Il mosaico fin qui ricostruito si arricchisce di un ulteriore tassello, allorché veniamo a sapere che i Bramani disprezzano le malattie e la morte.
253 La condanna del divieto di nozze e procreazione è espressa, ad esempio, da Clemente Alessandrino
in Strom. III 6, 45. Anche Epifanio di Salamina si era scagliato contro la posizione di Taziano che predicava l’enkrateia e riteneva il matrimonio una forma di corruzione o di prostituzione (Epiph. Haer. I 46 2, 1). Cfr. le osservazioni di G. Piccaluga, Il rischio della continenza, cit., pp. 486-487.
254 Già B. Berg aveva rilevato l’ispirazione encratita del testo di Palladio: Dandamis, cit., pp. 295-302.
Da notare che R. Stoneman, Who are the Brahmans?, cit., p. 504, sosteneva che l’enkrateia era una qualità dei Cinici, anche se non lo ha dimostrato. Sull’analogia circa l’astinenza dalla carne tra i Bramani e gli Encratiti si veda anche il paragrafo 2.6.
255 Clem. Alex. Strom. III 7, 60, 4: οὔτε δὲ οἱ Γυμνοσοφισταὶ οὔθ’ οἱ λεγόμενοι Σεμνοὶ γυναιξὶ χρῶνται·
παρὰ φύσιν γὰρ τοῦτο καὶ παράνομον δοκοῦσι, δι’ ἣν αἰτίαν σφᾶς αὐτοὺς ἁγνοὺς τηροῦσι, παρθενεύουσι δὲ καὶ αἱ Σεμναί.
256 Aug. Civ. XV 20: Et Indorum Gymnosophistae qui nudi perhibentur philosophari in solitudinibus
102 In primis consideriamo, ancora una volta, quanto riferisce Strabone, che riporta il racconto di Megastene (XV 1, 59=FGrHist 715 F 33):
νομίζειν γὰρ δὴ τὸν μὲν ἐνθάδε βίον ὡς ἂν ἀκμὴν κυομένων εἶναι, τὸν δὲ θάνατον γένεσιν εἰς τὸν ὄντως βίον καὶ τὸν εὐδαίμονα τοῖς φιλοσοφήσασι: διὸ τῇ ἀσκήσει πλείστῃ χρῆσθαι πρὸς τὸ ἑτοιμοθάνατον.
Credono che la vita terrena sia il momento più alto di chi è generato, e che la morte sia la nascita verso la vita vera e felice per chi esercita la saggezza; pertanto affrontare la morte preparati è la pratica più diffusa.
In un altro passo (XV 1, 65=FGrHist 134 F 17a), dove Strabone si rifà ad Onesicrito, leggiamo che:
Αἴσχιστον δ’ αὐτοῖς νομίζεσθαι νόσον σωματικήν· τὸν δ’ ὑπονοήσαντα καθ’ αὑτοῦ τοῦτο, ἐξάγειν ἑαυτὸν διὰ πυρὸς νήσαντα πυράν, ὑπαλειψάμενον δὲ καὶ καθίσαντα ἐπὶ τὴν πυρὰν ὑφάψαι κελεύειν, ἀκίνητον δὲ καίεσθαι.
Ciò per cui provano il maggior disprezzo sono le malattie del corpo: chi sospetta di averne contratto una, si toglie la vita col fuoco; dopo aver fatto innalzare una pira ed essersi unto di olio, si pone a sedere lì; poi, dato l’ordine di appiccarvi il fuoco, si lascia bruciare senza muoversi.
In questa prospettiva, per i Bramani la decisione di morire volontariamente viene connessa alla perdita dell’integrità fisica, che evidentemente deve rimanere intatta.
Nell’ambito dello stesso tema, va inquadrato il racconto dell’Anabasis di Arriano, in cui Dandami afferma che, una volta morto, si sarebbe liberato del corpo come di un compagno non adeguato257.
La morte volontaria tra le fiamme costituisce un topos ampiamente diffuso nella tradizione classica258, persistente anche nel mondo tardo antico e nel Medioevo.
257 Arr. An. VII 2, 4: ἀποθανόντα δὲ ἀπαλλαγήσεσθαι οὐκ ἐπιεικοῦς ξυνοίκου τοῦ σώματος.
258 Karttunen, India and the Hellenistic World, cit., pp. 64-65, sostiene che questo tipo di suicidio non
era la regola tra gli Indiani, ma non era certamente sconosciuto, era praticato in tempi antichi ed esistono riferimenti ad esso nei testi, come il Rāmāyana, o il Mahābhārata, ed altri.
