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Lo spettro dell’immigrazione

Nel documento Diritto alla casa e forme dell'abitare (pagine 105-111)

N. medio per anno dei contribut

5.5 Categorie a rischio casa

5.5.1 Lo spettro dell’immigrazione

Celebre è l’affermazione di Platone quando spiegava che l’“essere se stessi”, è possibile perché c’è un “essere per gli Altri”: per vedere se stessi è necessario specchiarsi nella pupilla dell’amico (Platone 2011). Lo sguardo dell’Altro trasforma il soggetto, come per un calamaio su di un tavolo o per un albero piegato dal vento, lo sguardo altrui modifica il soggetto fino a farlo diventare oggetto e lo estranea da se stesso (Sartre 2008). L’alterità, vista in questo modo, crea un cambiamento. Non si può restare estranei di fronte a chi osserva, “l’alterità è possibile solo in rapporto ad un’identità sottostante. (…) L’identità (…), nasce da un diverso che si riconosce come lo stesso” (Tognonato 2006, p. 44). L’atto creativo avviene come conseguenza ad una modifica di una condizione preesistente. L’Altro, il diverso, è motore di cambiamento sociale e le trasformazioni sono il presupposto per lo sviluppo. Con la parola sviluppo non si intende un cambiamento necessariamente positivo, ma un’azione che determina la modifica di un fenomeno.

“Questo concetto fondamentale può essere generalizzato affermando che in ogni essere umano per così dire sussiste, ceteris pari bus, quasi una proporzione immutabile tra l’individuale e il sociale, che varia solamente nella forma. Quanto più ristretta è la cerchia alla quale noi ci diamo, tanto minore è la libertà individuale che possediamo; in compenso, però, questa cerchia è essa stessa qualcosa d’individuale: proprio perché è piccola si distingue con una delimitazione più netta dalle altre cerchie. E analogicamente, se la cerchia nella quale agiamo ed a cui rivolgiamo i nostri interessi si estende, questa offrirà uno spazio maggiore per lo sviluppo della nostra individualità: come parti di questo tutto avremo comunque una minore singolarità e, in quanto gruppo sociale, questo tutto sarà meno individuale. Non è quindi solo la relativa piccolezza e la intimità del gruppo, ma anche, o

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soprattutto, la sua colorazione individualistica ciò a cui è correlato il livellamento dei suoi individui. Oppure, molto schematicamente: gli elementi della cerchia differenziata sono indifferenziati, e quelli della cerchia indifferenziata sono differenziati.” (Simmel 2006, p.79).

Dalle affermazioni di Simmel appare evidente come la varietà culturale di un gruppo, sia in quanto comunità e sia in quanto estraneo al suo interno come una massa, determina un cambiamento sociale che, nell’opinione di Simmel, definisce una maggiore o minore libertà individuale. In questo senso la presenza di più culture, ovvero il multiculturalismo, si fa espressione della possibilità che ha un popolo di allargare la cerchia di libertà dei singoli soggetti che ne fanno parte. A tal proposito è interessante l’osservazione che Ferrarotti inserisce nella prefazione del saggio, I figli del papuano. Cultura, culture, intercultura,

interculture da Labriola a Makarenko, Gramsci, Yunus, sul tema dell’intercultura:

“Uno spettro s’aggira fra i popoli di oggi su scala planetaria. Com’è ovvio attendersi, lo spettro ama presentarsi, all’occorrenza, sotto mentite spoglie. E’ lo spettro del multiculturalismo. (…) Domina il terrore della contaminazione da contatto. (…) Corrisponde puntualmente a uno sbilancio ormai di dominio pubblico: il Nord del mondo è economicamente ricco, ma demograficamente debole; il Sud del mondo è disperatamente povero economicamente, ma ricco dal punto di vista demografico.

