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La legalizzazione dell’illegale

Nel documento Diritto alla casa e forme dell'abitare (pagine 69-73)

N. medio per anno dei contribut

4.3 La legalizzazione dell’illegale

Agli albori degli anni Novanta, l’auto-costruzione non veniva quasi più praticata, ma numerose famiglie si appropriarono indebitamente di appartamenti adibiti a case popolari. L’occupazione senza titolo, di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, comporta due tipi di reati. Il primo risponde all’articolo 633 codice penale e si verifica quando viene forzata la porta d’ingresso, oppure quando a seguito del decesso di un parente, ne subentra un altro che era in possesso delle chiavi. In questi casi la Polizia Municipale territorialmente competente, con funzione di Polizia Giudiziaria, inoltra la notizia del reato alla Procura della Repubblica e si procede allo sgombero. Il secondo caso si verifica quando vi è l’assenza dei requisiti richiesti per succedere alla titolarità dell’alloggio, ossia per abbandono dell’assegnatario che cessa a terzi l’alloggio o per assegnazione provvisoria che non viene convertita in definitiva. In questi casi l’occupante viene intimato, tramite lettera raccomandata, di lasciare l’alloggio ed è riservata allo stesso la possibilità di ricorrere all’ufficio competente, entro i termini previsti dalla legge.

Le edificazioni abusive sono quelle che violano l’articolo 7 della legge 47/85, ossia prive di atto di assenso o totalmente difformi ad esso. Tali edificazioni sono sanzionate dal sindaco, previa sospensione dei lavori, quando sono in corso, oppure mediante demolizione, a cura del responsabile dell’abuso, entro 90 giorni. Nel caso in cui vengano dichiarati prevalenti interessi pubblici e l’opera non sia in contrasto con interessi urbanistici o ambientali, si può far salva questa regola attraverso una deliberazione consiliare. Qualora si verificasse inerzia da parte del sindaco, subentra il presidente della giunta regionale, il quale

70 ha facoltà di esercitare i poteri sostitutivi. Nel caso di abusivismo a seguito di annullamento dell’atto di assenso per illegittimità, il sindaco applica una sanzione corrispondente al valore venale dell’opera abusiva, la valutazione è a cura dell’Ufficio Tecnico Erariale (UTE). Le opere in parziale difformità dall’atto di assenso vengono demolite con spese a carico dei responsabili dell’abuso e, trascorsi il limite di 120 giorni, a cura del Comune, con spese sempre a carico dei responsabili. Alle opere di restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione, effettuate senza autorizzazione, si applica una sanzione che obbliga il responsabile al pagamento del doppio dell’incremento del valore venale stabilito dall’UTE. Le controversie in ambito di abusivismo edilizio, rispetto alle sanzioni pecuniarie, sono di competenza del Tribunale Amministrativo Regionale (TAR).

Le zone che non godevano di Piani urbanistici si sono facilmente espanse abusivamente, talvolta in linea con gli edifici già presenti, oppure sviluppandosi al di là del confine urbano che conteneva la zona limitrofa già esistente. Le amministrazioni che, senza i Piani Particolareggiati, hanno tacitamente tollerato la crescita abusiva, hanno giocato su queste pratiche informali offrendo, tramite i tecnici competenti, informazioni sugli orientamenti futuri di edificazione, in modo tale che un domani si sarebbe legalizzato il tutto. La regolarizzazione si è attuata poi per mezzo di sanatorie ed è stata anche inclusa nei Piani successivi. Le prime ricerche, svolte sul territorio romano, evidenziano come il fenomeno dell’abusivismo si sia insinuato nella capitale a causa principalmente delle scarse risposte che la pubblica amministrazione ha fornito ai bisogni di infrastrutture e alloggi sociali della popolazione. Il Governo ed ha tacitamente “tollerato” lo sviluppo dell’edilizia abusiva, perché permetteva di risparmiare i costi di costruzione e evitava in parte le sollecitazioni dei cittadini che chiedevano nuove costruzioni. L’abusivismo negli anni è cresciuto in questo modo: cancellando un paesaggio già esistente e mimetizzandosi con ciò che era già presente nel territorio.

Uno sguardo ad altre situazioni può fornire una visione più ampia del problema: un architetto inglese impegnato nell’housing sociale, ha condotto un lavoro nelle barriadas di Lima descrivendo le condizioni di vita degli abitanti

71 della capitale peruviana. Egli ha riposto la sua attenzione sul fallimento delle politiche nazionali nel contrastare la scarsità degli alloggi e la crescita degli insediamenti illegali, dimostrando così l’inefficienza del governo nei suoi approcci di non tolleranza e di volontà di sradicare le abitazioni auto-costruite per poi ricollocarle altrove (Turner 1963). Secondo l’autore, se lo Stato invece che considerare queste azioni come negative avesse provato a promuovere e coordinare l’autocostruzione, si sarebbe rovesciato il sistema e si sarebbero potute realizzare costruzioni a costi inferiori e con un maggiore valore d’uso (Turner, Fichter 1979). Inoltre, i contesti urbani considerati devianti, sarebbero diventati teatro di potenziale creativo e capacità di autodeterminazione (Zanfi 2008).

