In questo contesto, l’uso del termine religio contribuisce a ricostruire la provenienza dell’impianto ideologico che costituisce il fondamento della Collatio.
Prima di tutto, va rilevata la presenza dell’antitesi impia profanaque superstitio/vera religio (Coll. 2, 21), fatto che riconduce ancora una volta al complesso delle opere apologetiche scritte tra il II e il III secolo66.
63 Collatio 2, 20. Testo e traduzione in Appendice I.
64 Collatio 2, 21: Hae sunt illae Furiae, scelerum vindices, haec illa cruciamenta Tartarea poetarum
vestrorum carminibus decantata, quae vos velut iam mortuos propter impiam profanamque superstitionem atque contemptum verae religionis excruciant. Cfr. Appendice I. Sull’antitesi superstitio/religio si veda il paragrafo successivo.
65 Collatio 2, 21. Testo e traduzione in Appendice I.
66 Si veda quanto affermava Morelli, Sulle tracce del romanzo e della novella, cit., pp. 68-69, circa il
ritorno nella Collatio di motivi cari ai polemisti cristiani. Anche Cracco Ruggini nel suo saggio, Sulla
cristianizzazione della cultura pagana, cit., pp. 41-47, aveva rilevato come i topoi dell’apologetica
163 Era stato J. André67 a notare che la formula vera religio appartiene agli apologisti, indicando precisamente un passo di Tertulliano (Apol. XXIV 2) e uno di Minucio Felice (XXXVIII 7).
Vediamo prima di tutto il testo dell’Apologeticum (XXIV 1-2):
Si enim non sunt dei pro certo, nec religio pro certo est: si religio non est, quia nec dei pro certo, nec nos pro certo rei sumus laesae religionis. 2. At e contrario in vos exprobratio resultabit, qui mendacium colentes veram religionem veri Dei non modo neglegendo, quin insuper expugnando, in verum committitis crimen verae inreligiositatis.
Se infatti gli dèi certamente non esistono, non esiste di sicuro neppure la religione: e se la religione non esiste, poiché gli dèi non esistono, di certo neppure noi siamo colpevoli di offesa alla religione. 2. Al contrario, questo rimprovero ricadrà su di voi, che adorate il falso, non solo disprezzando ma anche perseguitando la vera religione del vero Dio, e commettete in verità la colpa di vera empietà.
In questo passo la definizione è ricavata attraverso una serie concatenata di ipotesi negative, per cui Tertulliano68 arriva a sostenere che sono i non cristiani a macchiarsi di irreligiositas, mentre i cristiani praticano la vera religio del verus Deus69.
Più avanti, nello stesso capitolo, l’apologeta utilizza il termine superstitio per indicare l’uso degli Egizi di divinizzare gli animali (Apol. XXIV 7). In generale, poi, la religione romana70 viene designata come curiositas superstitiosa inventata da Numa (Apol. XXV 12).
67 Échos poetiques d’un brahmane, cit., p. 44.
68 Per un approccio allo studio dell’Apologeticum si veda C. Moreschini – E. Norelli, Storia della
Letteratura cristiana antica greca e latina. I Da Paolo all’età costantiniana, Morcelliana, Brescia
20192, pp. 611-616.
69 Su questo passo e sulla contrapposizione religio/superstitio si veda l’articolo di M. Sachot, «Religio/
superstitio». Historique d’une subversion et d’un retournement, in «Revue de l’histoire des religions»
208/4 (1991), pp. 355-394. Sull’uso del termine religio in Tertulliano, Arnobio, Lattanzio e Agostino G. Sfameni Gasparro, Introduzione alla storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 45-55. Dello stesso volume non convince invece il capitolo dedicato all’uso di religio nella cultura romana, perché si riferisce soltanto al De natura deorum di Cicerone, estendendo le idee lì esposte a tutto il patrimonio della tradizione di Roma, che è ben più complesso, a partire dal variegato lessico del sacro. Si veda ad es. G. Dumézil, La religione romana arcaica (ed. it.), cit., pp. 125-129.