La pluralità e la compresenza delle culture non garantiscono di per sé una convivenza civile. (…) L’incontro fra le culture – che, storicamente, appare come occasione e fonte di progresso – può anche farsi scontro, incomprensione, ostilità verso il diverso, percepito come potenziale nemico. L’immigrato resta e viene visto come esule, spesso sospeso fra una cultura abbandonata e una nuova cultura, che non l’accetta in senso pieno, vale a dire accetta le braccia ma non le persone.” (Siciliani de Cumis 2010, p. 9).

Secondo l’osservatorio romano sulle migrazioni, nel 2009, in Italia erano 2.938.922 coloro che possedevano un regolare permesso di soggiorno e che costituivano il 5 per cento dell’intera popolazione; nel Lazio vi erano in tutto 330.146 immigrati che corrispondevano al 6 per cento del totale e solo nella

107 capitale se ne contavano il 7,4 per cento del totale degli abitanti (CREL 2009). L’immigrato che vive a Roma, fa esperienza quotidiana di un conflitto di appartenenza. Esso abita la città, ma non vi appartiene. Ha “tradito” il suo Paese e la sua cultura per andare in un posto che non lo vuole. Il primo passo verso l’integrazione è quello di avere un punto di ricovero e successivamente si potrà creare un senso di appartenenza grazie a fattori quali il matrimonio misto, la lingua, la scuola e la religione. Secondo il rapporto della Caritas del 2006, solo il 7 per cento degli immigrati in Italia proviene da Paesi al di fuori dell’Unione Europea (Guerrieri, Villani 2006), la maggioranza è composta da cittadini comunitari. Sono gli immigrati extracomunitari a rappresentare la povertà più estrema in tema di esclusione abitativa. Essi sperimentano una maggiore difficoltà sia in fatto di inserimento lavorativo e sia per ciò che riguarda la condizione abitativa (Tosi 1994a; Nomisma 2007). La loro povertà è innanzitutto determinata dalla difficoltà nel raggiungere una posizione di regolarità. Il vivere in un’abitazione è condizione necessaria, anche se non sufficiente, al percorso di regolarizzazione di un immigrato extracomunitario. Le precarie condizioni abitative, la mancanza della famiglia e la relativa condanna alla solitudine, possono favorire l’insorgere di atti di devianza, acuiti d’altronde dal distacco con il resto della popolazione. Gli immigrati spesso si vedono impedita la possibilità di realizzare scambi e contatti (Ferrarotti 1991).

Verso la seconda metà degli anni Ottanta è avvenuta in Italia una forte crescita degli immigrati provenienti dai Paesi poveri e spesso sconvolti dalle guerre, fenomeno poi cresciuto negli anni Novanta, che ha avuto un forte impatto nelle politiche sociali del Paese. Inizialmente si sono inseriti in attività lavorative che gli italiani non erano più disponibili a svolgere, ma col tempo sono cambiate le modalità e le aspettative. Molti di questi individui hanno avuto dei figli, nati e cresciuti in Italia: queste seconde generazioni non avendo vissuto lo stesso dramma dei genitori, hanno aspettative simili ai ragazzi autoctoni e non si accontentano di svolgere un lavoro “di sopravvivenza” o di altro genere che gli italiani non vogliono più fare. Si aspettano di entrare a far parte della società cui i loro genitori hanno scelto di appartenere (CIRES 2009).