Nella regione dei Balcani occidentali, durante gli anni Novanta, si sono sviluppati modelli di autorganizzazione che hanno riempito il vuoto lasciato dall’istituzione statale che si trovava in fase di ricostruzione. I processi informali di ricostruzione della città erano espressione di percorsi di democratizzazione degli abitanti (Zizek 2005). Tali pratiche, da un lato hanno rigenerato alcune città e risolto problemi urgenti come la mancanza di alloggi, ma dall’altro hanno creato devastazioni ambientali. Il modello di sviluppo urbano dei Balcani, per quanto utile a mettere in moto un capitale sociale generatore di creatività ed emancipazione della cittadinanza, non è praticabile in quanto tale. Lo stesso processo, avvenuto in maniera più massiccia nella città di Tirana, durante gli anni Novanta, a seguito della caduta del regime, ha prodotto una brutale deformazione estetica di interi quartieri. In questo caso la ricerca di spazi per risiedere, ha completamente annientato la possibilità di avere degli spazi pubblici e di edificare secondo criteri estetici.

Una ricerca sulla crescita abusiva nella capitale italiana, affiancata ad undici casi-studio di altre città metropolitane, che vanno dal Maghreb all’America Latina, mostra come la crescita incontrollata fa emergere i limiti dell’urbanistica e degli approcci tradizionali (Clementi, Perego 1983). L’auto-costruzione, quando è organizzata come movimento collettivo, diventa un’occasione per manifestare sul diritto alla casa e sul diritto di potersela costruire autonomamente (La Cecla 1980). Queste esperienze non fanno parte del mercato edilizio, e le

72 sperimentazioni fin ora condotte in ambito di autocostruzione si sono concluse con un elevata soddisfazione degli utenti. L’autocostruzione, anche se illegale, è espressione di una cultura architettonica alternativa e più autentica (Zanfi 2008), che talvolta risponde meglio alle necessità dei suoi abitanti, perché basata su esigenze concrete e non progettata da professionisti che spesso non conoscono la popolazione insediata nel territorio e non sono poi in grado di rispondere alle reali esigenze.

“L’architettura banale italiana, diffusa soprattutto nel meridione (…) è un capitolo del tutto ignorato e forse meritevole di maggiore attenzione. (…) E’ un capitolo in cui si afferma una creatività senza complessi che utilizza frammenti antichi e moderni mescolati con sovrana indifferenza. La spinta che muove e la fa sviluppare su strade divergenti è la volontà di simbolizzare l’orgoglio, la smania, il piacere, il desiderio della casa, il livello sociale cui si appartiene e anche la propria area geografica e la corrispondente tradizione etnica. A dispetto di chi crede alle rigide divisioni tra creatori e consumatori, tra inventori e seguaci, una ricognizione sull’architettura auto costruita potrebbe dimostrare che c’è più capacità inventiva e più immaginazione nel banale che nel colto e, anche a non credere in questo primato del naïf, c’è da constatare che tutto sta cambiando persino nella più remota periferia culturale.” (Portoghesi 1982, pp. 131-132).

Come detto in precedenza, in Italia la legge 47/85, relativa al recupero urbanistico degli edifici abusivi, stabilisce che le Regioni debbano recepire delle direttive generali e concedere ai Comuni la possibilità di gestire l’abusivismo, come ritengono più opportuno e secondo le esigenze di ogni città. In definitiva risulta utopico il credere di poter eliminare il fenomeno dell’abusivismo edilizio ed altrettanto improbabile è l’idea di poterlo totalmente risanare. Appare più congruo e fattibile la capacità di gestirlo con adeguati strumenti che sfruttano l’ecologia complessa (Ingersoll 2004). Le continue sanatorie hanno fatto sì che nonostante l’abusivismo sia una pratica contra legem, gli individui come anche le imprese costruttrici, abbiano continuato questa pratica perché non veniva percepita come un’azione illegale. Il motivo è che si ha la consapevolezza che una successiva norma sanerà l’illecito e questa continua legalizzazione dell’illegale

73 farà perpetuare il fenomeno, seppur con le modifiche che i diversi periodi storici renderanno necessarie.

Nel documento Diritto alla casa e forme dell'abitare (pagine 69-73)