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Nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo

Nel documento Diritti multiculturali in cammino (pagine 86-97)

Diritti culturali dell’umanità divenuti diritti fondamental

5. Le fonti dei diritti culturali nel sistema multilivello

5.2. Nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo

La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non riconosce espressamente la categoria dei diritti culturali e, se analizzata secondo un’interpretazione letterale, sembrerebbe tutelare unicamente le manifestazioni “classiche” della cultura, e cioè i diritti alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, riconosciuti dall’articolo 9.

Lo stesso articolo 9 della Convenzione peraltro, secondo la tecnica tipica della stessa, dopo avere riconosciuto le libertà sopraccitate al primo comma, precisa le finalità in ossequio alle quali la compressione del diritto di manifestare la propria religione può essere consentita al legislatore statale, individuandole nelle limitazioni stabilite dalla legge che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui. Nessun limite è posto alle libertà di pensiero e di coscienza, afferendo queste ultime alla sfera interna dell’individuo, e dunque all’ambito per natura sottratto all’intervento del legislatore.

Alcuni diritti culturali sono invece indubbiamente riconosciuti dalla Convenzione quadro per la Protezione delle Minoranze Nazionali, stipulata in seno al Consiglio d’Europa nel 1995, e in particolare all’articolo 5, che riconosce il diritto a conservare e sviluppare la propria cultura e preservare gli elementi essenziali della propria identità, individuati nella religione, nella lingua, nelle tradizioni e nel patrimonio culturale, affiancato da un dovere per lo Stato di astenersi da politiche assimilazioniste119. I restanti diritti riconosciuti nella

Convenzione quadro ricalcano in linea di massima i diritti già garantiti ad ogni individuo dalla CEDU, senza particolari elementi di novità. Va peraltro rilevato come la

119 Così l’articolo 5: “Le Parti si impegnano a promuovere le condizioni adatte a permettere alle persone

appartenenti a minoranze nazionali di conservare e sviluppare la loro cultura, nonché di preservare gli elementi essenziali della loro identità, cioè la loro religione, la loro lingua, le loro tradizioni ed il loro patrimonio culturale. Senza pregiudizio delle misure prese nel quadro della loro politica generale d’integrazione, le Parti si astengono da ogni politica o pratica tendente ad una assimilazione contro la loro volontà delle persone appartenenti a delle minoranze nazionali e proteggono queste persone contro ogni azione diretta ad una tale assimilazione”.

Convenzione quadro si applichi, per espressa volontà dei contraenti, alle sole minoranze nazionali, e non sia pertanto suscettibile di interpretazione evolutiva.

In ogni caso, nonostante l’assenza di diritti culturali espressamente riconosciuti nella Convenzione, la Corte EDU è giunta, attraverso la sua giurisprudenza evolutiva, a un’interpretazione “culturalmente orientata” di alcuni diritti, con un approccio che sembra avvalorare la ricostruzione della categoria dei diritti culturali come categoria trasversale rispetto alle categorie tradizionali di diritti. È questo il caso, in particolare, dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), dell’articolo 10 (libertà di espressione) e dell’articolo 2 del primo Protocollo addizionale (diritto all’istruzione). Nel 2011 un rapporto redatto dalla Divisione per la ricerca della Corte ha tentato di operare una sistemazione della giurisprudenza in materia, specificando che, pur non avendo la Corte mai espressamente riconosciuto l’esistenza della categoria dei diritti culturali o di un diritto alla cultura, essa è nondimeno pervenuta per via interpretativa al riconoscimento di alcuni diritti “nuovi” che potrebbero essere considerati come diritti culturali in senso lato. Il rapporto elenca i diritti alla libertà di espressione artistica, all’accesso alla cultura, alla lingua, all’istruzione, al patrimonio culturale e naturale, alla verità storica e all’identità culturale120. È piuttosto curioso notare, tuttavia, come il

rapporto ometta di specificare che, pur avendo la Corte spesso riconosciuto astrattamente l’esistenza dei diritti siffatti, nella stragrande maggioranza dei casi essa si sia poi espressa ritenendo legittima la loro compressione nell’ambito del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati.

È proprio questo il caso del diritto alla libertà di espressione artistica, che la Corte riconduce nell’ambito della libertà di espressione coperta dall’articolo 10, ma che non ritiene violato nel caso Otto-Preminger-Institut v. Austria121, con una sentenza che

afferma che non vi è violazione della Convenzione nel divieto imposto a un’associazione di procedere alla proiezione cinematografica del film Das Liebeskonzil a causa della sua rappresentazione estremamente cruda e dissacrante di Dio, Gesù, la Vergine Maria e la

120 Cfr. Divisione per la ricerca, Cultural rights in the case-law of the European Court of Human Rights,

Council of Europe/ECHR, gennaio 2011.