103 Più di una volta, Luciano fa riferimento alla libera scelta dei Bramani circa la loro fine. In un passo del De morte Peregrini si legge che essi si avvicinano ad una catasta di legna e sopportano di essere abbrustoliti, poi ci salgono sopra, e infine si lasciano bruciare compostamente, in posizione supina259; altrove, viene riferito che salgono sulla pira dopo aver salutato il sole nascente260.
Gli scrittori latini261 ricordano che i “filosofi nudi” si pongono tra le fiamme, morendo senza neppure un gemito, e che da vivi salgono sul rogo262, dopo aver vissuto a lungo263.
A proposito del disprezzo per la vecchiaia e le malattie, la testimonianza più significativa è quella di Curzio Rufo, secondo il quale i sapienti indiani – “razza selvaggia e spaventosa” – quando hanno un’età avanzata o la loro salute è compromessa, nell’intento di prevenire il giorno fatale, ordinerebbero di essere cremati vivi; essi infatti crederebbero che aspettare la morte sia una vergogna, che i corpi consunti dalla vecchiaia non debbano essere onorati, e che il fuoco venga contaminato dal contatto con i defunti264.
Va segnalato, poi, che le fonti greche e latine dedicano un ampio spazio alla storia del suicidio sulla pira del bramano Calano265. Costui, avendo incontrato Alessandro a Taxila, si sarebbe unito al suo seguito nel viaggio di ritorno, ma ammalatosi in Persia266, avrebbe deciso di morire volontariamente tra le fiamme in maniera spettacolare, seguendo il costume dei saggi indiani267. I racconti relativi a questo evento mettono bene in luce la prospettiva del mondo classico, che prendeva le
259 Luc. Peregr. 25: ἀλλ’ ἐπειδὰν νήσωσι, πλησίον παραστάντες ἀκίνητοι ἀνέχονται παροπτώμενοι, εἶτ᾽
ἐπιβάντες κατὰ σχῆμα καίονται, οὐδ᾽ ὅσον ὀλίγον ἐντρέψαντες τῆς κατακλίσεως.
260 Luc. Peregr. 39: διεδέδοτο ὡς πρὸς ἀνίσχοντα τὸν ἥλιον ἀσπασάμενος, ὥσπερ ἀμέλει καὶ τοὺς
Βραχμᾶνάς φασι ποιεῖν, ἐπιβήσεται τῆς πυρᾶς.
261 Cic. Tusc. V 77: cumque ad flammam se adplicaverunt, sine gemitu aduruntur. Val. Max. III 3, 6
(ext.): modo flammis sine ullo gemitu obicientes.
262 Lucan. III 240-241: Quique suas struxere pyras, vivique calentes / conscendere rogos.
263 Adnot. super Luc. 3, 240: Bragmannos dicit, Indiae populos barbaros, qui sponte se cremant igni,
cum his visum fuerit, quod diu vixerint.
264 Curt. VIII 9, 31-32: Unum agreste et horridum genus est, quod sapientes vocant. Apud hos occupare
fati diem pulchrum et vivos se cremari iubent, quibus aut segnis aetas aut incommoda valitudo est. Expectatam mortem pro dedecore vitae habent nec ullus corporibus, quae senectus solvit, honos redditur: inquinari putant ignem, nisi qui spirantes recipit. Si veda anche Mela III 55, che riferisce lo
stesso uso genericamente agli Indiani.
265 Le fonti sull’episodio sono numerose: D. S. XVII 107, 2-5; Str. XV 1, 68=FGrHist 715 F 34a; Plu.
Alex. 70; Arr. An. VII 3, 1-6; Ael. VH II 41; V 6; Cic. Tusc. II 22, 52. Stoneman, The Greek experience of India, cit., pp. 302-305, ha dedicato spazio alla ricostruzione del suicidio di Calano.
266 A Pasargadae (Str. XV 1, 68); oppure a Babilonia (Ael. VH V 6). 267 Plu. Alex. 69; Arr. An. VII 3, 3.
104 distanze da ciò che le era estraneo, guardando all’episodio con meraviglia e sconcerto268.
