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L’impatto del multiculturalismo sulla categoria dei diritti cultural

Nel documento Diritti multiculturali in cammino (pagine 148-156)

L’evolversi dello Stato multiculturale europeo

4. L’impatto del multiculturalismo sulla categoria dei diritti cultural

Alla luce di quanto sinora esposto, è facile intuire l’impatto dirompente che il multiculturalismo ha avuto sulla categoria dei diritti culturali, impatto che peraltro non potrà che riguardare prevalentemente i singoli diritti culturali posti a tutela delle minoranze, e solo in misura minore i diritti culturali “di tutti” (come ad esempio il diritto all’istruzione, la libertà dell’arte e delle scienze, o il diritto a fruire del patrimonio culturale nazionale). Come si è visto, infatti, i diritti culturali rappresentano lo strumento principe attraverso il quale le minoranze “storiche” (i gruppi che divengono minoranze nel momento in cui l’ordinamento costituzionale ha origine), vengono tutelate nello Stato democratico pluralista, a volte a titolo quasi-risarcitorio (nel caso in cui dette minoranze

128 Sulla differenza tra multiculturalismo e antidiscriminazione si veda in particolare C. JOPPKE, Is multiculturalism dead?, cit., 115 ss., che definisce il multiculturalismo come una “politica

siano state in passato oggetto di segregazione o oppressione da parte della maggioranza129. La situazione è tuttavia drasticamente mutata nel corso dell’ultima

decade del XX secolo, e le teorie del multiculturalismo hanno giocato un ruolo centrale nell’evoluzione e nella ridefinizione della categoria di diritti in esame.

Se dall’idea di cultura si passa all’idea di culture, e si accetta allo stesso tempo che la cultura sia svincolata da particolari legami materiali, e soprattutto dall’identificazione con uno specifico territorio o con le vicende storiche dell’ordinamento, afferendo piuttosto alla sfera più intima dell’individuo, e potendo dunque essere facilmente “trapiantata” di ordinamento in ordinamento, seguendone gli spostamenti (in particolare nell’ambito dei flussi migratori), diviene estremamente difficile giustificare una limitazione del godimento dei diritti culturali alle sole minoranze storiche, escludendo invece le nuove minoranze130. Il nuovo contesto globalizzato e multiculturale impone infatti una lettura

espansiva sia del concetto di minoranza, che dei diritti di libertà, alla luce del venir meno dello Stato-nazione e dell’allargamento dei confini nazionali131.

I migranti hanno contribuito, con il loro movimento, alla moltiplicazione delle differenze e all’accentuarsi del pluralismo culturale, creando una società caratterizzata da un pluralismo estremo, fatta di religioni, tradizioni, modelli e dinamiche sociali a volte molto differenti da quelli storicamente propri della visione del mondo tipicamente occidentale, tramutando una relativa omogeneità nazionale e sociale in una realtà caratterizzata da differenze culturali in precedenza sconosciute e spesso profonde132.

Così, come spesso accade che un concetto giuridico assuma una vita propria e significati nuovi e imprevedibili per chi lo ha per primo teorizzato133, e come già è accaduto con il

concetto di multiculturalismo, anche la categoria dei diritti culturali si è espansa ed evoluta, estendendo il proprio campo di applicazione ben al di là delle intenzioni del legislatore del diritto internazionale convenzionale del Secondo Dopoguerra. Ciò è avvenuto, in larga misura, perché le nuove minoranze hanno iniziato a reclamare diritti la

129 Sulla funzione dei diritti culturali nello Stato costituzionale si veda G. PINO, Libertà religiosa e società multiculturale, cit., 161 ss.

130 Si veda sul tema R. PIROSA, Multiculturalismo, dibattito teorico e soluzioni normative, in L’altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, 2009.

131 Si veda E. ROSSI, Minoranze etnico-linguistiche, cit., 267.

132 Sul tema si veda A. SEN, Identity and violence, (2006), trad. it., Identità e violenza, Roma-Bari, Laterza,

2008, 115 ss.

133 In questo senso N. GLAZER, We are all multiculturalists now, Cambridge, Harvard University Press,

cui piena estensione era stata sino ad allora soltanto dichiarata, ma non concretamente attuata, nella misura in cui essi erano stati saldamente ancorati a criteri storici e geografici, se non addirittura alla cittadinanza nazionale, sfruttandone appieno (e finanche esasperandone) la portata contro-maggioritaria134. Basti pensare alla libertà religiosa,

dichiarata senza particolari problemi quando le differenze erano tra cattolici, protestanti e ortodossi, e divenuta oggi oggetto di un acceso dibattito quando invocata dalle nuove minoranze (cfr. cap. IV, 2.2.).

