L’evolversi dello Stato multiculturale europeo
6. I modelli storici di integrazione culturale in Europa
6.5. La crisi dei modelli storici di integrazione
A prescindere dall’approccio prescelto, si può ritenere che, alla prova dei fatti, tutti i modelli descritti alle sezioni precedenti abbiano condotto a esiti problematici. Essi non sono stati in grado di fornire una risposta convincente alle spinte disgreganti che caratterizzano lo “scontro tra culture” nella società multiculturale, e ciò è divenuto evidente in particolare negli ultimi anni, con le ondate di attentati che hanno colpito indistintamente Francia, Germania e Regno Unito246. La crisi dei modelli storici appare
ancor più preoccupante se si considera che, nella quasi totalità dei casi, detti attentati sono stati compiuti da cittadini di seconda o addirittura di terza generazione. Si tratta quindi di individui che sono stati esposti ai rispettivi modelli di integrazione, che ne rappresentano in qualche modo il “prodotto finito”. Anche a prescindere dai fatti di sangue di cui si è detto, appare estremamente preoccupante il fatto che autorevoli studi in materia evidenzino come, in tutta Europa, il gap culturale tra maggioranza e minoranze aumenti anziché diminuire, e proprio le seconde e terze generazioni delle minoranze appaiano essersi allontanate, e non avvicinate, rispetto alle prime, con riferimento a cinque macro- aree tematiche individuate in: valori liberali; Stato di diritto; legittimità dell’uso della violenza nel confronto politico; ruolo della religione nella sfera pubblica; morale sessuale247.
E così non si può certo ritenere che l’assimilazionismo francese abbia “francesizzato” le minoranze nei valori della République, o che il separatismo inglese abbia garantito la convivenza pacifica e il reciproco rispetto, o che l’intricato sistema federale di obblighi e doveri tedesco sia stato rispettato. Peraltro, trattasi di un malfunzionamento dei modelli
245 Sui diritti linguistici nei Paesi Bassi si vedano F. KUIKEN, E. H. VAN DER LINDEN, Language policy and language education in the Netherlands and Romania, in Dutch journal of applied linguistics, vol. 2, n.
2, 2013, 205 ss.
246 Basti pensare agli attacchi a Charlie Hebdo (2015), Saint-Quentin-Fallavier (2015), Bataclan (2015),
Nizza (2016), Carcassonne (2018), per quanto riguarda la Francia, agli attacchi a Woolwich (2013), Westminster (2017), Manchester (2017), Londra (2017), per quanto riguarda il Regno Unito, agli attacchi a Essen (2016), Berlino (2016), Amburgo (2017), per quanto riguarda la Germania.
247 Si veda sul punto L. ORGAD, The cultural defense on Nations. A liberal theory of majority rights, cit.,
in esame che era forse intuibile ancor prima che le loro falle strutturali culminassero con gli attacchi degli ultimi anni, e basti pensare alle cicliche rivolte che ormai da decadi interessano le banlieues francesi, o all’elevatissimo numero di giovani inglesi che hanno lasciato il proprio Paese per arruolarsi nelle file dello Stato islamico. Tutti i modelli europei di gestione del multiculturalismo, pertanto, hanno evidenziato criticità strutturali, nella misura in cui essi non sono riusciti a garantire la coesione sociale e la tenuta dell’ordinamento costituzionale, con riferimento soprattutto all’attuazione dei principi fondamentali e alla tutela dei diritti fondamentali.
Un’eccezione è rappresentata, nel mondo occidentale, dal modello canadese che, anche con riferimento a precisi indicatori sociologici, sembra aver ottenuto risultati estremamente positivi in termini di inclusione e di prevenzione della radicalizzazione e della divisione sociale248. Non bisogna tuttavia dimenticare che il modello canadese
potrebbe verosimilmente rappresentare un outlier statistico, nella misura in cui le condizioni geografiche e politiche che hanno contribuito alla sua genesi sono di difficile (se non impossibile) riproducibilità, specie in Europa. Sotto l’aspetto geografico, infatti, il Canada risulta isolato, confinando a sud con gli Stati Uniti (non certo un Paese di emigrazione), a nord con l’Artide, e a Est e a Ovest con gli oceani Atlantico e Pacifico: ciò permette di operare una stringente selezione dei flussi migratori, consentendo l’accesso soltanto a immigrati altamente qualificati. In altre parole, il modello canadese non funzionerebbe in virtù della costituzionalizzazione di una versione particolarmente efficace del multiculturalismo, bensì perché gli stranieri altamente qualificati, di norma bene istruiti, che esso accoglie (rectius, sceglie) sarebbero naturalmente più propensi all’integrazione rispetto ai migranti economici che, complice l’assetto geografico sfavorevole, affluiscono sostanzialmente “senza filtro” negli ordinamenti europei.