70 Per i Romani ciò che noi comunemente chiamiamo “religione” corrispondeva a espressioni quali res
164 In altre opere di Tertulliano viene adoperato lo stesso vocabolo71 per indicare diversi elementi connessi alla religione romana: a) l’intero assetto che fabbrica templi e statue72, che divinizza uomini73, e che venera gli dèi protettori dell’impero74; b) il culto rivolto ai demoni75; c) l’idolatria76; d) in genere, le pratiche rituali77.
Pertanto, se ne deduce che già all’epoca dello scrittore africano era chiaramente delineato il sistema ideologico, per il quale la religio e la superstitio identificavano in realtà due diversi sistemi religiosi e due culture.
Da una parte, vi era il movimento cristiano che si autodefiniva come religio, attribuendo al termine della lingua latina un diverso significato78, cioè un sistema di principi e credenze, fondato sul culto rivolto al vero unico Dio; dall’altra lo stesso orientamento teorico-ideologico designava le idee “religiose” e le pratiche rituali dei non-cristiani, con il vocabolo superstitio79.
È proprio all’interno dei testi di Tertulliano che si viene a definire l’antinomia “religione/superstizione” per indicare la polarizzazione tra l’affermazione del nuovo sistema rispetto al vecchio, in un rapporto gerarchico, laddove il primo è certamente superiore al secondo80.
in «Studi Storico-Religiosi» 1 (1977), pp. 47-62. Il termine religio equivaleva a ciò che per noi può essere “scrupolo” (cfr. Sachot, «Religio/ superstitio», cit., pp. 367-366; Dumézil, La religione romana
arcaica, cit., p. 51). Ma esso poteva indicare anche indicare un “divieto”. Un esempio è costituito dalla
proibizione di uscire dalla porta Carmentale e il raduno del senato nel tempio di Ianus, perché da lì uscirono i Fabi, che furono trucidati presso il Cremera, e in quell’edificio sacro si riunirono i senatori (Paul. Fest. p. 358 L). Il caso è riportato da G. Piccaluga, Aspetti e problemi della religione romana, Sansoni, Firenze 1974, pp. 40-41. Secondo A. Brelich il termine latino religio cominciò ad avere un’accezione più ampia in seguito allo scontro tra il cristianesimo e le religioni del mondo classico (Introduzione alla storia delle religioni, cit., p. 4).
71 I dati sono raccolti in Tertulliano, La preghiera (a cura di P. A. Gramaglia), Edizioni Paoline, Roma
1994, p. 215.
72 Tert. Idol. VIII 4. 73 Tert. Idol. XV 2. 74 Tert. Nat. II 17, 11.
75 Tert. Coron. 10, 3; Adv. Marc. V 11, 11; Idol. XII 5; Ieiun. XVI 7. 76 Tert. Adv. Marc. I 13, 4.
77 La prassi dei digiuni (Ieiun. 2, 4; Anim. 48, 3-4); l’uso delle corone (Coron. 12, 2); il culto sacrificale
(Adv. Marc. II 18, 3); i giochi (Spect. 6, 1-2); i riti connessi al parto (Anim. 37, 1; 39, 1).
78 L’evoluzione semantica del termine religio è ampiamente illustrata nell’articolo di Sachot, «Religio/
superstitio», cit., pp. 364-372, dove lo studioso ne ricostruisce l’etimologia, utilizzando principalmente
le riflessioni di E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Les Editions de Minuit, Paris 1969, pp. 265-279. Egli arriva a definirne il senso originario come “scrupolo”.
79 Sachot illustra il mutamento di significato che subisce il termine superstitio già in epoca romana: da
“divinazione” a qualcosa di negativo, come una forma di “deviazione dalla religione” vera e propria (op. cit., pp. 372-378).
80 Sachot riconosce proprio negli scritti di Tertulliano la svolta nel mutamento di significato dei termini
religio/superstitio che diventano funzionali alla definizione dell’identità cristiana e delle altre realtà,
165 La contrapposizione tra i due termini compare in maniera esplicita nell’Octavius di Minucio Felice81, allorché l’autore inizialmente parla della conversione di uno dei personaggi, passato dalla vana superstitio alla vera religio82, e alla fine del dialogo riporta l’esortazione a soffocare la superstitio, espiare l’inpietas, e conservare la vera religio83.
