L’evolversi dello Stato multiculturale europeo
1. Origini del multiculturalismo Nel costituzionalismo moderno
1.2.1. La prima fase del dibattito
In una prima fase il dibattito si è concentrato sulla necessità di riconoscere particolari forme di tutela alle minoranze culturali, come strumento per rimediare alle diseguaglianze
21 Ivi. “The government will support and encourage the various cultures and ethnic groups that give structure and vitality to our society. They will be encouraged to share their cultural expression and values with other Canadians and so contribute to a richer life for us all”.
22 Secondo la definizione elaborata da A. FERRARA, Multiculturalismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G.
Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Torino, UTET, 2004, 671 ss.
23 Si veda C. TAYLOR, Multiculturalism and the politics of recognition, cit., 64.
24 Secondo la distinzione operata da W. KYMLICKA, Comments on Shachar and Spinner-Halev: an update from the multiculturalism wars, in C. Joppke, S. Lukes (a cura di), Multicultural questions, Oxford,
scaturenti dal trattamento deteriore ad esse riservato negli ordinamenti del cosiddetto “Occidente”. Il dibattito, in questo stadio, si ricollega pertanto a quello sui diritti collettivi (cfr. cap. II, 2.), e dunque sull’opportunità di riconoscere categorie di diritti differenziate a seconda dell’appartenenza a un dato gruppo sociale (minoritario), tesi alla quale l’impostazione universalistica classica contrappone l’asserita perdurante adeguatezza del catalogo dei diritti individuali di ispirazione liberale e la necessaria neutralità dello Stato rispetto ai diversi gruppi che lo compongono.
Secondo il pensiero di Charles Taylor, considerato il precursore (oltre che uno dei maggiori protagonisti) del dibattito filosofico e giuridico sul multiculturalismo, una società democratica e multiculturale non può prescindere dalle cosiddette “politiche del riconoscimento”. Trattasi di politiche volte a garantire una corretta rappresentazione delle identità da parte dello Stato, così rimediando a una diseguaglianza sostanziale tra diversi gruppi: in virtù di detta diseguaglianza verrebbe infatti a crearsi una cittadinanza diseguale, nell’ambito della quale gli appartenenti ai gruppi culturali minoritari non fedelmente rappresentati godrebbero, in ultima analisi, di minori livelli di tutela dei diritti rispetto agli appartenenti alla maggioranza25. L’impianto multiculturale di Taylor si fonda
sull’idea per cui, ai fini di riconoscere piena dignità a un individuo, non sarebbe sufficiente il riconoscimento dello stesso, in senso kantiano, in quanto essere umano, ma sarebbe altresì indispensabile il riconoscimento della sua identità culturale, di ciò che differenzia quello specifico essere umano dagli altri suoi pari.
La teoria di Taylor affonda pertanto le proprie radici in quelle teorie dei diritti, sviluppatesi a partire dalla seconda metà del XX secolo, che hanno rilevato come la pretesa universalità dei diritti umani rappresenterebbe, a ben vedere, un miraggio, in quanto si tratterebbe meramente di una universalizzazione dei diritti così come essi sono intesi nel mondo occidentale. Secondo un approccio culturalmente relativista non sarebbe quindi possibile affermare dei diritti realmente universali, nella misura in cui sono riscontrabili, nelle diverse culture, differenze apprezzabili anche con riferimento all’interpretazione di concetti fondamentali e assiologici quali libertà, bene e male, giusto e sbagliato26. In altre parole, l’universalismo dei diritti propugnato dal costituzionalismo
25 Si veda C. TAYLOR, Multiculturalism and the politics of recognition, cit., 37 ss., che addirittura
denuncia una distinzione tra “first-class citizens” e “second-class citizens”.
26 Celebre è la critica alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo formulata dalla American Anthropological Association, che ha affermato, tra le altre cose, che “l’uomo è veramente libero solo
occidentale in realtà non sarebbe altro che particolarismo camuffato da universalismo, la pretesa di imporre diritti tipici di una specifica tradizione giuridica a tradizioni culturali e giuridiche terze27.