108 Gli immigrati si rivolgono per la quasi totalità al mercato degli affitti, il loro primo obiettivo è trovare lavoro ed il secondo riguarda la casa. Il problema dell’alloggio è l’ostacolo principale che incontrano successivamente al loro arrivo. Per loro, le difficoltà sono dovute alla carenza di sistemi di informazione e di coordinamento che siano in grado di guidarli nel nuovo contesto di inserimento. La conoscenza iniziale è l’unica che risponde, almeno nei primi tempi, alle esigenze di trovare una casa. Molte volte è la rete amicale che fornisce un primo sostegno, consentendo una sistemazione come ospite o facilitando il percorso di ricerca della casa. Le soluzioni sono spesso di affitto in coabitazione, fino ad arrivare al sovraffollamento. A questo si aggiungono altri disagi dovuti alla carenza di servizi e agli stabili fatiscenti, come accade per chi abita in capannoni dismessi. E’ frequente che il contratto di locazione non venga formalizzato, o che in sede di registrazione si dichiari una cifra inferiore a quella realmente pagata (Sunia 2009). Queste irregolarità negano diverse opportunità o benefici derivanti, ad esempio, dalle normative fiscali in caso di stipula di un contratto, quindi impedendo di stabilire una residenza e di aspirare ad una futura regolarizzazione della propria posizione. Il mercato degli affitti opera sui migranti una vera e propria speculazione, i prezzi vengono maggiorati rispetto alle famiglie italiane, i livelli di standard di qualità sono inferiori e vengono richieste garanzie aggiuntive, come ad esempio: un numero di mensilità anticipate maggiori; la firma di un garante; una fideiussione bancaria.

A seguito della “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, legge 189/02 denominata legge “Bossi-Fini”, sono stati introdotti cambiamenti nel “testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, legge 286/98 denominata “Turco-Napolitano”. All’articolo 6, della legge Bossi-Fini, è introdotto l’obbligo, per il datore di lavoro, di garantire l’alloggio al lavoratore straniero e nell’articolo 18 si impone, sempre al datore di lavoro, di documentare che l’abitazione del lavoratore sia conforme alle norme vigenti. Vi è un elemento di problematicità nella legge, che aggrava la segregazione e le tensioni razziali: nell’articolo 29 è previsto, per gli stranieri che richiedono il ricongiungimento

109 familiare, la dimostrazione di avere accesso ad “un alloggio che rientri nei parametri limite previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ovvero, nel caso di un figlio di età minore agli anni quattordici al seguito di uno dei genitori, del consenso del titolare dell’alloggio nel quale il minore effettivamente dimorerà”: tali criteri non sono richiesti per gli italiani che vivono in un’abitazione privata e perseguire un obiettivo del genere è difficile in una società come quella italiana.

In un primo momento sono state le istituzioni caritative a mettere a disposizione degli immigrati posti letto in strutture chiamate “di prima accoglienza” e questo perché era difficile l’accesso ad alloggi privati in affitto, sia perché erano scarsi, sia perché i prezzi non erano sostenibili e non ultima, la riluttanza da parte dei proprietari, di dare in locazione appartamenti ad immigrati. Le istituzioni pubbliche, diversamente da quelle caritative, risposero a questa esigenza di alloggi per gli stranieri, stipulando convenzioni con istituzioni private attraverso finanziamenti, convenzioni e legittimazione. Questo processo si è verificato in particolar modo nelle grandi città, in quanto queste erano già provviste di servizi con caratteristiche di dormitori. Di fatto bisogna evidenziare che negli ultimi anni sono giunti in Italia oltre 3.000.000 di immigrati e non è stato realizzato da parte dalla politica pubblica nessun intervento sul piano alloggiativo, mentre nel caso delle migrazioni interne, qualche anno addietro, vennero realizzati interi nuovi quartieri mediante cooperative di abitazione.

Nell’articolo 40 della legge Bossi-Fini, si parla espressamente della creazione di “centri di accoglienza”, ma questi non sono stati realizzati. La legge ha stabilito nuovi compiti per le Regioni e gli enti locali, senza però chiarire le modalità dei finanziamenti e senza aver varato un documento di attuazione. Molte Regioni hanno comunque realizzato iniziative a favore dell’integrazione degli immigrati senza fare riferimento alla legge, ma con l’obiettivo di rispondere ai bisogni che emergevano. Di seguito si riporta l’articolo 40 della legge Bossi-Fini, sottolineando che le Regioni non hanno attuato la norma:

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“1. Le regioni, in collaborazione con le province e i comuni e con le associazioni e organizzazioni del volontariato predispongono centri di accoglienza destinati ad ospitare, anche in strutture ospitanti cittadini italiani o cittadini di altri Paesi dell’Unione europea, stranieri regolarmente soggiornanti per motivi diversi dal turismo, che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza. (…)

2. I centri di accoglienza sono finalizzati a rendere autosufficienti gli stranieri ivi ospitati nel più breve tempo possibile. I centri di accoglienza provvedono, ove possibile, ai servizi sociali e culturali idonei a favorire l’autonomia e l’inserimento sociale degli ospiti. Ogni regione determina i requisiti gestionali e strutturali dei centri e consente convenzioni con enti privati e finanziamenti.

3. Per centri di accoglienza si intendono le strutture alloggiative che, anche gratuitamente, provvedono alle immediate esigenze alloggiative e alimentari, nonché, ove possibile, all’offerta di occasioni di apprendimento della lingua italiana, di formazione professionale, di scambi culturali con la popolazione italiana, e all’assistenza socio-sanitaria degli stranieri impossibilitati a provvedervi autonomamente per il tempo strettamente necessario al raggiungimento dell’autonomia personale per le esigenze di vitto e alloggio nel territorio in cui vive lo straniero.

4. Lo straniero regolarmente soggiornante può accedere ad alloggi sociali, collettivi o privati, predisposti secondo i criteri previsti dalle leggi regionali, dai comuni di maggiore insediamento degli stranieri o da associazioni, fondazioni o organizzazioni di volontariato ovvero da altri enti pubblici o privati, nell’ambito di strutture alloggiative, prevalentemente organizzate in forma di pensionato, aperte a italiani e stranieri, finalizzate ad offrire una sistemazione alloggiativi dignitosa a pagamento, secondo quote calmierate, nell’attesa del reperimento di un alloggio ordinario in via definitiva.

5. Gli stranieri titolari di carta di soggiorno e gli stranieri regolarmente soggiornanti in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, hanno diritto di accedere, in condizione di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e ai servizi di intermediazione delle agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni regione o dagli enti locali per agevolare l’accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato in materia di edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione.” (legge 189/02, articolo 40).

111 Gli immigrati senza permesso di soggiorno vivono spesso in alloggi a canoni più elevati e “in nero”; nel caso di intervento delle autorità Comunali e di Polizia, in base alla legge Bossi-Fini, vengono avviate le procedure di rimpatrio e ciò incentiva la popolazione a non emergere. L’unica strada che porta alla legalità, ossia alla regolarizzazione, diventa quella delle sanatorie che di tanto in tanto vengono adottate. Spesso il prezzo degli alloggi è insostenibile e questo porta gli immigrati ad adottare soluzioni alternative, come quella di pagare la prima rata di un auto usata per dormirci la notte, fenomeno molto comune nelle vicinanze delle città industriali del Nord. Nella capitale è frequente che arrivino a dormire sotto i ponti del Tevere (Garibaldi, Cavour, Sisto, Industria, Testaccio, Duca d’Aosta), zone ormai diventate punti di incontro per molte etnie. Nelle regioni del Nord, dove è più facile trovare lavoro rispetto al resto d’Italia, è invece più difficile trovare un alloggio, molti privati si rifiutano di affittare a immigrati e talvolta preferiscono addirittura lasciare l’appartamento sfitto. Qualora venga stipulato un contratto di affitto a un immigrato, il costo dell’alloggio viene stabilito in base al numero delle persone che vi andranno ad abitare, anziché sulla metratura effettiva dello stesso. Ecco che azioni discriminanti passano anche per la casa, rendendo difficoltosa la ricerca di una sistemazione dignitosa per gli immigrati.

Nel documento Diritto alla casa e forme dell'abitare (pagine 105-111)