La stessa antitesi è rinvenibile in un capitolo noto delle Divinae Institutiones84 di Lattanzio85. In esso si legge (IV 28, 2):
Quid ergo est? Nimirum religio veri cultus est, superstitio falsi. Et omnino quid colas interest, non quemadmodum colas, aut quid precere. Sed quia deorum cultores religiosos se putant, cum sint superstitiosi, nec religionem possunt a superstitione discernere, nec significantiam nominum exprimere, diximus nomen religionis a vinculo pietatis esse deductum, quod hominem sibi Deus religaverit, et pietate constrinxerit; quia servire nos ei ut domino, et obsequi ut patri necesse est. Melius ergo id nomen Lucretius interpretatus est, qui ait, religionum se nodos exsolvere. Superstitiosi autem vocantur, non qui filios suos superstites optant (omnes enim optamus); sed aut ii, qui superstitem memoriam defunctorum colunt, aut qui parentibus suis superstites, colebant imagines eorum domi tanquam deos penates. Nam qui novos sibi ritus assumebant, ut deorum vice mortuos honorarent, quos ex hominibus in coelum receptos putabant, hos superstitiosos vocabant. Eos vero, qui publicos et antiquos deos colerent, reliogiosos nominabant. Unde Virgilius [VIII 187]:
Vana superstitio, veterumque ignara deorum.
Sed cum veteres quoque deos inveniamus eodem modo consecratos esse post obitum; superstitiosi ergo qui multos ac falsos deos colunt. Nos autem religiosi, qui uni et vero Deo supplicamus.
81 Per un approfondimento sui contenuti dell’Octavius si veda J. C. Fredouille, Dal dialogo ciceroniano
all’Octavius di Minucio Felice, in L. Alici - R. Piccolomini - A. Pieretti (edd.), La filosofia come dialogo, Città Nuova, Roma 2005.
82 Min. Fel. I 5.
83 Min. Fel. XXXVIII 7.
84 Per l’opera in generale si veda C. Moreschini - E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica
greca e latina. I Da paolo all’età costantiniana, cit., pp. 763-767.
85 Sul passo di Lattanzio, e in generale sulla definizione di religio, si può vedere anche R. Gothóni,
166
Che cos’è, allora? Senza dubbio la religione è il culto della verità, la superstizione di ciò che è falso. E fa l’intera differenza ciò che si venera, non come si venera, o quale preghiera si offre. Ma poiché gli adoratori degli dèi si credono religiosi, mentre sono superstiziosi, non sono in grado di distinguere la religione dalla superstizione, né di esprimerne il significato dei nomi. Abbiamo detto che il nome della religione deriva dal vincolo della pietà, dal momento che Dio ha legato l’uomo a se stesso, e lo ha stretto saldamente con la pietà, perché dobbiamo servirlo come padrone ed essere obbedienti a lui come padre. E quindi Lucrezio chiarì meglio questo nome: egli dice di avere lui stesso allentato i nodi delle religioni. Tuttavia sono chiamati superstiziosi, non quelli che vogliono che i loro figli sopravvivano, perché tutti noi lo desideriamo; ma o quelli che venerano la memoria superstite dei morti, o quelli che, sopravvissuti ai loro genitori, veneravano le loro immagini nelle loro case come dèi domestici. Coloro che avevano intrapreso nuovi riti, affinché potessero onorare i morti come dèi, che supponevano fossero prima uomini e poi accolti in cielo, questi erano chiamati superstiziosi. Ma coloro che adoravano in pubblico gli antichi dèi, erano chiamati religiosi. Perciò Virgilio dice [Aen. VIII 187]:
Superstizione vana, e ignorante degli dèi antichi.
Ma poiché troviamo che anche gli antichi dèi furono consacrati nello stesso modo dopo la loro morte, dunque sono superstiziosi quelli che adorano molti e falsi dèi. Noi, invece, che rivolgiamo le nostre suppliche all’unico vero Dio, siamo religiosi.
In questo passo è chiarissima la definizione di che cosa sia la “vera religione”: essa è il culto del vero, opposto a quello del falso.