Un motivo simile è quello del suicidio delle vedove sulla pira dei mariti defunti. Diversi autori riferiscono questa consuetudine, in generale, alle donne indiane269. Ma è significativo che alcuni testi si soffermino sulla ragione di tale nomos: esso sarebbe stato istituito per evitare la pratica assai diffusa che le donne, sposate in giovane età, innamoratesi di altri uomini, avvelenassero i propri mariti270.
Anche in questo caso, attraverso i dettagli della narrazione, si rivela l’interesse dei Greci per un uso che appariva estremamente differente rispetto ai modelli della propria cultura271. Pertanto esso da una parte risultava incomprensibile, ma dall’altra poteva essere persino degno di lode e di ammirazione. La riprova del primo atteggiamento ci viene da un commento di Cicerone che, a proposito delle usanze indiane dei saggi nudi che si suicidano tra le fiamme e delle mogli che fanno a gara per morire sul rogo con il marito defunto, esclama: “Quale paese barbaro è più incolto e selvaggio dell’India?”272. Nell’altro senso, invece, abbiamo la testimonianza di Properzio, che elogia quella legge orientale che porta le donne ad immolarsi sul letto funebre del coniuge273.
Lo stesso topos compare anche in ambiente giudaico-ellenistico, dove viene riferito più specificamente ai gimnosofisti/Bramani. Lo si legge in un passo di Filone
268 Basti pensare ai commenti degli scrittori sulla vicenda. Plutarco sottolinea che Calano aveva seguito
il nomos tradizionale dei sapienti della sua terra (Alex. 69). Anche Arriano precisa che, prima di morire, egli era stato incoronato secondo il nomos indiano e che cantava nella sua lingua. Eliano racconta che Alessandro, tra gli agoni in suo onore, indisse una gara per bevitori di vino, secondo l’uso indiano (VH II 41). Cicerone definisce il personaggio indoctus ac barbarus (Tusc. II 22, 52).
269 D. S. XIX 33; Str. XV 1, 30; 1, 62; Ael. VH VI 18; Stob. IV 55, 18; Cic. Tusc. V 78; Prop. III 13,
15-22; Sol. 52, 32.
270 D. S. XIX 33, 2-4; XVII 91, 3; Str. XV 1, 30.
271 Karttunen, India and the Hellenistic World, cit., p. 67, ha rilevato che la maggioranza delle
testimonianze indiane di tale pratica sono piuttosto tarde, a partire dal primo millennio dopo Cristo. Stoneman, The Greek Experience of India, cit., pp. 307-308, precisa che i documenti storici indiani non presentano chiari riferimenti all’autoimmolazione delle vedove prima del periodo Gupta (III-VI secolo d. C.), ma essa è ricordata nel Mahābhārata.
272 Tusc. V 78: Quae barbaria India vastior et agrestior?
273 Prop. III 13, 15-18: Felix Eois lex funeris una maritis, / quos Aurora suis rubra colorat equis. /
105 di Alessandria274, e si rinviene poi in un racconto di Flavio Giuseppe275 – quasi perfettamente corrispondente al capitolo di Porfirio sui Bramani276 – dove viene riferito che i filosofi indiani non sopportando la vita, vorrebbero liberare l’anima dal corpo; perciò, presi dal desiderio di immortalità, annuncerebbero la propria dipartita, ricevendo molti complimenti e persino lettere da consegnare ai familiari defunti; allora, saliti sulla pira, morirebbero colmi di elogi, accompagnati dai loro cari, che li reputerebbero beati per aver superato il limite della morte. In questo contesto, si nota come venga fortemente accentuata la proiezione di questi personaggi verso una dimensione ultramondana, nella quale essi possono fungere da tramite tra i vivi e i morti. Ancora una volta, emerge l’estremo livello di spiritualizzazione cui essi sono trasferiti277.
Quanto agli scrittori cristiani, negli Stromata di Clemente Alessandrino troviamo più di un rimando alla morte dei gimnosofisti sul rogo, della quale essi riderebbero278. È significativo, poi, che in un passo compaia l’espressione θανάτου καταφρονεῖν (“disprezzare la morte”)279, identica a quella utilizzata da Diogene
274 Ph. Abr. 33, 182:Ἰνδῶν δὲ τοὺςγυμνοσοφιστὰς ἄχρι νῦν, ἐπειδὰν ἄρχηται καταλαβάνειν ἡ μακρὰ καὶ
ἀνίατος νόσος, τὸ γῆρας, πρὶν βεβαίως κρατηθῆναι, πυρὰν νήσαντας ἑαυτοὺς ἐμπιπράναι, δυναμένους ἔτι πρὸς πολυετίαν ἴσως ἀντισχεῖν· ἤδη δὲ καὶ γύναια προαποθανόντων ἀνδρῶν ὁρμῆσαι γεγηθότα πρὸς τὴν αὐτὴν πυράν καὶ ζῶντα τοῖς ἐκείνων σώμασιν ὑπομεῖναι συγκαταφλεχθῆναι.