248 Un commento approfondito alle statistiche relative ai risultati del modello canadese è opera di W.
KYMLICKA, The current state of multiculturalism in Canada, Canada, Minister of Public Works and Government Services, 2010. I dati indicano, in particolare, che nel 2012 il 59% dei canadesi rifiutava l’affermazione per cui i livelli di immigrazione sarebbero troppo alti, l’83% riteneva gli immigrati una risorsa per l’economia, il 72% rifiutava l’affermazione per cui gli immigrati toglierebbero lavoro ai canadesi. Il multiculturalismo risulta essere la terza ragione più citata (7%) su cui i canadesi basano il proprio orgoglio nazionale. Nel 2002 l’83% dei canadesi riteneva che gli appartenenti alle minoranze etniche o culturali arricchiscano la cultura canadese, e nel 2006 l’83% riteneva che i musulmani rappresentino un contributo positivo per il Canada. Sotto il profilo dell’integrazione delle minoranze, nel 2001 i membri del Parlamento a non essere nati in Canada erano il 13% (contro il 2% degli Stati Uniti o le percentuali ancora inferiori degli Stati europei), e gli studi hanno evidenziato come i musulmani in Canada siano molto più propensi a manifestare un senso di appartenenza allo Stato ospitante rispetto a quanto accade in ogni altro Stato occidentale.
Non sembra invece potersi condividere la tesi per cui uno dei fattori di successo del modello canadese sarebbe una minore presenza di minoranze di fede islamica249, atteso
che la percentuale di musulmani in Canada (3,2%) non appare considerevolmente più bassa di quella inglese (4,8%) e tedesca (4,4%)250, e che le statistiche mostrano
effettivamente un maggiore livello di integrazione (e di accettazione da parte della maggioranza) delle minoranze musulmane in Canada rispetto a quanto avviene in Europa251.
Il quadro appena delineato ha portato, in tempi recenti, autorevole dottrina ad adombrare una crisi del multiculturalismo, affermando che le politiche multiculturali avrebbero in ultima analisi ottenuto il risultato opposto a quello auspicato, inasprendo il cosiddetto “scontro tra culture” e portando a una vera e propria ghettizzazione delle culture minoritarie252. La critica è comprensibile, se si considera che, all’apparenza, ogni
modello, per quanto diverso (e finanche specularmente opposto) possa essere l’approccio, sembra portare ai medesimi insoddisfacenti risultati. I termini multiculturalismo e segregazionismo vengono pertanto utilizzati da alcuni autori in modo fungibile, evidenziando come il multiculturalismo abbia ipotizzato un modello di società ideale che in realtà non esiste, nella quale le diverse culture, separate, convivono pacificamente senza “disturbarsi” a vicenda253. Secondo la critica in esame il risultato delle politiche
multiculturali sarebbe stato quello di creare una società frammentata e profondamente divisa, sacrificando i diritti individuali sull’altare di una pace sociale e di una società cosmopolita che nella realtà stentano ad inverarsi254.
Alla tesi in esame si potrebbe replicare che a fallire, a entrare in crisi, non è stata tanto l’idea di multiculturalismo, quanto l’applicazione che in concreto di essa è stata data in alcuni ordinamenti europei che, concentrandosi sugli aspetti separatisti e di accomodamento delle istanze minoritarie, hanno trascurato di attuare in parallelo politiche inclusive che rafforzassero la coesione sociale e valorizzassero la componente
249 Si veda in questo senso G. CERRINA FERONI, Diritto costituzionale e società multiculturale, cit., 4. 250 Secondo i dati del 2011 della ricerca The Future of the Global Muslim Population realizzata dal Pew
Research Center.
251 Si veda, per tutti, lo studio condotto da M. ADAMS, Unlikely utopia: the surprising triumph of Canadian pluralism, Toronto, Viking, 2007.
