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I costruttori abus

Nel documento Diritto alla casa e forme dell'abitare (pagine 73-81)

N. medio per anno dei contribut

4.4 I costruttori abus

La realtà romana si è dimostrata particolarmente favorevole allo sviluppo dell’abusivismo residenziale. Fino al secondo dopoguerra, la struttura industriale della capitale, era fondata quasi esclusivamente sul settore edilizio. La manodopera richiesta doveva essere particolarmente flessibile, perché doveva rispondere alle esigenze di mercato, quindi servivano lavoratori che potessero essere assunti e poi licenziati velocemente, ai quali non venivano offerte garanzie lavorative, come contratti o tutele in materia di sicurezza sul lavoro. La manodopera fornita dagli immigrati sembrava la più adatta per rispondere a questa esigenza e grazie alle leggi fasciste sull’urbanesimo, in vigore fino agli anni Sessanta, questa tipologia di lavoratori era esclusa dal poter prendere la residenza e quindi dal fare richiesta per gli alloggi popolari. Per questa fascia di popolazione l’unica soluzione era l’auto-costruzione. I lavoratori, anche immigrati, delle zone del Nord Italia erano invece più favoriti, perché vivevano in una situazione di maggiore stabilità e regolarità, permettendo così la costruzione di quartieri destinati agli operai, creati degli stessi costruttori delle imprese che avevano tutti gli interessi affinché i propri addetti avessero un’abitazione propria e legale.

In alcune zone di Roma, l’autocostruzione è stata la conseguenza del protrarsi negli anni di disagi, quali: la mancanza di infrastrutture, la mancata fruizione dei servizi e la scarsa possibilità di mobilità urbana. In altri quartieri è stata la risposta ad una scarsa capacità programmatica degli enti pubblici rispetto alle modifiche che subiva la città. Di seguito viene illustrata una tabella che riassume alcuni dei fenomeni sociali che hanno dato luogo al fenomeno dell’abusivismo edilizio, in relazione all’auto-costruzione:

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Immigrazione Abusivismo per

autocostruzione

Lavoro precario

Difficoltà ad acquistare le residenza e conseguente esclusione dalle liste per l’assegnazione degli alloggi popolari (fino agli anni Sessanta) Carenza di alloggi a basso costo sul mercato

Interessi di proprietari di aree non incluse nelle direttrici di sviluppo dei Pgr

Abusivismo per lottizzazioni

illegali

Spinta ad accelerare l’intervento pubblico per opere di urbanizzazione Contrazione e crisi del mercato immobiliare

Abusivismo per costruzioni

illegali

Domanda di abitazione insoddisfatta per gli alti costi degli alloggi legali disponibili

Espulsione di imprese edili di medio-piccole dimensioni dal mercato ufficiale o dagli appalti pubblici

Fonte: Cutillo Calvosa 1989, p. 45.

Sulla base dell’analisi che è stata fin qui proposta è possibile distinguere diverse tipologie di abusivismo: a) la modalità che ha come obiettivo il profitto o la rendita, riscontrabile in particolar modo nel centro storico della capitale ad opera delle società immobiliari, che viola i vincoli di modificazione esterna ed interna degli edifici ed opera dei cambiamenti in tal senso. Si realizza mediante la modifica di appartamenti che vengono poi nuovamente immessi nel mercato a prezzi più elevati e presentati come prestigiosi e lussuosi, destinati ad una popolazione esclusiva che, per il costo dell’immobile, distingue la propria posizione sociale. A questa categoria appartengono solitamente appartamenti del centro storico e ville fuori città, lontane dal traffico urbano. b) L’abusivismo di necessità. Utilizzato da coloro che non possono accedere al libero mercato e necessitano di un’abitazione adeguata alle proprie esigenze. Solitamente questi alloggi sono situati lungo strade di comunicazione, dove pertanto non esistono i servizi. c) L’abusivismo di vantaggio. Caratterizzato da coloro che pur potendo accedere, non senza qualche difficoltà, al libero mercato degli immobili, hanno scelto di affrontare alcune privazioni, per un periodo di tempo limitato, che però in seguito li avrebbero portato ad ottenere un’abitazione più soddisfacente rispetto alle proprie aspettative.