Secondo Taylor la concezione liberale classica dello Stato non sarebbe pertanto in grado di accomodare efficacemente le differenze culturali: lo Stato non deve essere più soltanto spettatore neutrale nella determinazione del bene comune, ma deve farsi protagonista della promozione della diversità culturale, poiché è solo nell’ambito del proprio gruppo culturale che l’individuo può pienamente sviluppare la propria identità28. A conferma
dello stretto legame tra il multiculturalismo delle origini e la questione delle minoranze “interne”, Taylor ritiene che il multiculturalismo debba necessariamente avere delle ricadute con riferimento alla forma di Stato, in quanto l’accomodamento delle diversità culturali implica un forte decentramento che possa favorire l’autonomia delle diverse comunità29. La teoria di Taylor presenta quindi dei marcati tratti comunitaristi, nella
misura in cui essa postula la garanzia della sopravvivenza di determinate culture quale valore e fine che lo Stato deve necessariamente perseguire: ciò finisce inevitabilmente per tradursi nella possibilità, in alcuni casi, di una primazia del gruppo rispetto all’individuo, con quest’ultimo che può incorrere in limitazioni della propria libertà, nella misura in cui dette limitazioni risultino strumentali rispetto a una preservazione dell’identità culturale collettiva30.
La teoria di Taylor è stata sin da subito sottoposta a critica da parte della dottrina liberale, e in particolare nell’ambito del celebre dibattito con Habermas, che ha contestato il modello in esame, soprattutto nella misura in cui esso sostiene un’insufficienza delle teorie liberali classiche, fondate sull’individuo, nel fornire una risposta efficace alle
egli riconosce come membro della sua società”. Si veda EXECUTIVE BOARD OF THE AMERICAN ANTHROPOLOGICAL ASSOCIATION, Statement on human rights, in American anthropologist, vol. 49, n. 4, 1947, 539 ss. Per una ricostruzione del dibattito sul tema si veda J. DONNELLY, The relative
universality of human rights, in Human rights quarterly, vol. 29, n. 2, 2007, 281 ss. Si veda inoltre P.
PAROLARI, Prospettive transculturali e percorsi interculturali, in T. Mazzarese (a cura di), Diritto,
tradizioni, traduzioni, cit., 227 ss.
27 Si veda sul tema C. JOPPKE, Is multiculturalism dead?, Cambridge, Polity, 2017, 10. 28 Si veda C. TAYLOR, Multiculturalism and the politics of recognition, cit., 60 ss.
29 Ibidem. La decisa preferenza di Taylor è, quantomeno con riferimento all’ordinamento canadese, per uno
Stato di tipo federale. Egli è tuttavia consapevole del fatto che detto modello di “federalismo culturale” potrebbe non essere automaticamente trasponibile in altri ordinamenti.
30 Ivi, 55 ss., ove Taylor menziona la “importance of cultural survival”, difendendo il Bill 101 del 1977,
che ha reso il francese la lingua ufficiale del Quebec (a scapito degli anglofoni, maggioritari nel Paese). Ciò non deve del resto stupire, se si considera che il multiculturalismo nasce in Canada, come si è detto, ai fini di ricomporre le tensioni centrifughe e disgreganti che storicamente attraversavano quell’ordinamento.
domande di riconoscimento provenienti dalle diverse culture che chiedono di essere equiparate a quella dominante 31 . È peraltro importante sottolineare come, già
nell’impostazione di Taylor, sia in effetti postulato un limite alla tutela dell’identità culturale, che non può essere assoluta: detto limite viene individuato nel rispetto dei diritti fondamentali della persona. Taylor menziona espressamente il diritto alla vita, alla libertà di espressione, alla libertà religiosa e a un giusto processo32. In questo senso la divergenza
rispetto all’impostazione liberale sembra quindi attenuarsi, se si considera che una delle principali critiche mosse al multiculturalismo come teoria comunitarista è che il riconoscimento di diritti differenziati porterebbe alla violazione del fondamentale principio di eguaglianza e dell’universalismo dei diritti umani (cfr. cap. II, 2.). La stessa critica di Habermas sembrava, in effetti, vertere principalmente sulla questione dei diritti collettivi, sull’assunto che la tutela delle collettività non deve mai costituire una limitazione ai diritti fondamentali individuali33. In questo senso postulare i diritti
fondamentali della persona come limite, seppur ultimo e non assoluto, alla promozione della diversità culturale sembra, in effetti, stemperare notevolmente i termini del dibattito. In ogni caso, è indubbio che in questa prima fase il dibattito sul multiculturalismo fosse ancora in gran parte legato alla supposta dicotomia tra impostazioni liberali e impostazioni comunitariste, con il multiculturalismo che si collocava tendenzialmente nell’ambito delle seconde, ed era al contrario duramente criticato dai sostenitori delle prime. In particolare, alcune tra le teorie del multiculturalismo più radicali, all’inizio degli anni ’90, come ad esempio quella di Iris Marion Young, operavano una lettura dello stesso quale risposta dei gruppi minoritari all’oppressione operata dalla maggioranza (bianca e patriarcale) che, tramite i concetti di universalità dei diritti e di cittadinanza universale avrebbe messo in atto un vero e proprio “imperialismo culturale”34. Beneficiarie delle
politiche multiculturali in quest’ottica non sono più solo le minoranze storiche, bensì qualsiasi gruppo oggetto di oppressione.