La possibilità di estendere il riconoscimento di un trattamento differenziato, per mezzo dei diritti culturali, dalle minoranze storiche alle “nuove minoranze”, è stata contestata in dottrina, proprio sulla base dell’argomento per cui le minoranze del primo tipo potrebbero vantare un particolare diritto all’identità, degno di tutela, in ragione del loro stretto legame con il territorio, e dunque il riconoscimento dei medesimi diritti “particolari” alle minoranze del secondo tipo, che vengono a crearsi in conseguenza dei flussi migratori, si porrebbe in violazione del principio di eguaglianza135. Il sottinteso di un’impostazione

siffatta è quello per cui le “nuove minoranze”, i migranti, accettando liberamente di lasciare il proprio Paese di origine (al contrario delle minoranze storiche, che hanno subito la trasformazione del loro territorio natio), avrebbero in qualche modo rinunciato volontariamente alla propria cultura (al diritto a conservare la propria cultura). La teoria non convince, nella misura in cui essa sembra paradossalmente porsi in contrasto con una concezione universalista dei diritti fondamentali dell’individuo: se infatti si ritiene, come pare opportuno, che l’identità culturale sia tutelata da diritti culturali, e se si ritiene che detti diritti siano riconducibili nel novero dei diritti fondamentali (cfr. cap. II, 6.), il diritto

134 Si veda O. GIOLO, Migranti. Diritti in bilico?, cit., 191.

135 Si veda in questo senso G. CERRINA FERONI, L’esperienza tedesca di multiculturalismo: società multietnica e aspirazioni di identità etnoculturale, in Rivista AIC, 2008, 3., per cui addirittura ciò

comporterebbe la rottura di “uno dei capisaldi dello Stato contemporaneo”. Trattasi di impostazione che discende dalla risalente teoria che ritiene la localizzazione territoriale (e addirittura la cittadinanza) elementi necessari per la definizione delle minoranze. In questo senso, circa il rapporto tra minoranze e territorio, si veda M. STIPO, Minoranze etnico-linguistiche, in Enciclopedia giuridica, XX, Torino, Treccani, 1990. Detto rapporto costituisce la regola anche per A. PIZZORUSSO, Le minoranze nel diritto pubblico interno, cit., 193. Trattasi di impostazione in parte coincidente con quella della stessa UN Commission on Human Rights, che ha affermato che “The best approach appears to be to avoid making an absolute distinction

between “new” and “old” minorities by excluding the former and including the latter, but to recognize that in the application of the Declaration the “old” minorities have stronger entitlements than the “new””. Cfr.

UN Sub-Commission on the Promotion and Protection of Human Rights, Commentary of the Working

Group on Minorities to the United Nations Declaration on the Rights of Persons Belonging to National or Ethnic, Religious and Linguistic Minorities, 4 April 2005, E/CN.4/Sub.2/AC.5/2005/2. Il dibattito sul tema

è tutt’altro che sopito anche nell’ambito della dottrina internazionalistica: si veda, per tutti, F. CAPOTORTI, Study on the rights of persons belonging to ethnic, religious, and linguistic minorities, cit.

a mantenere la propria cultura non potrà mai essere abdicato dal suo titolare, neppure volontariamente, essendo l’indisponibilità una caratteristica di ogni diritto fondamentale. Va inoltre osservato che, se non può essere negata l’estensione dei diritti culturali, come categoria, alle “nuove minoranze”, è invece possibile e opportuno distinguere tra le diverse sottocategorie dei cosiddetti “diritti di gruppo”, in quanto non tutte appaiono suscettibili di applicazione generale ad ogni tipologia di minoranza. E dunque, se il radicamento sul territorio tipico delle minoranze storiche non può fondare un’indiscriminata esclusione delle nuove minoranze dal godimento dei diritti culturali fondamentali, detto criterio potrà invece fondare il riconoscimento solo in capo alle prime della particolare sottocategoria di diritti che è quella (riprendendo la tripartizione di Kymlicka) dei diritti di autogoverno, risultando ragionevole in questo caso la differenziazione del trattamento136 . Nessun dubbio dovrebbe invece esservi con

riferimento all’estendibilità alle nuove minoranze dei diritti di rappresentanza, e anzi appare opportuno che lo Stato istituisca appositi meccanismi per garantire il dialogo e l’interazione con le minoranze culturali nell’ambito dei meccanismi della democrazia rappresentativa137. Similmente, nessun dubbio sull’estendibilità alle nuove minoranze dei

cosiddetti “diritti polietnici”, e dunque dei diritti culturali (più propriamente intesi) negativi e positivi che tutelano l’identità culturale di una data minoranza, e del resto, come si vedrà, sono proprio questi i diritti che vengono, nella stragrande maggioranza dei casi, invocati dalle nuove minoranze.