121 Cfr. Otto-Preminger-Institut v. Austria, Application No. 13470/87, 20 settembre 1994. La decisione è

stata definita da S. MANCINI, La supervisione europea presa sul serio: la controversia sul crocifisso tra

margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle Corti, in Giurisprudenza costituzionale, n.

5, 2009 come “il momento più basso nella giurisprudenza del margine di apprezzamento”, avendo essa sposato una logica puramente maggioritaria nella tutela dei diritti fondamentali.

Chiesa cattolica in generale, in quanto detto divieto era giustificato dalla necessità di proteggere la sensibilità religiosa dei cittadini, e ciò nonostante il materiale pubblicitario avvertisse espressamente i potenziali avventori circa i contenuti dell’opera. In İ.A. v.

Turkey122 il medesimo principio di diritti veniva poi trasposto con riferimento alla

necessità di tutelare il sentimento religioso islamico.

Ad approdi simili giungeva la decisione resa nel caso Müller and Others v. Switzerland123,

in cui il ricorrente era stato condannato per l’esposizione di dipinti che ritraevano atti sessuali espliciti. Ancora, la Corte nel caso Lindon, Otchakovsky-Laurens and July v.

France124 riteneva che non fosse violato l’articolo 10 dalla condanna dell’autore di un

romanzo che conteneva alcuni passaggi di critica, anche estremamente violenta nei toni, di un partito politico di estrema destra realmente esistente, ben potendo la libertà dell’autore incontrare le limitazioni di cui al secondo comma dell’articolo 10 (e dunque le limitazioni previste dalla legge che siano necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario), specie se i fatti riportati nell’opera non sono solo frutto della fantasia ma fanno riferimento a situazioni o persone realmente esistenti.

La violazione dell’articolo 10 veniva invece dichiarata nei casi Karataş v. Turkey125, in

cui l’autore di alcuni poemi inneggianti all’indipendenza curda, al sacrificio, e contenenti passaggi verbalmente violenti nei confronti della autorità turche, era stato condannato per avere attentato all’integrità dello Stato, e Vereinigung Bildender Künstler v. Austria126, in

cui era stata vietata l’esposizione di quadri che ritraevano, con intento satirico e provocatorio, diverse figure pubbliche intente a compiere atti sessuali.

122 Cfr. İ.A. v. Turkey, Application no. 42571/98, 13 settembre 2005. Per un’approfondita analisi del

rapporto tra libertà di espressione e sentimento religioso nella giurisprudenza della Corte EDU si veda M. OROFINO, La tutela del sentimento religioso altrui come limite alla libertà di espressione nella

giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rivista AIC, n. 2, 2016. 123 Cfr. Müller and Others v. Switzerland, Application No. 10737/84, 24 maggio 1988.

124 Cfr. Lindon, Otchakovsky-Laurens and July v. France, [GC], Applications nos. 21279/02, 36448/02, 22

ottobre 2007.

125 Cfr. Karataş v. Turkey, Application no. 23168/94, 8 luglio 1999. In questo senso altresì la pronuncia

della Corte in Alınak v. Turkey, Application no. 40287/98, 29 marzo 2005.

È quindi sin da ora possibile rilevare come la giurisprudenza della Corte in tema di diritto “culturale” alla libertà di espressione artistica presti il fianco a due ordini di censure. In primo luogo, nei casi in cui era necessario operare un bilanciamento tra libertà di espressione artistica e sentimento religioso, la religione tutelata è sempre stata quella predominante nell’ordinamento interessato, e dunque la Corte EDU, pur riconoscendo l’esistenza di un diritto astrattamente culturale, non esita a sacrificarlo in nome della necessità di salvaguardare la cultura maggioritaria. In secondo luogo, nei casi in cui ha rinvenuto una violazione del diritto azionato, la Corte non ha mai ritenuto che il fine perseguito dal divieto imposto nell’ordinamento nazionale fosse illegittimo, ma piuttosto che il mezzo attraverso il quale detto fine era stato perseguito fosse sproporzionato: ciò implica che la compressione del diritto alla libertà di espressione artistica avrebbe potuto avvenire legittimamente laddove il mezzo utilizzato fosse stato meno invasivo.

Sempre con riferimento alla libertà di espressione, con la sentenza nel caso Akdaş v.