252 Si veda in questo senso G. CERRINA FERONI, Diritto costituzionale e società multiculturale, cit., 6. 253 Si veda ad esempio E. GROSSO, L’integrazione alla francese: tra assimilazione e differenza, cit. 254 Si veda G. CERRINA FERONI, L’esperienza tedesca di multiculturalismo: società multietnica e aspirazioni di identità etnoculturale, cit., 19 ss.
solidarista che il multiculturalismo indubbiamente prevede. In questo senso, i termini multiculturalismo e segregazionismo possono forse essere utilizzati intercambiabilmente per descrivere il modello di integrazione inglese, ma non sembra che detto modello abbia mai rappresentato, in effetti, la migliore attuazione dei principi che fondano le teorie multiculturali, al punto che si potrebbe persino dubitare che esso rappresenti un modello multiculturale (rectius, multiculturalista) tout court. Il modello inglese ha infatti dato vita a un sostanziale “partizionamento culturale”, così come il modello olandese, che ha addirittura suddiviso verticalmente la società sulla base dell’appartenenza culturale255. In
entrambi i casi il risultato è stato infatti un elevato livello di disgregazione sociale, con le nuove minoranze che si trovano chiuse in vere e proprie città nelle città, emarginate sotto il profilo sociale, economico, politico e culturale.
I modelli di questo tipo sono stati efficacemente definiti come fautori di un “multiculturalismo irenico”, fondato su di una visione idealizzata della società che sottovaluta in primo luogo la conflittualità intrinseca alla democrazia pluralista (riconoscendo le diverse culture ma rinunciando a governare le possibili frizioni tra le stesse), in secondo luogo la necessità di porre limitazioni ai diritti culturali (e dunque la necessità che, in uno Stato democratico, ai diritti si affianchino dei doveri), e infine la portata solidarista del costituzionalismo democratico, per cui i conflitti culturali non possono essere ridotti a questioni afferenti alla sola libertà individuale (secondo l’idea per cui ci si potrebbe limitare a un semplice riconoscimento delle diverse culture), ma devono essere calati in un più complesso schema di analisi che si intrecci con l’intera trama dei principi fondamentali, e con il tema della partecipazione delle minoranze culturali alla progettualità sottesa a ogni ordinamento costituzionale256.
E del resto la risposta opposta, quella assimilazionista, non sembra certo aver dato risultati migliori, nonostante in dottrina si sia sostenuto che a fallire non sarebbe stato l’assimilazionismo in senso lato, ma soltanto la sua applicazione concreta in Francia nelle ultime decadi257. Nel cortocircuito del modello francese sembra essersi innescata quella
255 Il fallimento del modello olandese è riconosciuto anche dai più noti sostenitori del multiculturalismo,
ma è sovente imputato a una peculiarità dell’ordinamento in esame, che avrebbe portato a una distorsione perversa degli esiti delle politiche multiculturali. Si veda in questo senso, ad esempio, W. KYMLICKA,
Multiculturalism: success, failure, and the future, Washington DC, Migration Policy Institute, 2012. 256 Si veda in questo senso G. AZZARITI, Multiculturalismo e Costituzione, cit., 5 ss.
257 Si veda G. CERRINA FERONI, Ragionando di strategie di integrazione multiculturale per l’Italia… senza retorica, in Democrazia e sicurezza, n. 4, 2015, 9.
