Nella prima risposta ad Alessandro, Dindimo afferma che i Bramani non uccidono animali innocenti da offrire agli dèi6; la condanna, poi, si ripete altre volte nelle sue lettere7. Non c’è dubbio che queste parole contengano un duro messaggio di riprovazione delle abitudini dei Macedoni, ma in particolare la sua ottica è rivolta alla cultura greca, rappresentata da Alessandro.
A tal riguardo una serie di osservazioni preliminari, basate sull’analisi della tradizione classica, è utile a comprendere la portata della condanna espressa dal Bramano nei confronti della pratica sacrificale.
2 Sulle tracce del romanzo e della novella, cit., pp. 69-70. 3 Morelli, op. cit., pp. 71-71.
4 Liénard, La Collatio Alexandri et Dindimi, cit., aveva individuato elementi comuni tra la Collatio e
l’Apologeticum di Tertulliano (pp. 8224-8225) e pensava che la polemica esposta da Dindimo non
mostrasse nulla di originale rispetto ai testi di quell’apologeta e di Minucio Felice (pp. pp. 8229-82211). 5 Filliozat, Échos poetiques d’un brahmane, cit., pp. 43-44, aveva indicato i precisi richiami della
Collatio ai passi delle opere di Tertulliano.
6 Collatio 2, 16: In honorem divinum pecudes innocuas non mactamus. 7 Collatio 2, 17; 2, 19; 4, 2.
142 Ricordiamo che in Grecia la norma rituale era costituita dalla thysia, durante la quale si immolavano vittime bianche agli dèi. Il consumo di parte delle carni spettava agli uomini, mentre agli immortali era destinato il fumo emesso dalle viscere e dal grasso degli animali sacrificati8. Le divinità evocate a condividere il rapporto di commensalità davano la garanzia del funzionamento del rito9.
Il racconto mitico di fondazione di questa istituzione si legge nella Theogonia di Esiodo ai vv. 535-558, dove troviamo l’episodio di Mecone, nel quale Prometheus, incaricato da Zeus, divide la vittima sacrificale in due parti, una costituita dalle carni e dalle interiora, nascoste in uno strato di pelle, l’altra dalle ossa, coperte di grasso; il dio, chiamato a scegliere, rimane ingannato, e da quel momento in poi “la stirpe degli uomini brucia agli immortali le ossa bianche sugli altari odorosi”10. A partire dal piano mitico, la prassi rituale appare già ben delineata e rimane invariata nell’attualità storica11.
La questione, che pone l’autore della Collatio, è che tali offerte rituali vadano respinte. Il valore ideologico di una simile affermazione si chiarisce bene, se si riflette su due fatti.
Innanzi tutto, occorre considerare che il rifiuto del sacrificio cruento era un divieto già osservato, all’interno della società greca, da alcune comunità di mistici come gli orfici e i pitagorici12. L’osservazione di questa norma, che rientrava nel
8 Sul sacrificio in Grecia costituisce un classico lo studio di S. Eitrem, Opferritus und Voropfer der
Griechen und Römer, Jakob Dybwad, Kristiania 1915. Per il rito della thysia si veda A. Brelich, Gli eroi greci, 1ª ed., Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1958, pp. 9, 16-17. Inoltre M. Detienne - J. P.
Vernant, La cuisine du sacrifice en pays grec, Gallimard, Paris 1979 [trad. it. La cucina del sacrificio
in terra greca, Bollati Boringhieri, Torino 1982]. Infine si legga anche J. Bremmer, Greek Religion,
Oxford University Press, Oxford 1994, pp. 39-41.
9 Si legga W. Burkert, Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, W. Kohlhammer,
Stuttgart-Berlin-Köln 1977, in particolare le pp. 147-152 della trad. it., La religione greca di epoca
arcaica e classica, 2ª ed., Jaca Book, Milano 2003.
10 Hes. Th. 555-556: ἐκ τοῦ δ’ ἀθανάτοισιν ἐπὶ χθονὶ φῦλ’ ἀνθρώπων καίουσ' ὀστέα λευκὰ θυηέντων
ἐπὶ βωμῶν.