275 Jos. Bell. Jud. VII 351-356: ἐκεῖνοί τε γὰρ ὄντες ἄνδρες ἀγαθοὶ τὸν μὲν τοῦ ζῆν χρόνον ὥσπερ
ἀναγκαίαν τινὰ τῆι φύσει λειτουργίαν ἀκουσίως ὑπομένουσι, σπεύδουσι δὲ τὰς ψυχὰς ἀπολῦσαι τῶν σωμάτων, καὶ μηδενὸς αὐτοὺς ἐπείγοντος κακοῦ μηδ’ ἐξελαύνοντος πόθωι τῆς ἀθανάτου διαίτης προλέγουσι μὲν τοῖς ἄλλοις ὅτι μέλλουσιν ἀπιέναι, καὶ ἔστιν ὁ κωλύσων οὐδείς, ἀλλὰ πάντες αὐτοὺς εὐδαιμονίζοντες πρὸς τοὺς οἰκείους ἕκαστοι διδόασιν ἐπιστολάς· οὕτως βεβαίαν καὶ ἀληθεστάτην ταῖς ψυχαῖς τὴν μετ' ἀλλήλων εἶναι δίαιταν πεπιστεύκασιν. οἱ δ’ ἐπειδὰν ἐπακούσωσι τῶν ἐντεταλμένων αὐτοῖς, πυρὶ τὸ σῶμα παραδόντες, ὅπως δὴ καὶ καθαρωτάτην ἀποκρίνωσι τοῦ σώματος τὴν ψυχήν, ὑμνούμενοι τελευτῶσιν· ῥᾶιον γὰρ ἐκείνους εἰς τὸν θάνατον οἱ φίλτατοι προπέμπουσιν ἢ τῶν ἄλλων ἀνθρώπων ἕκαστοι τοὺς πολίτας εἰς μηκίστην ἀποδημίαν, καὶ σφᾶς μὲν αὐτοὺς δακρύουσιν, ἐκείνους δὲ μακαρίζουσιν ἤδη τὴν ἀθάνατον τάξιν ἀπολαμβάνοντας. 276 Porph. Abst. IV 18, 1-3: Αὐτοὶ δὲ οὕτω πρὸς θάνατον διάκεινται, ὡς τὸν μὲν τοῦ ζῆν χρόνον ὥσπερ ἀναγκαίαν τινὰ τῇ φύσει λειτουργίαν ἀκουσίως ὑπομένειν, σπεύδειν δὲ τὰς ψυχὰς ἀπολῦσαι τῶν σωμάτων. Καὶ πολλάκις, ὅταν εὖ ἔχειν σκήψωνται, μηδενὸς αὐτοὺς ἐπείγοντος κακοῦ {μηδὲ ἐξελαύνοντος} ἐξίασι τοῦ βίου, προειπόντες μέντοι τοῖς ἄλλοις· καὶ ἔστιν οὐδεὶς ὁ κωλύσων, ἀλλὰ πάντες αὐτοὺς εὐδαιμονίζοντες πρὸς τοὺς οἰκείους τῶν τεθνηκότων ἐπισκήπτουσί τινα. Οὕτως βεβαίαν καὶ ἀληθεστάτην αὐτοί τε καὶ οἱ πολλοὶ ταῖς ψυχαῖς τὴν μετ´ ἀλλήλων εἶναι δίαιταν πεπιστεύκασιν. Οἳ δ´ ἐπειδὰν ὑπακούσωσι τῶν ἐντεταλμένων αὐτοῖς, πυρὶ τὸ σῶμα παραδόντες, ὅπως δὴ καθαρωτάτην ἀποκρίνωσι τοῦ σώματος τὴν ψυχήν, ὑμνούμενοι τελευτῶσιν· ῥᾷον γὰρ ἐκείνους εἰς τὸν θάνατον οἱ φίλτατοι ἀποπέμπουσιν ἢ τῶν ἄλλων ἀνθρώπων ἕκαστοι τοὺς πολίτας εἰς μηκίστας ἀποδημίας. Καὶ σφᾶς μὲν αὐτοὺς δακρύουσιν ἐν τῷ ζῆν διαμένοντας, ἐκείνους δὲ μακαρίζουσιν τὴν ἀθάνατον λῆξιν ἀπολαμβάνοντας.