Turkey127, in cui il ricorrente lamentava di essere stato condannato per avere pubblicato

una traduzione in turco dell’opera erotica di Apollinaire Les onze mille verges, ritenuta oscena e immorale nell’ordinamento nazionale, la Corte sembra riconoscere una sorta di diritto ad accedere alle opere facenti parte del patrimonio culturale europeo, in grado di bilanciare la violazione del diritto penale interno. Detto bilanciamento può tuttavia avvenire solo a condizione che l’opera superi una sorta di test di “rilevanza culturale”, con riguardo alla fama dell’autore, la data di pubblicazione, la diffusione, la presenza in collezioni di prestigio. Da notare come, anche in questo caso, l’accesso alla cultura tutelato sia in effetti l’accesso alla cultura maggioritaria, con la conseguenza che, in assenza di un diritto speculare con riferimento alle minoranze e alle loro culture, il rischio è che alle minoranze venga in ultima analisi riconosciuto un mero diritto a essere culturalmente assimilate nella maggioranza.

Con riferimento al diritto alla lingua, la giurisprudenza della Corte è chiara nell’escludere l’esistenza di un diritto siffatto nell’ambito della Convenzione, e nell’affermare che rientra di norma nelle prerogative dello Stato la scelta di imporre una determinata lingua quale lingua ufficiale ovvero per le comunicazioni con la pubblica amministrazione (salvo ovviamente il diritto di difesa nell’ambito del giusto processo). Le decisioni in

materia riguardano prevalentemente casi in cui il cognome del ricorrente era stato trasposto, a volte in modo infedele, nella lingua dello Stato di residenza128.

Il diritto a usare la propria lingua è pertanto protetto dalla Corte EDU solo nella misura in cui esso risulti strumentale rispetto all’esercizio di un altro diritto espressamente riconosciuto nella Convenzione, come ad esempio nel caso Mehmet Nuri Özen and

Others v. Turkey129, in cui a un detenuto veniva impedito di intrattenere una

corrispondenza nella sua lingua (curda) madre130, o nel caso Ulusoy and Others v.

Turkey131, in cui veniva vietata la rappresentazione di uno spettacolo teatrale municipale

in lingua curda.

Similmente restrittiva appare la giurisprudenza della Corte con riferimento al diritto all’istruzione, in entrambe le accezioni coperte dalla Convenzione: e così non esiste un diritto a ricevere l’istruzione in una lingua di propria scelta, e non esiste un diritto dei genitori a che i figli siano istruiti secondo la propria lingua132, salvo casi speciali, come

quello oggetto della decisione Cyprus v. Turkey133, in cui alle minoranze greche cipriote

era preclusa la prosecuzione degli studi in lingua greca dopo avere ricevuto in tale lingua l’istruzione primaria.

Per quanto riguarda il diritto a libere elezioni, la Corte nel caso Podkolzina v. Latvia134

ha stabilito una soglia di protezione piuttosto bassa per le minoranze linguistiche, statuendo la legittimità in linea di principio dell’esclusione dalle liste elettorali di candidati che non dimostrino una sufficiente conoscenza della lingua ufficiale, attesa la liceità del fine perseguito, rinvenuto nella salvaguardia di un efficiente funzionamento delle istituzioni democratiche, pur rinvenendo la violazione della Convenzione a causa della mancanza di trasparenza e ragionevolezza del procedimento seguito per determinare

128 Cfr.: Mentzen v. Latvia, Application no. 71074/01; Kuharec alias Kuhareca v. Latvia, Application no.

71557/01, 7 dicembre 2004; Bulgakov v. Ukraine, Application no. 59894/00, 11 settembre 2007; Baylac-

Ferrer and Suarez v. France, Application no. 27977/04, 25 settembre 2008; Kemal Taşkın and Others v.

Turkey, Application no. 30206/04 and others, 2 febbraio 2010. In senso conrario Güzel Erdagöz v. Turkey, Application no. 37483/02, 21 ottobre 2008, non perché l’imposizione della traduzione del cognome fosse illegittima, ma perché i criteri in base ai quali detta traduzione deve avvenire erano eccessivamente vaghi.

129 Cfr. Mehmet Nuri Özen and Others v. Turkey, Application no. 15672/08 and others, 11 gennaio 2011. 130 Cfr. in senso contrario Senger v. Germany, Application no. 32524/05, 3 febbraio 2009, in cui tuttavia il

detenuto era bilingue, e non aveva allegato rilevanti ragioni per cui avrebbe preferito corrispondere in una lingua diversa da quella dello Stato dove stava scontando la pena.