75 4.5 La partecipazione come forma di democrazia dal basso

La letteratura che negli ultimi anni si è sviluppata attorno al termine “partecipazione” è molto vasta, il suo utilizzo primario spesso è nell’ambito del

marketing. Un primo passo verso la concezione partecipativa del patrimonio

urbanistico fu compiuto nel 1970, quando si sviluppò l’“urbanistica della partecipazione”. Essa, all’opposto della precedente urbanistica razionalista, che vedeva i cittadini come tutti uguali, si proponeva di fare riferimento ad individui specifici e concreti. Negli anni precedenti al 1970, l’edilizia, sia privata che pubblica, era composta da costruttori che si prefiggevano di soddisfare dei bisogni

standard e partivano dall’idea che la città funzionasse come l’economia, ossia su

consumatori di beni-tipo. Diversamente, dopo gli anni Settanta, la nuova concezione urbanistica, tutt’ora utilizzata nella società attuale, si prefigge di tener conto della volontà dei cittadini, in quanto li considera espressione della comunità di cui sono parte. Il primo tentativo volto a creare una classificazione del concetto di partecipazione, fu elaborato da Arnstein negli anni Sessanta (Arnsteinn 1969), ma in definitiva è stato il passaggio dagli anni Ottanta ai Novanta a farsi promotore di questa nuova concezione in campo urbanistico. In questi anni le amministrazioni pubbliche hanno attivato progetti di trasformazione sulla base di un principio giuda e non più, come in passato, sulla scia della necessità di rispondere a forme di protesta.

Il termine partecipazione ha una forte valenza simbolica: questa parola viene utilizzata dalle istituzioni che desiderano coinvolgere i cittadini in processi decisionali di pubblico interesse, con lo scopo di realizzare un modello di

democrazia dal basso. Questa volontà di “apertura” istituzionale, rispetto alle

volontà dei cittadini, crea anche forti aspettative: da un lato il soggetto promotore si dimostra innovativo e lancia un’immagine dinamica di sé, dall’altro si ritrova maggiormente esposto ai controlli di sorveglianza e di verifica rispetto alle proprie azioni (Savoldi 2006). Nella democrazia rappresentativa, le scelte vengono compiute dagli eletti dei cittadini, mentre nella democrazia partecipativa, le scelte coinvolgono, oltre che i rappresentanti politici, anche i cittadini. Il

76 coinvolgimento della popolazione permette agli individui di prendere parte al dibattito pubblico, facendoli sentire complici e responsabili sulle decisioni da prendere. Diversamente, la democrazia deliberativa si attua attraverso un processo di confronto pubblico, dove le singole preferenze individuali si trasformano in scelte condivise dalla collettività. La presenza attiva ed il coinvolgimento diretto dei cittadini, nella gestione delle questioni pubbliche, permettono agli stessi di non essere passivi e quindi vittime delle procedure, ma li trasforma in protagonisti (Rizza 2009). La logica della partecipazione risponde all’esigenza di colmare il vuoto dell’azione pubblica e rafforza anche l’efficienza del mercato. Precedentemente è stato richiamato il termine di governance per indicare tutte quelle scelte territoriali che hanno dato vita a forme di cooperazione tra pubblico e privato, attraverso il coinvolgimento diretto dei cittadini. Azioni che hanno permesso la realizzazione di politiche urbane e territoriali a partire dalle esperienze dei cittadini stessi. Tali pratiche permettono un allargamento degli spazi di democrazia, soprattutto per ciò che concerne la scelta sui cambiamenti territoriali (Tidore 2008).

Un esempio di straordinaria capacità di associazionismo e collaborazione, basato sulla crescita del sentimento di aggregazione e di aiuto alle persone appartenenti alla comunità, è il quartiere storico di Milano chiamato Ponte Lambro. Paradossalmente questo luogo è presentato dai media come prototipo di disagio sociale, perché manifesta elementi quali: l’isolamento spaziale, la composizione sociale, l’emarginazione e il totale abbandono da parte delle istituzioni. Queste caratteristiche lo mettono in una situazione di forte degrado. Le politiche di riqualificazione condotte in passato, nonostante il loro apparire efficaci, si sono rivelate fallimentari ed inadeguate a quel contesto. Ponte Lambro, dal 1976, fu occupato abusivamente da sfrattati e da famiglie senza casa. Il Comune di Milano assegnò solo un numero minimo di alloggi agli aventi diritto, così si arrivò agli anni Ottanta dove l’attività malavitosa prese il sopravvento. Le cause principali furono gli scarsi collegamenti col resto della città e la situazione economica e sociale degli abitanti. Aggiungendo il disinteresse del soggetto pubblico, si arrivò ad una situazione dove abusivismo edilizio, traffico di droga,

77 prostituzione ed estorsioni, erano pratiche quotidiane. Nel 2012, attraverso l’esperienza di un laboratorio di quartiere, promosso dall’Istituto di Ricerca Sociale e durato cinque anni, Ponte Lambro ha iniziato a richiedere servizi e strutture fino a quel momento inesistenti. Molto lavoro è ancora da compiere, ma attraverso il coinvolgimento e la partecipazione degli abitanti, gli spazi pubblici sono diventati luoghi di incontro e di scambio. La riqualificazione urbana, da sola, non crea una modifica sostanziale di un contesto territoriale, ma è il coinvolgimento degli abitanti che gioca il ruolo principale e realizza un cambiamento sociale. Il progetto realizzato a Ponte Lambro conferma la riuscita di azioni di questo tipo.