31 Si veda in proposito il celebre dibattito con J. HABERMAS, Kampf um Anerkennung im demokratischen Rechtsstaat, cit.
32 Si veda C. TAYLOR, Multiculturalism and the politics of recognition, cit., 60 ss.
33 Si veda J. HABERMAS, Kampf um Anerkennung im demokratischen Rechtsstaat, cit., 82 ss.
34 Si veda I. M. YOUNG, Justice and the politics of difference, Princeton, Princeton University Press, 1990.
La teoria di Young attinge peraltro in modo significativo dalle teorie femministe e comunitariste dell’epoca, arrivando per certi versi a postulare un multiculturalismo fondato, paradossalmente, non già sulla cultura, bensì sulla razza (o sul genere) quale elemento distintivo delle minoranze, al punto che è dubbio se si possa parlare effettivamente di teorie multiculturali, almeno nel senso che il termine ha assunto negli anni immediatamente successivi.
Il riavvicinamento tra multiculturalismo e filosofia liberale è da attribuirsi, in modo prevalente, all’opera del filosofo canadese Will Kymlicka che con la sua teoria del multiculturalismo liberale riporta al centro dell’analisi l’individuo, escludendo che esso possa mai essere posto in una posizione di subordinazione rispetto al gruppo. La tutela della cultura delle minoranze passa quindi necessariamente attraverso la tutela della cultura dei singoli individui che le compongono, e in particolare attraverso la tutela della loro sfera di libertà soggettiva. Kymlicka ritiene, pertanto, che il multiculturalismo, inteso come protezione e promozione della diversità culturale e delle minoranze culturali, sia addirittura condizione necessaria per uno Stato realmente democratico e liberale, come conseguenza obbligata dell’adesione al principio di eguaglianza. La libertà di scelta dell’individuo in un contesto democratico è infatti garantita solo a patto che le scelte vengano compiute conformemente alla propria cultura di origine35, e questo perché la
cultura maggioritaria, per quanto il legislatore possa sforzarsi, informa inevitabilmente tutte le politiche adottate nell’ordinamento (e basti pensare, ad esempio, alla scelta dei giorni festivi o delle lingue ufficiali), e le minoranze culturali si trovano, per ciò solo, automaticamente in una posizione di svantaggio36. Il trattamento differenziato accordato
alle minoranze (e soprattutto alle minoranze nazionali) non costituisce pertanto una discriminazione nella misura in cui esso è volto a garantire l’autonomia delle comunità culturali e dell’individuo.
Il multiculturalismo e le politiche multiculturali divengono quindi uno strumento volto a conseguire una effettiva eguaglianza nell’ambito delle politiche adottate in un dato ordinamento. Il multiculturalismo liberale non prevede l’abbandono della cittadinanza universale, bensì l’introduzione di una cittadinanza multiculturale che ne divenga il naturale complemento. Nell’impostazione di Kymlicka uno Stato democratico e liberale ha un vero e proprio obbligo di facere, di adottare delle politiche multiculturali positive, in quanto la mera tutela negativa della cultura (l’astensione statuale dall’indebita ingerenza), la neutralità liberale “classica”, non è sufficiente, nella misura in cui vi sono degli ambiti di intervento statuale in cui la neutralità è semplicemente impossibile (si pensi, ancora una volta, alla lingua ufficiale o alle feste nazionali, per cui lo Stato semplicemente non può rimanere neutrale, poiché ciò vorrebbe dire astenersi dallo
35 Si veda W. KYMLICKA, Multicultural citizenship: a liberal theory of minority rights, cit., 80 ss. 36 Ivi, 108 ss.
scegliere una o più lingue attraverso cui comunicare con gli individui, ovvero dal determinare le festività secondo un qualsivoglia criterio)37.
Kymlicka applica poi, per la prima volta, il ragionamento svolto con riferimento alle minoranze nazionali o indigene alle cosiddette “nuove minoranze”, che egli chiama “gruppi polietnici”. Kymlicka non ritiene ingiustificato un trattamento differenziato delle nuove minoranze (ad esempio, solo le minoranze etniche o indigene avrebbero il diritto a proprie istituzioni o a una propria lingua ufficiale), ma ritiene che detto trattamento differenziato non possa spingersi fino a negare qualsiasi forma di tutela alla cultura di minoranze culturali comunque esistenti e radicate nell’ordinamento 38 . Accanto
all’estensione delle politiche multiculturali alle nuove minoranze, Kymlicka postula altresì l’esclusione dall’ambito di applicazione di dette politiche dei gruppi che manchino di una loro finitezza e di una trasferibilità intergenerazionale dei propri tratti culturali distintivi, come ad esempio le minoranze omosessuali, i disabili o le donne39.