In questo senso, volendo utilizzare la categorizzazione delle minoranze “volontarie” proposta dalla dottrina, per cui esse si dividerebbero in minoranze secessioniste (che chiedono la separazione dallo Stato), minoranze autonomiste (che chiedono particolari forme di autogoverno all’interno dello Stato) e minoranze “identitarie” (che chiedono garanzie giuridiche particolari che consentano di mantenere alcune loro caratteristiche

136 Si veda in punto G. CERRINA FERONI, L’esperienza tedesca di multiculturalismo: società multietnica e aspirazioni di identità etnoculturale, 3 ss.. Trattasi in ogni caso di categoria di diritti di gruppo non

automaticamente ascrivibili nel novero dei diritti culturali, e del resto lo stesso Kymlicka parla di “diritti di gruppo”: i due termini non sono, come si è detto, sinonimi. Si veda W. KYMLICKA, Multicultural

citizenship: a liberal theory of minority rights, cit., 113.

137 Peraltro anche in questo caso la questione appare riconducibile, più che nell’ambito dei diritti culturali,

nell’ambito di un pieno esercizio dei diritti politici, e dunque dell’auspicata rottura del binomio diritti politici-cittadinanza. Si veda, sul tema A. ALGOSTINO, I diritti politici dello straniero, Napoli, Jovene, 2006.

culturali)138, sembra che le “nuove minoranze” possano essere fatte rientrare proprio in

quest’ultima categoria.

Il quadro appena descritto porta a problematiche particolarmente complesse, a maggior ragione se si dovesse accogliere la tesi per cui i diritti culturali sarebbero (anche) diritti collettivi: il riconoscimento di diritti di tale portata in capo a minoranze prive del radicamento, della solidità, dell’impianto organizzativo, del legame storico con lo Stato, che caratterizzano le minoranze nazionali può portare a situazioni difficilmente regolabili dal legislatore. In estrema sintesi, si può osservare sin da ora come il principale prodotto della declinazione dei diritti culturali nel nuovo Stato multiculturale sia l’espansione, per certi versi incontrollabile, del loro ambito di applicazione, testimoniata dal proliferare della casistica, legislativa, giurisprudenziale, ma anche nella cronaca di tutti i giorni, avente ad oggetto la gestione delle istanze culturali negli ordinamenti ospitanti (cfr. cap. IV, 2.).

Si è in ogni caso sottolineato come la vocazione dei diritti culturali sarebbe diversa, a seconda che gli stessi siano garantiti (o invocati) dalle minoranze storiche piuttosto che dalle nuove minoranze139. Nel primo caso infatti, coerentemente con la logica risarcitoria

di cui si è detto, i diritti culturali avrebbero una vocazione “anti-centrifuga”, nel senso che essi servirebbero a far sì che siano disinnescate le spinte separatiste e secessioniste che animano le minoranze più saldamente radicate nel territorio. Nel secondo caso, invece, i diritti culturali avrebbero una vocazione strettamente centripeta, nel senso che essi tenderebbero all’integrazione, all’assorbimento nel tessuto sociale di minoranze sradicate dal proprio territorio.

Altra critica, di tenore solo in parte analogo a quelle sinora esaminate, è quella per cui il riconoscimento di particolari diritti in capo agli appartenenti alle nuove minoranze culturali, e le politiche del riconoscimento in generale, rappresenterebbero un “trattamento preferenziale”, e dunque un trattamento diseguale vietato secondo principio di eguaglianza140. La critica in esame, pur coerente in una prospettiva di eguaglianza

formale strettamente intesa, sembra tuttavia sacrificare eccessivamente l’altrettanto fondamentale principio di eguaglianza sostanziale, ben potendo il riconoscimento di tali

138 La classificazione è operata da A. PIZZORUSSO, Minoranze etnico-linguistiche, cit.

139 Si veda W. KYMLICKA, Multicultural citizenship: a liberal theory of minority rights, cit., 18 ss. 140 Si veda G. CERRINA FERONI, L’esperienza tedesca di multiculturalismo: società multietnica e aspirazioni di identità etnoculturale, cit., 3 ss.

diritti configurarsi come discriminazione positiva in favore di individui appartenenti a categorie strutturalmente svantaggiate.

