Scrive in merito Andrea Ricci: «Nella fase “postfordista” l’apprendimento del lavoro “cognitivo” richiede una
formazione mentale e intellettuale che deriva essenzialmente dalla formazione complessiva che il lavoratore riceve dall’ambiente sociale in cui vive, plasmato dai valori dell’impresa “postfordista”. Rispetto all’abilità esecutiva prevale l’adattabilità ai mutamenti e la capacità di risposta ad essi da parte del lavoratore. Un ambiente sociale fortemente competitivo e incerto costringe il lavoratore ad apprendere queste caratteristiche» (Ricci, A. (2004), Dopo il liberismo. Proposte per una politica economica di sinistra, Fazi Editore, Roma, p. 232).
109 Osserva ancora Ricci: «L’elemento generale unificante di una lotta per la valorizzazione del lavoro salariato, che ne
assume il carattere centrale, è la conquista di spazi di autonomia individuale e collettiva, materiale e culturale, dentro il processo direttamente produttivo e fuori da esso, nella società nel suo complesso. In questa direzione si collocano le proposte di salario minimo e di salario di cittadinanza» (Ivi, p. 233).
«creative class», che rischia di perdere la focalizzazione analitica in modo direttamente proporzionale alla sua estensione quantitativa), né vuol dire suggerire la centralità di un nuovo soggetto produttivo. Da questo punto di vista, preferiamo la definizione di “lavoro cognitivo” a quella di “lavoro immateriale”, che pure ha avuto – in particolare negli anni Novanta – una indubbia efficacia nel descrivere dei tratti salienti del passaggio dal fordismo al postfordismo111. Il lavoro cognitivo comporta infatti una compresenza, piuttosto che un’alternativa escludente, di attività materiale e immateriale, di impiego di attività fisiche e intellettuali. Nello stesso tempo, la qualificazione cognitiva indica nella produzione dei saperi e delle conoscenze la filigrana che plasma l’intero spettro delle forme di gerarchizzazione e divisione all’interno del mercato del lavoro.
Sulla base dell’approccio ambivalente che abbiamo descritto, possiamo ora meglio osservare e precisare le differenze di proposta analitica rispetto alla precarizzazione e flessibilità del lavoro. Le conseguenze e i costi di questo processo sono per Gallino evidenti: le richieste di accrescere la flessibilità del lavoro sono in parte l’espressione, in parte la premessa di un attacco generalizzato al diritto del lavoro; contribuiscono alla frammentazione dei lavoratori e delle loro forme associative; rappresentano un capitolo della de-responsabilizzazione dell’impresa; introducono nel mercato del lavoro il principio del «numero chiuso», ossia la limitazione a pochi eletti di un’occupazione decente, e l’estensione ai quattro quinti dei lavoratori di impieghi temporanei e precari112. Anche Dall’Agata appunta la propria attenzione all’attacco portato dalla flessibilità allo statuto del lavoro, legandolo in modo in equivoco alla perdita di un’identità collettiva e alla crisi della rappresentanza: «Nell’economia delle reti la tendenza vede diminuire i lavoratori dipendente, i contratti collettivi nazionali e, con il fiorire di lavori indipendenti, si assiste ad una individualizzazione dei rapporti di lavoro e al nascere di nuove forme di rappresentanza. Accanto alla crisi della rappresentanza, si parla, infatti, anche di crisi dell’identità collettiva, laddove i lavoratori non si considerano più un’unica forza, un unico organismo, dispersi come sono nei meandri delle aziende con contratti diversi, anche se magari lavorano sugli stessi progetti, all’interno di settori omogenei. E se cala il bisogno di sindacato, come ci segnalano anche alcuni studi sul campo, a causa della frammentazione delle sedi di lavoro, delle figure professionali, dei rapporti di lavoro ecc., non diminuisce il bisogno di tutela soprattutto per alcune fasce di popolazione, quelle meno professionalizzate da un lato e quelle, in generale, con minor potere contrattuale sul mercato del lavoro»113. Dovremmo tuttavia domandarci se la crisi della rappresentanza descritta in modo convincente da Gallino e Dall’Agata, sia determinata solo dalla frammentazione e dalla dispersione
111 Cfr. Lazzarato, M. (1997), Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività, Ombre Corte, Verona. 112 Gallino, L. (2001), Il costo umano della flessibilità, op. cit.
spaziale operata dall’attacco capitalistico ai diritti dei lavoratori, o anche da una peculiare irrappresentabilità delle nuove soggettività del lavoro vivo, indisponibili alle forme classiche della rappresentanza del lavoro novecentesca incardinate sulla forma-partito e sulla forma-sindacato. Quanto questo processo possa andare verso l’invenzione di nuove forme di organizzazione e costruzione di processi di identificazione comune, anziché di semplice perdita di forza e tutele, è