Il modello di progettazione degli spazi urbani, che include la partecipazione degli abitanti, è di matrice anglosassone e prevede una pubblica amministrazione che coinvolge i cittadini nelle decisioni rispetto alle scelte da effettuare nel suolo pubblico. Questo modello è completamente estraneo alla tradizione italiana e dell’Europa continentale, esso rovescia la giurisprudenza che ha guidato le scelte di gestione degli spazi nelle epoche passate. In Gran Bretagna, come è stato già accennato in precedenza, non sono i funzionari della pubblica amministrazione a promuovere e guidare le esperienze di progettazione partecipata, ma soggetti terzi incaricati tramite appalti. Le esperienze che guidano il modello britannico sono, come le chiamerebbe Simmel, “avventure” frutto della capacità di saper trasformare gli spazi urbani in luoghi abitabili, sono spazi capaci di venire incontro alle diverse esigenze dei loro abitanti (Simmel 1993). Questo percorso prevede che i partecipanti, dagli urbanisti agli assistenti sociali, si rendano capaci di collaborare in un clima di serenità, verso una sfida che metta in gioco il proprio savoir faire e che comprenda 3 competenze di base: a) il saper ascoltare; b) il saper interpretare gli input cognitivi delle emozioni; c) il saper gestire creativamente i conflitti (Forester 1999).

Nella progettazione urbana partecipata è importante saper creare buoni rapporti di fiducia. I partecipanti sono differenti per posizioni sociali, ruoli e responsabilità e debbono imparare a confrontarsi tra loro ascoltandosi vicendevolmente (Scalvi 2002). Nelle occupazioni a scopo abitativo di Roma,

78 questa capacità è la premessa principale, tutte le voci hanno uguale peso nella discussione e devono essere considerate. Nell’occupazione a scopo abitativo del Castro, in zona S. Giovanni a Roma, ad esempio, vi sono numerosi Etiopi ed Eritrei che storicamente sono in lotta tra di loro, eppure convivono e si confrontano nel rispetto reciproco ormai da molti anni. Per evitare o comunque gestire i conflitti, è necessaria la fiducia, bisogna dare spazio alla libertà degli Altri ed avere un atteggiamento positivo verso la diversità ed il confronto. Ogni volta che si verifica assenza di fiducia, cresce l’esigenza di apparati burocratici che impongano regole di comportamento o, in altri casi, si instaurano apparati di tipo mafioso (Arielli, Scotto 1998). La progettazione partecipata si impegna contro la burocratizzazione e le organizzazioni mafiose, in questo modo sarà la volontà comune, raggiunta attraverso il dialogo ed il confronto, a guidare le scelte di organizzazione dello spazio urbano.

La partecipazione, il confronto ed il dialogo, sono momenti di incontro e di scontro, poiché quando si vuole lavorare in questo modo è facile trovare delle difficoltà nel condurre e realizzare un’azione collettiva. Gestire creativamente un conflitto significa “spiazzare” l’interlocutore: se ad esempio si riceve un pugno la relazione che si crea è quella della lotta e la risposta potrà essere simmetrica con la restituzione del pugno, oppure complementare con la mancata reazione. In ogni caso significa aver collaborato con l’interlocutore: si accetta la lotta e si risponde in un modo o nell’altro. Se si vuole gestire creativamente un conflitto, come mezzo per capire una situazione complessa, si dovrà mettere l’interlocutore nelle condizioni di cambiare le modalità di relazione, in questo caso bisognerà passare dalla lotta a qualcosa di diverso (Sclavi 2002). Le ricerche antropologiche ed etnografiche hanno dato una nuova luce al significato delle emozioni, sotto quest’ottica le si può vedere come elementi contrapposti al pensiero. In ambito di studi sulle scienze sociali, Bateson afferma che le informazioni che si ricevono dalle emozioni non sono le emozioni stesse, ma il risultato del modo in cui le interpretiamo (Bateson 1976). Queste utilizzano una comunicazione non verbale, emergono alla coscienza come processi di interpretazione facenti parte di una “cornice” più ampia. Per uscire da una “cornice” di disagio, tensione o pericolo