La teoria del multiculturalismo liberale di Kymlicka è stata nondimeno oggetto di numerose critiche, soprattutto da parte della dottrina di matrice universalista, fautrice di un liberalismo strettamente negativo. E così, Brian Barry ha argomentato che il riconoscimento delle differenze tramite politiche multiculturali sarebbe criticabile perché esso viola il principio di neutralità dello Stato, mentre lo Stato dovrebbe essere neutrale rispetto all’individuazione del bene comune e all’applicazione dei diritti universali: le pratiche culturali possono ritenersi già compiutamente tutelate laddove esse rappresentino l’esercizio di un diritto fondamentale e universale, mentre in caso contrario devono essere ritenute illegittime e pertanto non necessitano di alcuna tutela40. Il riconoscimento di
particolari diritti alle minoranze sfocerebbe nella relativizzazione dei principi universali che fondano lo Stato, rispondendo a logiche di eguaglianza dei risultati concretamente impraticabili, dovendo uno Stato democratico e liberale perseguire invece l’eguaglianza delle opportunità41.
37 Ivi, 110 ss.
38 Ivi, 163 ss. Si veda inoltre W. KYMLICKA, R. RUBIO MARÌN, Liberalism and minority rights. An interview, in Ratio juris, vol. 12, n. 2, 1999, 145 ss.
39 Si veda W. KYMLICKA, Multicultural citizenship: a liberal theory of minority rights, cit., 18 ss. 40 Si veda B. BARRY, Culture and equality: an egalitarian critique of multiculturalism, Cambridge, Polity
Press, 2001, 12 ss.
La teoria del multiculturalismo è stata inoltre criticata da quelle impostazioni liberali che postulano una versione minima dello Stato. Ne è un esempio la critica di Chandran Kukathas, per cui lo Stato dovrebbe interessarsi unicamente di garantire agli individui il diritto ad uscire da un gruppo laddove essi lo desiderino, dovendosi per il resto disinteressare delle questioni culturali e delle regole interne che i singoli gruppi decidono di darsi42.
Nonostante le critiche appena menzionate, il concetto di multiculturalismo ha goduto di una popolarità sempre crescente a cavallo tra anni ’90 e la prima decade del XXI secolo, espandendosi oltre i confini del continente nordamericano. In Europa, Tariq Modood ha definitivamente ampliato la portata del termine, ricomprendendovi senza esitazioni le minoranze composte dai migranti, e in particolare proponendo l’approccio multiculturale come soluzione a uno dei problemi più pressanti negli ordinamenti europei: la gestione delle questioni relative alle minoranze di fede islamica43. Modood teorizza un
multiculturalismo liberale fondato da un lato su una garanzia forte dei diritti fondamentali dell’individuo, e dall’altro sulla presa d’atto del fatto che la tutela dell’individuo non può portare a negare l’oggettiva esistenza di gruppi culturalmente differenziati: compito del legislatore sarà quindi riconoscere detti gruppi e promuovere il rispetto e la convivenza tra gli stessi44.
Lo studio del multiculturalismo, in questa prima fase, viene portato alla sua massima elaborazione da Ayelet Shachar, con la teoria della transformative accommodation. Il modello disegnato da Shachar muove dalla premessa per cui ogni individuo sarebbe contraddistinto non già una singola identità, ma da identità molteplici e tra loro sovrapposte. Similmente, l’individuo appartiene a diversi gruppi sociali che ne influenzano l’identità. In quest’ottica, l’individuo è oggetto di una contesa tra Stato e gruppo culturale di appartenenza: entrambi cercano di normarne il comportamento e influenzarne l’identità45. Shachar ritiene che nelle materie “contese”, in cui vi è una
sovrapposizione tra la pretesa dello Stato e quella del gruppo culturale, quest’ultimo
42 Trattasi del cosiddetto “diritto di exit”. Si veda C. KUKATHAS, The liberal archipelago: a theory of diversity and freedom, Oxford, Oxford University Press, 2003, 97 ss.
43 Si veda T. MODOOD, Multiculturalism, Cambridge, Polity Press, 2007, 58 ss. 44 Ibidem.
45 Si veda A. SHACHAR, Multicultural jurisdictions: cultural differences and women’s rights, Cambridge,
debba essere necessariamente coinvolto, giungendo alla conseguenza estrema per cui detto coinvolgimento dovrebbe investire finanche pretese normative e giudiziarie46.