11 Sul significato del sacrificio greco e delle sue implicazioni culturali, si leggano le pp. 73-77 di D.
Sabbatucci, Saggio sul misticismo greco, 2a ed., Edizioni dell’Ateneo, Roma 1979. Sulla tradizione del
mito prometeico della divisione delle parti della vittima, in particolare nel contesto romani, si legga F. Prescendi, Prométhée fonde-t-il le sacrifice grec? En relisant Jean Rudhart, in C. Walde - U. Dill (eds.),
Antike Mythen: Medien, Transformationen und Konstructionen, De Gruyter, Berlin-New York 2009,
pp. 81-95. Inoltre della stessa autrice è utile in generale sul contesto rituale Sacrificier en Grèce et à
Rome, in P. Borgeaud - F. Prescendi (éds.), Religions antiques. Une introduction comparée. Egypte, Grèce, Proche-Orient, Rome, Labor et Fides, Genève 2008, pp. 31- 52.
12 Sul rigetto della dieta carnea e sulla negazione del rito sacrificale da parte degli orfici si vedano le
osservazioni di D. Sabbatucci, Saggio sul misticismo greco, cit., pp. 74-76 e J. W. Sedlar, India and the
143 divieto più generale di consumare carne, costituiva un atto simbolico di allontanamento dal culto tradizionale13.
In secondo luogo, va notato che nell’ambito dell’apologetica cristiana dei primi secoli, i polemisti avevano riutilizzato nei loro testi – in maniera strumentale – idee e temi che comparivano negli scritti dei filosofi greci, come argomenti a sostegno della critica al politeismo14, tra i quali naturalmente anche la pratica del sacrificio cruento.
Non stupisce pertanto che, essendo cristiano il compilatore della Collatio15 come pensano fondatamente alcuni filologi ed esegeti16, sia il tono della condanna, sia gli argomenti esposti da Dindimo, coincidano con quelli presenti negli scritti di vari apologisti del II e III secolo17.
Tra i Padri greci Atenagora, nella sua Legatio pro Christianis, confuta l’accusa rivolta ai cristiani di non offrire sacrifici agli dèi, sostenendo che “Il creatore e padre di questo universo non ha bisogno né di sangue, né di odore di carni rosolate, né della fragranza dei fiori e degli aromi, mentre egli è la perfetta fragranza che di nulla necessita in sé né fuori di sé”18.
Da parte sua Tertulliano nell’Apologeticum, a proposito dei riti dei Romani, rivolge loro la critica di immolare animali, che definisce “macilenti, consunti e scabbiosi”19, e di separare le parti inutilizzabili, come le teste e le unghie, da quelle grasse e sane.
Il testo più significativo, che presenta contenuti analoghi alla Collatio, è di certo l’Adversus Nationes di Arnobio, di cui ampia parte è dedicata alla polemica
13 Sabbatucci, op. cit., pp. 77-78. Sulla stessa linea era anche M. Detienne, Pratiche culinarie e spirito
di sacrificio, in M. Detienne-J. P. Vernant, La cucina del sacrificio, cit., pp. 14-16.
14 Cfr. G. Filoramo, Che cos’è la religione, Einaudi, Torino 2004, pp. 31-37.
15 Per l’autore della Collatio si rinvia al paragrafo 1.2.2. Sull’ipotesi che si tratti di un cristiano si ricordi
quanto affermavano Morelli, Sulle tracce del romanzo e della novella, cit., e Liénard, La Collatio
Alexandri et Dindimi, cit.
16 Tra questi vanno ricordati C. Morelli ed E. Liénard: cfr. n.1.
17 Sugli apologisti cristiani del II secolo che polemizzano contro il sacrificio cfr. M.-Z. Petropoulou,
Animal sacrifice in Ancient Greek Religion, Judaism, and Christianity, 100 BC to AD 200, Oxford
University Press, Oxford 2008, pp. 246-251.