che è stata definita “inflazione identitaria”: la minaccia e finanche la proibizione dell’identità culturale minoritaria da parte della maggioranza (come ad esempio nel caso dei simboli religiosi) ingenera un meccanismo per cui i membri delle minoranze (e soprattutto le seconde e terze generazioni), vedendosi sradicati, privati di ciò che un tempo li definiva, nella ricerca di un’identità finiscono per riesumare, potenziandole, pratiche, tradizioni, lingue e religioni che in parte stavano venendo spontaneamente abbandonate258. Il sospetto, che pare fondato, è insomma che i modelli assimilazionisti
finiscano per ottenere il risultato opposto a quello auspicato, radicalizzando le minoranze e spingendole proprio verso quelle pratiche, ritenute inaccettabili, che si volevano vietare. Ciò che è stato fatto in Francia è, in fondo, combattere i fondamentalismi (reali o immaginati) delle nuove minoranze contrapponendo ad essi un diverso fondamentalismo: la “religione repubblicana”259 che rifiuta dogmaticamente di mettere in discussione valori
percepiti come assoluti e irrinunciabili260. Si dimentica quindi che una democrazia
pluralista, ispirata ai principi fondamentali del costituzionalismo europeo, è allergica ai fondamentalismi della maggioranza tanto quanto (e forse persino di più, in virtù della particolare tutela che essa riconosce alle posizioni svantaggiate) a quelli delle minoranze. Si è parlato in questo senso di “teologia liberale”, con ciò intendendo la convinzione liberale che tutti gli esseri umani vogliano (o, meglio, dovrebbero) vivere secondo una filosofia liberale261, o finanche di “colonialismo culturale”, con ciò descrivendo
l’applicazione interna all’ordinamento costituzionale di quelle logiche di dominio e di potere che hanno ispirato il rapporto delle culture “occidentali” con il “diverso” sul piano esterno (internazionale)262. Si consideri inoltre che i modelli assimilazionisti potrebbero,
a ben vedere, divenire (e forse lo sono già divenuti) a breve impraticabili sotto il profilo strutturale, atteso che la capacità di assimilazione non è infinita, essendo ragionevole ipotizzare che una società possa raggiungere un livello di “saturazione multiculturale”,
258 Si veda in questo senso C. PINELLI, Società multiculturale e Stato costituzionale, cit., 12 ss.
259 In questo senso: E. GROSSO, L’integrazione alla francese: tra assimilazione e differenza, cit., 83 ss.;
G. CERRINA FERONI, Diritto costituzionale e società multiculturale, cit., 16.
260 Si è in questo senso evidenziato che il modello francese, a seguito dei recenti attacchi terroristici e delle
misure securitarie proposte (in materia di stato di emergenza e perdita della cittadinanza), ha “smarrito la sua identità”, fondata su di una “proposta di uno spirito repubblicano laico, capace di integrare ogni particolarismo nelle forme di una Costituzione che assicuri la separazione dei poteri e la tutela dei diritti”. Si veda M. CAVINO, Sécurité, égalité, fraternité. La fragilità costituzionale della Francia. (osservazioni
a un mese dagli attentati di Parigi), in Consulta online, n. 3, 2015, 834.
261 Si veda P. HAMBURGER, Illiberal liberalism: liberal theology, anti-Catholicism and church property,
in Journal of contemporary legal issues, vol. 12, n. 2, 2002.
ossia un punto di rottura oltre il quale la diversità è tale per cui diviene oggettivamente impossibile la “riduzione ad uno” delle culture (e basti pensare che, in sempre più città europee, gli appartenenti alla maggioranza culturale, pur rappresentando il gruppo più numeroso, sono ormai maggioranza soltanto relativa, essendo numericamente inferiori alla somma degli appartenenti alle diverse nuove minoranze).
Anche la “via di mezzo” tedesca è apparsa priva della capacità di darsi un modello coerente, indebolita dagli strappi dei singoli Länder che, forti di ampie competenze in materia, si sono discostati dalla dottrina del promuovere e pretendere, dandone interpretazioni restrittive e tendenti verso un modello assimilazionista.
A ben vedere, si potrebbe affermare che tutti i modelli in esame hanno fallito nella misura in cui essi hanno tradito il fondamentale principio pluralista, e in particolare hanno operato un “bilanciamento sbilanciato” (o meglio, sono pervenuti a un risultato irragionevole del bilanciamento) tra le esigenze di tutela dei principi e dei diritti fondamentali dell’ordinamento e il necessario riconoscimento dei diritti culturali delle nuove minoranze. Si è detto in questo senso che, con riferimento ai rapporti con i diritti degli altri, con le nuove culture, da un lato il modello francese si è fondato su di una modalità di confronto “escludente”, e dall’altro il modello inglese si è fondato su di una modalità di confronto “arresa”263.