Secondo Lattanzio, gli adoratori degli dèi non sarebbero in grado di distinguere la religione dalla superstizione. Di conseguenza, l’autore chiarisce che nella cultura romana i superstiziosi veneravano in privato le immagini dei morti come dei penates86,
86 Cfr. G. Piccaluga, Penates e lares, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 32 (1961), pp. 81-
167 onorando i defunti come fossero divinità (deorum vice mortuos), mentre i religiosi prestavano culto pubblico agli antichi dèi (antiquos deos). Infine, sostenendo che anche questi ultimi, sarebbero passati al rango divino soltanto dopo la morte, sentenzia che gli adoratori di molti dèi sono superstiziosi, mentre quelli che pregano l’unico Dio sono religiosi.
Al di là dell’intento strumentale con cui Lattanzio utilizza l’argomento degli esseri umani morti e poi divinizzati87, in sostanza alla base del suo ragionamento vi è l’opposizione dell’uno ai molti, come oggetto di culto: ecco in cosa consiste l’errore di quelli che non sono cristiani.
A tutto ciò, bisogna ancora aggiungere che non basta riflettere sulle implicazioni concettuali e teologiche dell’opposizione religio/superstitio per comprendere a pieno il contesto culturale in cui si colloca la Collatio, e in particolare il discorso di Dindimo sulla presunta religione dei Macedoni.
È necessario anche considerare alcuni fatti relativi al quadro storico, nel rintracciare gli esiti di ciò che realmente produsse la riprovazione dei culti politeistici, sostenuta dalla teologia cristiana.
Già Costantino aveva agito, a più riprese, in maniera tale da evitare che si continuasse a praticare i riti pagani88. Le fonti letterarie riportano gli episodi di distruzione di alcuni templi89, mentre alcune costituzioni del 319-321 documentano la condanna a morte degli haruspices e di coloro che esercitavano la divinazione in privato90. In questi atti legislativi, rientra anche il divieto dei sacrifici domestici, in occasione della caduta di fulmini su edifici pubblici91.
87 Lattanzio, oltre ad impiegare le argomentazioni dei filosofi greci contro la concezione degli dèi del
politeismo classico, aveva in mente anche un’idea specifica della religione romana, per la quale ogni individuo, dopo la morte, entra a far parte di una collettività divina: dii Manes. A questa espressione si aggiungeva il nome del morto, come si vede soprattutto nelle iscrizioni funerarie. Sui Manes si veda E. Marbach, in RE s. v. Manes, vol. XIV/1, 1050-1060. Inoltre G. Piccaluga, Irruzione di un passato
irreversibile nella realtà cultuale romana, cit., pp. 47-62; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica: dal calendario festivo all’ordine cosmico, Il saggiatore, Milano 1988, p. 167; F. Prescendi, s. v. Manes
in Der neue Pauly, vol. VIII, 804.
88 I dati e il commento ai fatti storici qui esposti si leggono in A. Saggioro, Il paganesimo. Identità e
alterità come paradigmi dell’eta costantiniana, in Costantino I. Enciclopedia Costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto editto di Milano. Vol. I, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, Roma 2013, pp. 679-697.
89 Saggioro, Il paganesimo, cit., p. 685. 90 Saggioro, Il paganesimo, cit., p. 686.
168 Tra i vari provvedimenti, possiamo ricordarne due che assumono un significato particolarmente rilevante ai fini del nostro discorso, in quanto non solo viene affrontata la questione della prassi sacrificale, ma viene utilizzato il termine superstitio con un’accezione del tutto negativa, da riferire alla religione degli “altri”, cioè dei non cristiani.
Nel 323 Costantino aveva emanato una costituzione, riportata nel Codex Theodosianus, con cui impediva che i cristiani fossero costretti a celebrare i sacrifici previsti per l’avvento del nuovo anno92. In riferimento a tale ricorrenza, nel testo pervenutoci si parla di “rito di una superstizione estranea” (ritum alienae superstitionis).