18 Athenag. Leg.13, 2: Ὁ τοῦδε τοῦ παντὸς δημιουργὸς καὶ πατὴρ οὐ δεῖται αἵματος οὐδὲ κνίσης οὐδὲ
τῆς ἀπὸ τῶν ἀνθῶν καὶ θυμιαμάτων εὐωδίας, αὐτὸς ὢν ἡ τελεία εὐωδία, ἀνενδεὴς καὶ ἀπροσδεής.
19 Tert. Apol. 14, 1: Non dico quales sitis in sacrificando, cum enecta et tabidosa et scabiosa quaeque
mactatis, cum de opimis et integris supervacua quaeque truncatis, capitula et ungulas, quae domi quoque pueris vel canibus destinassses, cum de decima Herculis nec tertiam partem in aram eius imponitis. Tertulliano sapeva certamente che l’uso sacrificale dei Romani prevedeva l’uccisione di
vittime selezionate e perfettamente integre in ogni loro parte. Cfr. G. Dumézil, La religion romaine
archaïque, avec un'appendice sur la religion des Étrusques, Parigi, Payot, 1964, si veda la trad. it. La religione romana arcaica (2ª ed. it), Rizzoli, Milano 2001, p. 478.
144 contro l’uccisione di vittime sacrificali. Il retore africano20 contesta tale pratica, discutendone a lungo21, ma vi è un passo, in particolare, che presenta singolari coincidenze con gli argomenti della Collatio e che vale la pena di analizzare (VI 1):
In hac enim consuestis parte crimen nobis maximum impietatis adfigere, quod neque aedes sacras venerationis ad officia construamus, non deorum alicuius simulacrum constituamus aut formam, non altaria fabricemus, non aras, non caesorum sanguinem animantium demus, non tura neque fruges salsas, non denique vinum liquens paterarum effusionibus inferamus.
A questo riguardo voi ci rinfacciate di continuo, come massimo delitto di empietà, che non costruiamo edifici sacri per compiere i doveri di culto, che non innalziamo né statue né simulacri degli dèi, che non edifichiamo altari né are, che non offriamo il sangue di animali sgozzati, né incensi né mola salsa e, infine, che non compiamo versamenti di vino limpido dalle patere.
In questi termini Arnobio illustra quali siano le accuse rivolte ai cristiani. Nella sua esposizione, gli argomenti della polemica anticristiana sono fondati sull’assenza di tutto ciò che doveva costituire l’apparato funzionale alla religione politeista: le aedes sacrae, i simulacra, gli altaria, le arae, il sangue degli animali uccisi, gli incensi, la mola salsa, e infine le libagioni. La ricostruzione sintetica dell’impianto cultuale dà l’idea di quali fossero le sostanziali differenze nelle pratiche religiose tra coloro che continuavano a venerare gli dèi e coloro che invece si dedicavano all’adorazione del dio unico.
Nel libro settimo il polemista conduce una lunga requisitoria contro l’inutilità dei sacrifici. A suo avviso, gli esseri divini non ne avrebbero bisogno, perché nessun alimento può tenerli in vita (Nat. VII 3), e neppure potrebbero rallegrarsi per l’uccisione di vittime innocenti e per lo spargimento di sangue (Nat. VII 4). Più avanti, vengono elencate le azioni riprovevoli, che non renderebbero onore alle divinità (Nat. VII 15): lo sgozzamento degli animali, l’invito a berne il sangue, lo spargimento in
20 Per la biografia di Arnobio si legga B. Amata, Problemi di antropologia arnobiana, LAS, Roma
1984.
145 cielo di fumo, emesso dalla legna ardente, che provocherebbe l’offuscamento delle statue divine. Allo stesso modo, gli altari sarebbero soltanto crematoi di vittime infelici e costituirebbero roghi, innalzati per produrre miasmi22. Inoltre – aggiunge l’autore ironicamente – si potrebbero offrire loro animali di ogni specie, alludendo al fatto che di norma, solo alcuni potevano essere utilizzati come vittime (Nat. VII 16).