Il modello inglese ha pertanto messo in atto politiche multiculturali portatrici di un “bilanciamento sbilanciato” in favore dei diritti culturali delle nuove minoranze, sacrificando, a tratti in modo eccessivo, principi e diritti fondamentali dell’ordinamento ospitante, e consentendo che si addivenisse non già alla composizione degli interessi contrapposti nella società multiculturale, ma alla scomposizione della società stessa in una pluralità di ordinamenti paralleli, ciascuno retto da scale di valori e principi proprie. Il modello in esame, pertanto, più che bilanciare i diritti culturali alla luce delle nuove istanze multiculturali, ha preferito abdicare detto bilanciamento. Esso risulta avere tradito il principio pluralista nella misura in cui ne ha esaltato la dimensione conflittuale, trascurando di creare le condizioni per cui il pluralismo possa espandere appieno la propria dimensione coesiva e solidale, attraverso i momenti di necessaria sintesi che esso postula in uno Stato democratico.
Il modello francese, invece, ha messo in atto politiche portatrici di un “bilanciamento sbilanciato” in favore dei principi e dei diritti (ma, soprattutto, dei valori) dell’ordinamento ospitante, operando una compressione estrema dei diritti culturali, che ha portato, in certi casi, addirittura alla loro totale negazione (è questo il caso emblematico della dimensione esteriore del diritto alla libertà religiosa). Esso ha tradito il principio pluralista nella misura in cui ne ha esaltato la sola portata unificante, pretendendo di azzerare le differenze culturali che però da quest’ultimo sono imposte e, anzi, prescritte. Il modello tedesco sembra infine avere tradito il principio pluralista nella misura in cui esso, con le proprie politiche multiculturali, ha assunto quale paradigma, quale parametro dell’integrazione e della coesione sociale, la cultura tedesca (intesa come la cultura maggioritaria nell’ordinamento tedesco), ricavando da essa il sistema di doveri e obblighi delle minoranze: ciò postula implicitamente una declaratoria di “superiorità” della cultura ospitante rispetto alle culture minoritarie, e dunque una larvata gerarchizzazione delle culture, che porta alla tutela dei diritti culturali della maggioranza, con una compressione eccessiva dei diritti culturali delle minoranze. In un ordinamento fondato sui principi pluralista, personalista e di eguaglianza e non discriminazione, tuttavia, il parametro dell’integrazione non dovrebbe essere né una Leitkultur della maggioranza né la cultura delle minoranze, bensì la diversa cultura (anzi, le diverse culture) che derivano dal dialogo, dall’incontro e dalla contaminazione tra culture maggioritaria e minoritarie. È stato inoltre osservato che, al contrario di quanto avvenuto in Canada, ove il multiculturalismo è divenuto a tutti gli effetti parte dell’identità nazionale, al punto da poter essere ricondotto ai valori fondanti dell’ordinamento, in nessuno degli Stati europei si è assistito ad un simile processo, e il multiculturalismo è stato anzi ritenuto alla stregua di una prerogativa delle sole minoranze, rispetto al quale la maggioranza si pone come estranea264. Bisogna quindi chiedersi se la costituzionalizzazione del multiculturalismo
nell’ordinamento canadese abbia giocato un suo ruolo nell’adesione allo stesso da parte della società, e dunque se il fatto che il valore multiculturale sia stato tradotto in un principio fondamentale possa costituire la chiave di lettura del successo del modello. Sembrerebbe preferibile la risposta negativa, se si accettano le considerazioni di cui in premessa, e dunque il fatto che il multiculturalismo, a prescindere da una sua
costituzionalizzazione espressa, discenda naturalmente dai principi fondamentali del costituzionalismo occidentale.
In ogni caso, e indipendentemente dalla fondatezza delle critiche circa il supposto fallimento del multiculturalismo, il dato di fatto oggettivo è che in tutto il cosiddetto “mondo occidentale” hanno ripreso vigore nel dibattito politico e sociale, oltre che costituzionalistico, concetti quali nazione, cittadinanza omogenea, identità, valori comuni, fino a giungere a un’esplicita invocazione del ritorno all’assimilazione, se del caso anche coatta265. La tesi che si è lentamente fatta strada, specie in Europa, è quella
per cui le nuove tensioni culturali che attraversavano (e ancora attraversano) il continente, additate come la causa dei sopraccitati drammatici atti terroristici, giustifichino una revisione dell’approccio alle questioni multiculturali, con un bilanciamento più stringente volto a imporre una maggiore compressione ai diritti culturali delle nuove minoranze in favore di una più robusta tutela dei principi fondamentali e dei valori ritenuti identificanti per l’ordinamento.
7. Dalla difesa dell’identità culturale dell’individuo alla difesa dell’identità culturale