277 Si vedano a questo proposito anche le osservazioni su passo di Philostr. VA III 15 nel paragrafo 2.4. 278 Strom. IV 4, 17, 3: καθάπερ καὶ οἱ τῶν Ἰνδῶν γυμνοσοφισταὶ ματαίῳ πυρί; Strom. IV 7, 50, 1: πῦρ
ἀνθρώποις μέγισθον κολαστήριον· τούτου ἡμεῖς καταφρονοῦμεν.
106 Laerzio280 e Ippolito281. La coincidenza non sembra del tutto casuale, ma costituisce la conferma del fatto che il topos della morte volontaria dei sapienti indiani si era ormai diffuso trasversalmente dall’ambiente greco a quello cristiano.
Infine, bisogna rilevare che ancora in epoca medievale questo motivo viene attestato da uno scolio di Eustazio all’Iliade282.
***
Passando al testo della Collatio, troviamo annotazioni interessanti nella seconda lettera. I Bramani non conoscerebbero nessun genere di malattie, ignorandone addirittura il nome, ma godrebbero di una salute perfetta; non utilizzerebbero erbe per sanare i lorpi corpi, né cercherebbero le cure, poiché i morbi proverrebbero solo dall’esterno283. Più avanti, si legge che essi non sarebbero colpiti da epidemie e non praticherebbero la medicina, poiché il loro rimedio starebbe nella parsimonia, sia come cura, sia come prevenzione284.
Il fatto che i Bramani mostrino una condizione fisica esemplare e siano esenti da qualunque malanno, tanto da non sapere cosa sia l’arte medica285, costituisce una costante in tutte le versioni successive della Collatio286. A ciò si aggiungano i particolari riportati dalla Collatio II e dall’Historia de preliis: costoro non soffrono a causa di una morte improvvisa, poiché non contaminano l’aria con azioni sordide, da
280 D. L. I 6: Τοὺς γοῦν γυμνοσοφιστὰς καὶ θανάτου καταφρονεῖν φησι Κλείταρχος ἐν τῇ δωδεκάτῃ. 281 Hipp. Haer. I 24,3: οὗτοι θανάτου καταφρονοῦσι.
282 Eust. Hom. Il. A 53, 43 p. 38 (ed. Stallbaum): διὸ καὶ οἱ γυμνοσοφισταὶ πυρίκαυστοι γινόμενοι
ἀπετίθεντο τὴν ζωὴν, ὡς καὶ ὁ τοῦ Ἀλεξάνδρου Κάλανος. Anche qui vi è il ricordo della morte di Calano.
283 Collatio I 2, 2: Hinc est, quod nulla genera morborum numeramus et nomina, sed diuturnis gaudiis
salutis intemeratae defruimur. Nullus itaque apud nos sanandis corporibus usus herbarum est, nec in alienas pernicies auxilium petimus <...> constituti.
284 Collatio I 2, 11: Pestilentiam Bragmani non patimur […] Medicinae remedium nobis parsimonia
est, quae non solum illapsos potest curare languores, sed etiam procurare, ne veniant.
285 Collatio II, p. 11 (ed. Pfister): Nullam medicinam nobis facimus, nullum adiutorium querimus pro
sanitate nostrorum corporum.
286 Historia de preliis 99, p. 222 nell’ediz. Zingerle, cit.: Dum vivimus, sanitatem semper habemus.
Nullam medicinam nobis facimus, nullum adiutoriurn querimus pro sanitate corporum nostrorum. Cfr. Historia Alexandri Magni (Historia de preliis). Rezension J1 (ed. Hilka-Steffens), cit., 99, p. 182: Proinde sumus sine aliquo egritudine: sed dum vivimus, sanitatem semper habemus. Nullam medicinam nobis facimus, nullum adiutorium querimus pro sanitate nostrorum corporum. Le stesse parole in Historia Alexandri Magni (Historia de preliis). Rezension J2 (ed. Hilka), teil 2, cit., 99, p.78. Inoltre Die Historia de preliis Alexandri Magni. Rezension J 3 (ed. Steffens), cit., p. 132: Ideoque absque morbo sumus, et dum vivimus, semper fruimur corporum sanitate.