La sua polemica, infine, si appunta proprio sulla ragione per cui ogni dio debba ricevere una vittima diversa, secondo i propri riti (Nat. VII 18). A suo giudizio, dal momento che gli dèi hanno tutti una sola natura, un solo genere, una sola qualità, non sarebbe necessario scegliere uno specifico capo di bestiame23.
Le testimonianze prese in esame illustrano sufficientemente come la prassi sacrificale delle religioni classiche fosse duramente riprovata dall’impianto ideologico-dottrinario dei Padri della Chiesa.
Era soprattutto l’uccisione di animali che non poteva essere accettata dai teologi cristiani, perché nella loro dottrina l’unico sacrificio possibile doveva essere quello di Cristo24, rappresentato dall’offerta rituale di pane e di vino, come immagini simboliche del suo corpo e del suo sangue25.
22 Nat. VII 15: arae istae quas dicitis altariaque haec pulchra infelicissimi animalium generis ustrinae,
rogi sunt et busticeta in opus structa foedissimum atque in sedem fabricata faetorum. “codeste are di
cui parlate e codesti begli altari sono soltanto crematoi di infelicissimi animali, sono roghi e pire costruiti per scopi indegnissimi e innalzati per essere una fabbrica di miasmi” [Trad. B. Amata].
23 Nat. VII 18: Et quoniam nobis in manibus hostiarum sermo versatur, quae causa, quae ratio est, ut
cum dii inmortales - sint enim et per nos licet quicumque esse creduntur - sint unius sententiae vel unius debeant esse naturae, generis et qualitatis unius, non omnibus omnes hostiis sed quibusdam quidam sacrorum mulceantur e legibus? “E dal momento che siamo in tema di vittime, per quale motivo e per
quale ragione gli dèi immortali – e siano anche per noi quelli che comunemente sono creduti tali – se hanno un’unica consistenza, e se devono quindi avere una sola natura, un unico genere, una sola qualità, non sono placati tutti da tutte le specie di vittime, ma ognuno da una vittima diversa secondo proprie cerimonie?” [Trad. B. Amata].
24 Arnobio paragona la morte cruenta di Cristo a quella di alcuni esseri divini venerati dai Romani:
Liber, Aesculapius, Hercules, Attis, Romulus-Quirinus (Nat. I 41). Il sacrificio di Cristo viene assunto come modello paradigmatico, che si ripete sempre allo stesso modo, perpetuando un rituale che è fuori dal tempo quotidiano, e fuori dalla storia. Ecco perché in Or. Hom. in Gen. 8 si legge del sacrificio dell’ariete, immolato al posto di Isacco, che è figura di Cristo. Sulla riattualizzazione del sacrificio di Cristo, si legga pp. 76-78 di G. Stroumsa, La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose della tarda
antichità, Einaudi, Torino, 2006 [La fin du sacrifice. Les mutations religieuses de l’Antiquité tardive,
Odile Jacob, Paris 2005].
25 La simbologia è già in 1 Cor. 10, 16-17. Si veda quanto affermato in Cypr. Epist. 63, 2: Nec potest
videri sanguis ejus, quod redempti et vivificati sumus, esse in calice quando vinum desit calici, quo Christi sanguis ostenditur, qui Scripturarum omnium sacramento ac testimonio paedicetur. “Non si può
pensare che nel calice ci sia il suo sangue, da cui siamo stati redenti e vivificati, quando nel calice manca il vino, che rappresenta il sangue di Cristo, prefigurato dal sacramento e dalla testimonianza di tutte le Scritture”.
146 Al contrario, la violenza implicata dall’abbattimento delle vittime era utilizzata dagli Apologeti come argomento per sostenere la condanna di un culto erroneo26.
La stessa opinione dei polemisti cristiani emerge anche dal discorso di Dindimo. L’ambito culturale in cui si colloca la Collatio doveva essere il medesimo delle opere all’interno delle quali si dibatteva la questione dei riti tradizionali27. È facile ipotizzare che anche il compilatore della corrispondenza si fosse schierato dalla parte di coloro che li giudicavano inutili e dannosi.