Il riconoscimento dei diritti culturali può divenire, pertanto, uno dei principali strumenti attraverso i quali lo Stato, per il tramite di politiche multiculturali, persegue l’eguaglianza sostanziale, andando a colmare (o quantomeno a mitigare) diseguaglianze strutturali tipiche della società globalizzata e dell’epoca delle massicce migrazioni, e che rappresentano indubbiamente, ai sensi dell’articolo 3 Cost., ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (rectius, degli individui141),

trovandosi i membri delle minoranze culturali in una posizione di “svantaggio sistemico” nel “mercato culturale”142.

A prescindere dal suesposto dibattito dottrinale, rimane il dato oggettivo che il legame tra diritti culturali e territorio, che era stato tradizionalmente prospettato dalla dottrina143,

sembra essere stato ormai irreversibilmente scardinato nella realtà dei fatti dall’avvento del multiculturalismo. Come si vedrà, infatti, il riconoscimento di detti diritti in capo alle nuove minoranze è ormai un dato di fatto sia con riferimento alla giurisprudenza che con riferimento all’attività del legislatore144, e ciò nonostante la locuzione “diritti culturali”

venga in concreto utilizzata molto raramente (e verosimilmente proprio ai fini di evitare di doversi confrontare apertamente con le problematiche giuridico-politiche sottese al riconoscimento statuale dell’identità culturale delle nuove minoranze).

Con riferimento poi agli specifici diritti culturali invocati dalle nuove minoranze, va osservato che il quadro non si presenta omogeneo, ma che può individuarsi, come regola generale, un rapporto di proporzionalità tra il tempo di permanenza nell’ordinamento ospitante e l’ampiezza della sfera di diritti culturali reclamati. Conseguentemente, i primi

141 Cfr. Corte Cost., n. 104/1969, per cui il principio di eguaglianza opera anche nei confronti dello straniero

“allorché si tratti della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo garantiti allo straniero anche in conformità dell’ordinamento internazionale”.

142 Secondo l’espressione usata da W. KYMLICKA, Multicultural citizenship: a liberal theory of minority rights, cit., 113.

143 Detto legame, già teorizzato dai primi sostenitori del multiculturalismo, è stato evidenziato in ultimo,

con riferimento all’ordinamento costituzionale italiano, da F. SGRÒ, La duplice natura dei diritti culturali, cit., 62 ss.

144 Si veda in questo senso L. ORGAD, The cultural defense on Nations. A liberal theory of majority rights,

cit., 177, che evidenzia come le originarie limitazioni dei diritti culturali che ne riservavano il pieno godimento alle sole minoranze storiche, ipotizzate dai primi teorici del multiculturalismo, tra cui lo stesso Kymlicka, siano ben presto venute meno sul piano empirico.

diritti culturali che le nuove minoranze invocano, nella fase iniziale della convivenza, in cui la dispersione sul territorio e l’assenza di un’unità di intenti politica non favoriscono (e anzi in alcuni casi oggettivamente precludono) l’invocazione di tutele ulteriori, sono inevitabilmente quelli relativi alla sfera più intima della cultura, al mantenimento dell’identità culturale quale limite all’assimilazione nella cultura maggioritaria. Si tratterà pertanto di diritti “negativi” riconducibili al diritto alla cultura (a mantenere la propria cultura), anche attraverso le sue singole manifestazioni: diritto alla libertà religiosa, diritti linguistici, diritto dei genitori ad istruire i figli secondo le proprie convinzioni. Sono proprio questi diritti che potrebbero essere definiti, in un certo senso “diritti

multiculturali”.

Successivamente, quando si sarà consolidato da un lato il legame interno dell’individuo con la minoranza di appartenenza, e dall’altro il legame esterno della minoranza con l’ordinamento ospitante, saranno invocati anche diritti relativi alla vita culturale di gruppo, e dunque diritti culturali positivi, come ad esempio il diritto all’istruzione (a istituire proprie scuole), il diritto ad avere propri luoghi di culto, il diritto a essere rappresentati nell’ambito del sistema radiotelevisivo, o in generale ogni accomodamento relativo alla componente trasversale dei diritti culturali (e dunque particolari modalità di erogazione delle prestazioni da parte dello Stato).