107 cui possono derivare epidemie287. La condizione esistenziale dei saggi indiani sembrerebbe così ottimale, poiché neppure vengono colpiti da imprevisti contagi. Tale ulteriore caratteristica, che li vuole invulnerabili, contribuisce a restituirci un’icona di eccezionalità, che non poteva corrispondere ai parametri di normalità, in cui invece si collocavano coloro che li descrivevano.
Ma non basta. Un’altra anomalia riguarda la durata della loro vita, che risulterebbe uguale per tutti: essi sanno esattamente quando devono morire.
Da quanto leggiamo nella Collatio I e nella Collatio II la fine arriva per vecchiaia e i genitori non sopravvivono ai figli288.
Secondo il racconto dell’Historia de preliis, la loro esistenza raggiunge sempre, per tutti, lo stesso termine, perché la morte arriva, per ciascuno, secondo l’ordine di successione delle nascite, sicché nessuno può vivere più di un altro289.
Con quest’ultimo dato la loro caratterizzazione raggiunge un tale livello di atipicità, che essi possono addirittura programmare e controllare il tempo della loro vita.
***
A proposito dell’indifferenza dei Bramani nei confronti della morte, occorre considerare un ultimo elemento significativo, quello delle sepolture.
Si tratta di alcune notizie riferite dalla Collatio e dalle successive redazioni290. Nella seconda lettera Dindimo, polemicamente, sostiene che: a) i Bramani – come si è
287 Collatio II, p. 13 (ed. Pfister): Nos enim Bragmani subitam mortem non patimur, quia per sordida
facta ipsum aêrem non corrumpimus, unde pestilentia venire solet. Historia de preliis 99, p. 224, ed.
Zingerle: Subitam mortem non patimur, quia per sordida facta ipsum aerem non corrumpimus. La stessa espressione si rinviene nelle edizioni delle recensioni J1, J2, J3.
288 Collatio I 2, 8: Mortem non patimur, nisi quam aetas affecta portaverit. Nemo denique parens filii
comitatur exsequias. Cfr. Collatio II p. 13 (ed. Pfister): Mortem non patimur, nisi legitima aetate, quia omnes equaliter mori novimus.
289 Historia de preliis 99, p. 222 (ed. Zingerle): Uno termino mortis vita nostra finitur, quia non vivet
plus unus de altero, sed secundum ordinem nativitatis uniuscuiusque terminus mortis sue succedit.La
stessa frase anche in Historia Alexandri Magni (Historia de preliis). Rezension J1 (ed. Hilka-Steffens),
cit., 99, p. 182 e in Rezension J2 (ed. Hilka), teil 2, cit., 99, p. 78. Qualche variante nella recensione J3,
Die Historia de preliis Alexandri Magni, cit., 99, p. 132: Uno termino mortis vita nostra finitur, quia plus unus altero non vivit, set secundum ordinem nativitatis cuiuslibet mortis terminus supervenit.
290 Collatio II, p. 13 (ed. Pfister): Nostra sepulchra non ornamus, nec in vasis gemmatis cineres filiorum
nostrorum reponimus.Quid enim peius esse potest, quam ossa, quae terra recipere debet? Vos ea incenditis et non dimittitis, ut in sinu suo recipiat terra, quos genuit, quando miseri hominis delectabilem sepulturam tollitis. Cfr. Hist. Alex. Magni (Hist. de preliis). R. J1, p. 190 (ed. Hilka-
108 visto – non costruiscono sepolcri, né utilizzano preziose urne cinerarie; b) non c’è nulla di più misero delle ossa che vengono bruciate; c) Alessandro e i suoi non permettono che la terra accolga nel suo grembo i resti di coloro che generò, tolgliendo ai miseri la possibilità di una sepoltura felice291.
Stando a queste ultime affermazioni, i saggi indiani non solo non seguirebbero le pratiche funerarie in uso presso i Greci e i Romani, ma addirittura non si preoccuperebbero affatto di seppellire i loro morti. La loro consuetudine, come abbiamo già osservato292, sarebbe quella di utilizzare ricoveri naturali, che fungano anche da sepolcri dopo la morte.
Nel quadro complessivo che si è delineato, ben si inserisce anche quest’ultimo dato che conferma il motivo dell’assoluta svalutazione, da parte dei Bramani, tanto della durata, quanto della fine della loro esistenza terrena, concepita come assolutamente inalterabile.