79 bisogna creare sconcerto, in questo modo le emozioni connesse allo stato di disagio cambiano il loro valore cognitivo e accolgono l’Altro (Sclavi 2002; Milanesi, Naldi 2001). Per creare partecipazione bisogna imparare ad ascoltare e per riuscirci è necessario sviluppare le proprie capacità di empatia. Lo psicologo statunitense Rogers descrive l’empatia come la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, di assumere il suo punto di vista e di comprendere i suoi sentimenti e bisogni (Rogers 2000). Attraverso lo strumento dell’empatia si può realizzare l’ascolto attivo: il cercare di comprendere le ragioni dell’interlocutore, anche qualora apparissero come del tutto irragionevoli. L’atteggiamento è quello della disponibilità alla comprensione dell’Altro. Non bisogna adottare un atteggiamento neutrale, ma anzi riconoscere le proprie difficoltà nella comprensione e sforzarsi di imparare qualcosa di nuovo che permetta di instaurare un dialogo. Si tratta di rinunciare all’arroganza ed accettare la propria vulnerabilità, questo è ciò che caratterizza la crescita con l’Altro ed impedisce di mettersi contro l’Altro (Sclavi 2003).

Le relazioni che si instaurano con gli estranei, anche nell’ambito dell’anonimato, sostituiscono i legami familiari tradizionali e quelli di parentela, con sentimenti di associazione civica (Simmel 1984; Sennet 1999b). Con la crescente privatizzazione ed erosione degli spazi pubblici, nonché trascuratezza urbana, i cittadini si sentono minacciati, di conseguenza richiedono maggiore rispetto e partecipazione nelle scelte che riguardano le modifiche del suolo pubblico. A questo scopo spesso vengono organizzate nelle strade, nelle piazze e nelle occupazioni a scopo abitativo, dei momenti di cultura popolare, che servono a catturare l’attenzione dei media, della politica ed a rivendicare uno spazio pubblico (Amin, Thrift 2005). L’impegno comune, verso uno scopo condiviso, è un forte aggregante per un gruppo che vuole rivendicare un diritto ed è anche in grado di creare legami di solidarietà. Nella società attuale, tutti questi momenti, sono sempre più difficili da inventare. Il premio Nobel per la pace, Amartya Sen, vede i movimenti di lotta contro le diseguaglianze, come mezzi per sviluppare capacità individuali e sociali (Sen 2000). Attraverso questi movimenti collettivi, i cittadini fanno pratica di democrazia, sono pratiche che esprimono civiltà ed

80 impegno verso gli Altri. Alcuni di questi movimenti, come quelli di lotta per la casa, sostituiscono le mancanze o gli errori delle istituzioni rispetto ai bisogni della popolazione.

La progettazione partecipata si attiva sotto forma di: a) piani strategici; b) progetti integrati di sviluppo territoriale; c) progetti urbani di trasformazione; d) progetti di infrastrutture. I piani strategici, utilizzano la partecipazione come strumento sia conoscitivo del territorio, sia di produzione di consensi per i soggetti coinvolti. I progetti integrati di sviluppo, nascono con l’obiettivo di creare forme di partnership tra gli attori locali, con lo scopo di trovare forme di negoziazione per creare nuove intese di sviluppo. In un territorio i soggetti che possono contribuire allo sviluppo sono molteplici, la sfida è quella di creare le condizioni tali per poter cooperare. I progetti urbani di trasformazione intervengono sulla città attraverso la riqualificazione delle zone di edilizia residenziale pubblica, e progettano nuovi quartieri intervenendo sul tessuto sociale e sul patrimonio economico. Per quanto riguarda i progetti di costruzioni, lo scopo è quello di realizzare nuove infrastrutture con l’obiettivo di rispondere a richieste espresse dai cittadini, a seguito della sentita carenza di determinati servizi (Savoldi 2006).

Gli obiettivi dei processi partecipati non sono di trovare accordi tra gli attori sociali forti ma, al contrario, sono la creazione di processi di inclusione, lo sviluppo di nuove capacità nei soggetti e la crescita di scelte di interesse collettivo. L’applicazione di tale processo crea relazioni e trasforma i territori, ciò si può attuare mediante un patto di condivisione nella sperimentazione di nuove strategie di confronto e di scelta collettiva. I processi partecipati nascono, nella maggior parte dei casi, attraverso processi di autopromozione, ma negli ultimi anni, con le nuove iniziative amministrative, si va creando una maggiore sensibilizzazione e promozione da parte delle istituzioni, che invitano i cittadini ad elaborare processi partecipativi. Questi individui non posseggono regole proprie o metodi specifici, bensì le creano di volta in volta, in risposta a specifiche realtà sociali e territoriali. L’esperienza della partecipazione, come strumento per il raggiungimento di obiettivi specifici, è ormai adottato in molte e differenti

81 situazioni a livello sia locale che globale. La sfida mette in gioco molteplici variabili ed effetti combinatori. Sono in crescita il numero delle amministrazioni, istituzioni, associazioni e cittadini che si tuffano in questa esperienza e ne sperimentano la sua efficacia.

Nel documento Diritto alla casa e forme dell'abitare (pagine 73-81)