Le politiche multiculturali devono quindi necessariamente tradursi nel riconoscimento e nella garanzia non solo di diritti culturali negativi, e dunque di una sfera culturale libera dall’ingerenza dello Stato, ma anche in diritti culturali positivi (cfr. cap. II, 4.). Il mero riconoscimento dei diritti culturali rischia infatti di risultare in un’impostazione paternalistica e mistificante, e dunque di portare, in ultima analisi, a un peggioramento delle tensioni multiculturali: si deve pertanto passare dalla logica dei diritti astrattamente intesi alla logica dei diritti effettivamente pretesi, per come essi si sono evoluti e per come essi sono in concreto invocati dalle minoranze nell’ordinamento costituzionale145.

Infine, non si può tacere, nascondendosi dietro a un dito, di come l’estensione del riconoscimento dei diritti culturali alle nuove minoranze sia stata ritenuta problematica in

145 Si veda in questo senso G. AZZARITI, Cittadinanza e multiculturalismo: immagini riflesse e giudizio politico, in Diritto pubblico, n. 1, 2008, 194 ss., per cui è necessario porsi, in tale prospettiva, “dalla parte

dei deboli e dei “senza diritti”. Superando una strategia di passivo “riconoscimento” e di mera “tutela” dell’altro, che può risultare, alla fine, soffocante, paternalistica o mistificante; ponendo, invece, il proprio agire – collegato al proprio pensato – entro una prospettiva di lotta, conformazione e conquista dei diritti di ciascuno e di autonomo sviluppo dei soggetti e delle loro diversità”.

particolare con riferimento a una specifica minoranza: quella di fede musulmana. Il problema nasce perché ci si interroga circa l’uso che di detti diritti potrà essere fatto da parte di una minoranza che viene percepita, a torto o a ragione, come profondamente illiberale, nella misura in cui essa propugnerebbe (e vivrebbe secondo) una scala di valori e principi radicalmente incompatibile con quella propria del costituzionalismo italiano ed europeo. Si fa in particolare riferimento al rifiuto dello Stato di diritto (che soccomberebbe di fronte alla prevalenza della legge shariatica su quella statuale), alla negazione del principio di eguaglianza (con un’impostazione patriarcale della famiglia che pone l’uomo in posizione sovraordinata rispetto alla donna e alla prole), alla negazione del principio pluralista (in quanto non è concepita alcuna tutela per le minoranze interne e non è tollerata la diversità di opinioni su questioni di fede) e a una negazione di numerosi diritti fondamentali, e in primis del diritto alla libertà di espressione (con una repressione delle posizioni dissenzienti o non allineate rispetto ai ridetti valori fondanti nella loro interpretazione maggioritaria) o all’autodeterminazione (con la punizione, anche capitale, per chi dovesse abbandonare la fede islamica)146. La

preoccupazione è, pertanto, che i diritti culturali vengano utilizzati da minoranze antidemocratiche e antiliberali ai fini di piegare, in sede di bilanciamento, i principi e i diritti fondamentali dello Stato democratico e liberale, affermando una visione valoriale aliena e sostanzialmente inaccettabile.

Nonostante le riserve appena descritte non appaiano prive di fondamento, non sembra che esse possano fondare legittimamente un rifiuto generalizzato dell’estensione del riconoscimento dei diritti culturali alle nuove minoranze. Infatti, se si ritiene che i diritti culturali siano diritti fondamentali dell’individuo, appare difficile sostenere che uno Stato di diritto possa negare il riconoscimento e la tutela di un diritto fondamentale sula scorta di una preoccupazione circa come detto diritto potrà essere utilizzato in concreto, ponendosi questa seconda questione sul diverso piano della predisposizione di un idoneo apparato giuridico e sociale che possa intervenire risolvendo ragionevolmente eventuali questioni di bilanciamento e di distorsione delle tutele. La questione in esame si riduce pertanto, a ben vedere, al noto paradosso democratico: può uno Stato democratico

146 Trattasi di preoccupazione espressa e argomentata, ad esempio, da: G. CERRINA FERONI, Diritto costituzionale e società multiculturale, cit.; G. SARTORI, Pluralismo, multiculturalismo e estranei, cit.;

M. D’AMICO, Laicità costituzionale e fondamentalismi tra Italia ed Europa: considerazioni a partire da

ricorrere a metodi antidemocratici (quale è certamente la negazione di diritti fondamentali) ai fini di preservare la propria democraticità? Fino a dove si può spingere l’“istinto di autoconservazione” della democrazia?

Piuttosto che una negazione dei diritti culturali tout court, che appare costituzionalmente illegittima, sarebbe opportuno che eventuali questioni di bilanciamento fossero risolte a monte dal legislatore, secondo un disegno organico e sistematico, ai fini di un effettivo stemperamento dello scontro tra culture.

Nel documento Diritti multiculturali in cammino (pagine 148-156)