131 Cfr. Ulusoy and Others v. Turkey, Application no. 34797/03, 3 maggio 2007.

132 Cfr. Case “relating to certain aspects of the laws on the use of languages in education in Belgium” v. Belgium, Application no. 1474/62 and others, 23 luglio 1968.

133 Cfr. Cyprus v. Turkey, [GC], Application no. 25781/94, 12 maggio 2014. 134 Cfr. Podkolzina v. Latvia, Application no. 46726/99, 9 aprile 2002.

l’esclusione del candidato nel caso concreto. La Convenzione quindi non solo non riconosce un generico diritto a utilizzare la propria lingua, ma neppure riconosce tutela alle minoranze linguistiche “storiche”, configurando quindi un livello di protezione considerevolmente inferiore rispetto a quello rinvenibile negli ordinamenti costituzionali della maggior parte degli Stati europei.

Strettamente connesso al diritto alla lingua è il diritto all’istruzione che, come noto, ai sensi dell’articolo 2 del primo Protocollo alla Convenzione, comprende il diritto a ricevere un’istruzione e il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose e filosofiche. La giurisprudenza della Corte si è sin da subito assestata nel senso che l’obbligo per gli Stati è quello di garantire il mero accesso all’istruzione, mentre non è possibile rinvenire un obbligo positivo di predisporre particolari mezzi ai fini di garantire specifici tipi di istruzione135. Con riferimento

all’interferenza dell’obbligo scolastico con il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni, la Corte ha individuato il criterio per cui gli insegnamenti contenuti nei programmi scolastici sono compatibili con la Convenzione a patto che essi siano trasmessi in modo oggettivo, critico e plurale, ovvero se agli studenti è riconosciuta la possibilità di essere esonerati dalle lezioni che violino il criterio sopraccitato136.

Parte della dottrina ha poi ritenuto che la giurisprudenza della Corte abbia riconosciuto un diritto (addirittura un diritto collettivo) ad accedere al patrimonio culturale (materiale o immateriale)137. Detta interpretazione non risulta tuttavia condivisibile, in primo luogo

perché un tale diritto non è espressamente previsto dalla Convenzione, e in secondo luogo perché la protezione e l’accessibilità del patrimonio culturale sembrano essere ricondotte, nella giurisprudenza di Strasburgo, non già a un diritto (individuale o collettivo), come sembrano ritenere gli autori sopraccitati, ma piuttosto a un fine (una sorta di interesse costituzionalmente rilevante alla conservazione e accessibilità del patrimonio culturale materiale) che gli Stati possono legittimamente perseguire, se del caso comprimendo in

135 Cfr. Case “relating to certain aspects of the laws on the use of languages in education in Belgium” v. Belgium, Application no. 1474/62 and others, 23 luglio 1968.

136 Cfr.: Kjeldsen, Busk Madsen and Pedersen v. Denmark, Application no. 5095/71 and others, 7 dicembre

1976; Folgerø and Others v. Norway, [GC], Application no. 15472/02, 29 giugno 2007; Appel-Irrgang v.

Germany, Application no. 45216/07, 6 ottobre 2009.

137 Si veda ad esempio A JAKUBOWSKI, Cultural heritage and the collective dimension of cultural rights in the jurisprudence of the European Court of Human Rights, in A. Jakubowski (a cura di), Cultural rights as collective rights. An international law perspective, cit., 165 ss.

sede di bilanciamento la portata della protezione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione stessa.

Nel caso Beyeler v. Italy138 la Corte EDU ha ritenuto che la tutela del patrimonio artistico

materiale sia fine lecito e idoneo a giustificare la compressione del diritto di proprietà, e più specificatamente attraverso il riconoscimento di un diritto di prelazione in capo allo Stato (nonostante nel caso di specie sia stata censurata la modalità di esercizio di detto diritto, tardiva e incompatibile con la certezza dei rapporti giuridici). Il potere statale di salvaguardia del patrimonio artistico si estende al punto da ricomprendere anche opere realizzate da artisti stranieri, nella misura in cui gli interventi siano finalizzati a garantire il più ampio accesso pubblico a dette opere, che possono essere ritenute appartenenti ad un “patrimonio culturale universale”. Il ragionamento svolto sulla prelazione è stato di poi esteso all’espropriazione, con il caso Debelianovi v. Bulgaria139.