Il rifiuto dell’offerta di vittime immolate è testimoniato anche dal rescritto di Hispellum, che documenta come tra il 335 e il 337 lo stesso imperatore avesse approvato la denominazione di quella località come Flavia Costante, e la costruzione di un tempio dedicato alla gens Flavia, secondo la tradizione del culto imperiale, a patto che non vi si celebrassero “le frodi della contagiosa superstizione” (contagiose svperstitionis fravdibus), ovvero i sacrifici tradizionali pagani93. Anche in questo caso, si vede come l’assegnazione della superstitio ad una sfera di pericolo e di inganno, ne sottolinei la valenza altamente critica.
Un altro dato significativo da prendere in considerazione è la legge del 341 emanata da Costanzo II: cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania, ovvero “finisca la superstizione, sia abolita la follia dei sacrifici”94. In questa formula
92 Cod. Theod. XVI 2, 5: Quoniam comperimus quosdam ecclesiasticos et ceteros catholicae sectae
servientes a diversarum religionum hominibus ad lustrorum sacrificia celebranda compelli, hac sanctione sancimus, si quis ad ritum alienae superstitionis cogendos esse crediderit eos, qui sanctissimae legi serviunt, si condicio patiatur, publice fustibus verberetur, si vero honoris ratio talem ab eo repellat iniuriam, condemnationem sustineat damni gravissimi, quod rebus publicis vidicabitur.
Cfr. Saggioro, Il paganesimo, cit., p. 684.
93 CIL XI 5265 = ILS 705: Nam civi / tati Hispello aeternvm vocabvlvm nomenq / venerandvm de nostra
noncvpatione conces / simvs, scilicet vt in postervm praedicta vrbs Flavia Constans voceretur; in cvivs gremio / aedem qvoque gentis Flaviae, hoc est nostrae gen / tis, vt desideratis, magnifico opere perfici / volvmus, ea observatione praescripta, ne ae / dis nostro nomini dedicata cuivsqvam con / tagiose svperstitionis fravdibus pollvatvr. Cfr., Saggioro, Il paganesimo, cit., p. 685.
94 Cod. Theod. XVI 10, 2: [Imp. Constantius A. ad Madalianum agentem vicem P(raefectorum)
P(raetori)o]. Cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Nam quicumque contra legem divi principis parentis nostri et hanc nostrae mansuetudinis iussionem ausus fuerit sacrificia celebrare, conpetens in eum vindicta et praesens sententia exeratur. [Acce(pta) Marcellino et Probino Conss.].
“[L’imperatore Costanzo A(ugusto) a Madaliano facente le veci dei Prefetti del Pretorio] Cessi la superstizione, sia abolita la follia dei sacrifici. Infatti chiunque abbia osato celebrare sacrifici contro la legge del divino principe nostro genitore e contro questo ordine della nostra clemenza, sia decisa contro di lui la punizione adatta e sia emanata la presente sentenza [Accolta da Marcellino e Probino consoli]”
169 non solo viene proibita tale prassi rituale, ma viene utilizzato il termine superstitio nel senso di “religione dei pagani”95, o meglio di coloro che non sono cristiani e praticano un culto diverso. Leggendo il testo di tale norma, risalta chiaramente la stretta connessione tra ciò che ormai la cultura dell’impero costantiniano riteneva “superstizione” e l’uso rituale di immolare vittime.
In seguito, lo stesso imperatore promulgò una serie di altre costituzioni, volte all’abolizione definitiva delle cerimonie e delle tradizioni pagane: dalla chiusura dei templi alla condanna a morte di coloro che compivano sacrifici o veneravano statue96.
Tutto questo testimonia come in pieno IV secolo – e la faccenda durerà ancora per molto, come testimonia il codice di Giustiniano – il cristianesimo vivesse in una costante relazione dialettica con le religioni tradizionali, fatta di alterni contrasti e sovrapposizioni97.
Alla luce di questo complesso quadro culturale, ideologico e storico-politico, che mostra quanto la polemica cristiana contro il vecchio assetto religioso fosse molto sentita e condivisa non solo dai dottori della Chiesa, ma anche dalle più alte cariche dell’impero, va inquadrata la composizione della Collatio, nella quale Dindimo polemizza contro il sistema politeistico, le sue manifestazioni di culto e le sue credenze.