Nonostante la Convenzione non riconosca espressamente un diritto alla memoria storica, la Corte è arrivata, attraverso la sua giurisprudenza, e in particolare nel caso Chauvy and

Others v. France140, ad affermare che la ricerca della verità storica rappresenta una

componente imprescindibile del diritto alla libertà di espressione141. La ricerca della

verità storica (e la libertà di espressione così come tutelata dall’articolo 10) trova tuttavia un limite invalicabile nel divieto di negare fatti storici accertati, come ad esempio l’Olocausto, specie se particolarmente significativi o addirittura determinanti per la cultura di un particolare gruppo etnico. Nel caso Garaudy v. France142 la Corte ha chiarito

che un utilizzo della libertà di espressione garantita dalla Convenzione che ferisca in modo profondo l’identità culturale stessa di un popolo costituisce un abuso del diritto, e cade pertanto al di fuori della protezione accordata dall’articolo 10.

Il recente caso Kenedi v. Hungary143 sembra inoltre avere stabilito un collegamento tra

diritto alla verità storica e diritto di accesso alla cultura, riconoscendo la violazione del

138 Cfr. Beyeler v. Italy, [GC], Application no. 33202/96, 5 gennaio 2000. Nello stesso senso: Ruspoli Morenes v. Spain, Application no. 28979/07, 28 giugno 2011; Buonomo Gärber and others v. Italy,

Application no. 63783/00 and others, 20 maggio 2003.

139 Cfr. Debelianovi v. Bulgaria, Application no. 61951/00, 29 marzo 2007. Nello stesso senso anche Kozacıoğlu v. Turkey, [GC], Application no. 2334/03, 19 febbraio 2009.

140 Cfr. Chauvy and Others v. France, Application no. 64915/01, 29 settembre 2004.

141 Sul diritto alla memoria storica come diritto culturale si vedano: A. DI GREGORIO, Memoria collettiva, identità e cultura nello Stato democratico, in P. Bilancia (a cura di), Diritti culturali e nuovi modelli di sviluppo, cit. 129 ss.; J. LUTHER, Il diritto alla memoria come diritto culturale dell’uomo in democrazia,

in AA. VV., Studi in onore di Franco Modugno, vol. III, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011.

142 Cfr. Garaudy v. France, Application no. 65831/01, 24 giugno 2003. 143 Cfr. Kenedi v. Hungary, Application no. 31475/05, 26 maggio 2009.

diritto alla libertà di espressione dello storico al quale sia impedito l’accesso ad archivi o documenti la cui consultazione sia essenziale per la ricerca. Si tratta a ben vedere di una specie “qualificata” dell’interesse all’accessibilità del patrimonio culturale, in quanto il fine ultimo dell’accertamento della verità storica (e dunque dell’esercizio della libertà di espressione) sembra espanderne la portata, estendendola dalle fonti della cultura accessibili al pubblico a quelle custodite o finanche secretate dallo Stato.

La Corte EDU sembrerebbe essere pervenuta, tramite la propria giurisprudenza, a un’interpretazione estensiva del diritto al rispetto della vita familiare riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione, interpretazione che consente il riconoscimento di qualcosa che si avvicina molto alla definizione di diritto individuale alla cultura così come definito nei paragrafi precedenti. In particolare, nel caso Chapman v. the United

Kingdom144, avente ad oggetto il ricorso di una donna appartenente alla minoranza rom

alla quale era stato fatto divieto di vivere in una roulotte parcheggiata su di un terreno di sua proprietà, la Corte riconosceva che vivere in una roulotte è un’espressione della cultura nomade, che a sua volta è parte integrante dell’identità culturale rom. Nel caso di specie non veniva in rilievo il mero diritto al rispetto della vita familiare (nella forma dell’abitazione), ma un diritto ancor più intimamente legato alla sfera interna dell’individuo, in quanto il provvedimento andava a mutilare l’identità culturale stessa della ricorrente, impedendo a detta identità di proiettarsi nell’ordinamento.

La Corte ha inoltre dichiarato di ritenere sussistente un generale accordo tra gli Stati firmatari della Convenzione circa la necessità di riconoscere le particolari necessità delle minoranze e di proteggere la loro sicurezza, la loro identità ed il loro stile di vita, e che pertanto l’articolo 8 può fornire la base giuridica per specifici diritti positivi, per obblighi di fare in capo allo Stato al fine di assecondare le particolari esigenze delle minoranze. Questo tipo di protezione non viene riconosciuto dalla Corte di Strasburgo soltanto ai fini di tutelare gli interessi delle culture minoritarie, ma anche ai fini di preservare la diversità culturale, che rappresenta un valore per l’intero ordinamento sovranazionale. La Corte ha

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