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Tra le caratteristiche dello stile di vita attribuito ai Bramani, compare – fin dall’antichità classica – il topos del loro particolare nutrimento e del modo in cui se lo procurano.

Da Plutarco veniamo a sapere che i gimnosofisti non hanno riserve di cibo perché lo traggono sempre fresco e nuovo dalla terra, e bevono acqua di fiumi153.

151 Sull’argomento esiste una sterminata bibliografia. Si veda almeno J. H. Oleson, The Oxford

Handbook of Engineering and Technology in the Classical World, Oxford University Press, New york

2008.

152 Collatio I 2, 8. Si veda anche Collatio II, p. 13, ed. Pfister: Nostra sepulchra non ornamus, nec in

vasis gemmatis cineres filiorum nostrorum reponimus.

153 Plu. Mor. 332 B: τροφὴν γὰρ οὐκ ἀποτίθενται, πρόσφατον ἀεὶ καὶ νέαν ἀπὸ γῆς ἔχοντες· ποτὸν δὲ

83 Secondo la tradizione riportata da Arriano, i saggi indiani mangerebbero non solo i frutti di stagione – alimento di cui si nutre anche Dandami, la loro guida154 –, ma anche le cortecce, dolci e nutrienti155.

Le informazioni più dettagliate si ricavano dal De abstinentia di Porfirio, che cita l’opera di Bardesane: tra i filosofi Bramani quelli che risiedono in montagna si nutrirebbero di frutta e di latte bovino cagliato con erbe; mentre quelli che si trovano presso il Gange si ciberebbero soprattutto di frutti, la cui generazione si rinnoverebbe di continuo, oppure di riso, che allo stesso modo crescerebbe autonomamente156.

Infine, un autore bizantino, Damascio, racconta che alcuni Bramani, pur essendo ospitati in casa di un certo Severo di Alessandria, avrebbero mangiato frutti di palma e riso, e bevuto soltanto acqua157.

Dalla lettura degli autori greci emerge un primo dato significativo: i gimnosofisti/Bramani trarrebbero il loro nutrimento soltanto da ciò che spontaneamente produce la natura.

Tuttavia il quadro delle informazioni va completato necessariamente con un passo dei Florida di Apuleio, secondo il quale i gimnosofisti non saprebbero coltivare un campo, né ricavare l’oro, né domare un cavallo, né aggiogare un toro, e neppure tosare e pascere una pecora o una capra, ma avrebbero imparato soltanto ad esercitare la saggezza158.

Quest’ultima testimonianza apre la strada ad una serie di considerazioni – confermate da ulteriori attestazioni, come vedremo – non solo riguardo all’assenza di pratiche agricole presso i Bramani, ma in generale sulla loro inattività159.

***

154 Arr. An. VII 2, 4: ζῶντι μὲν γάρ οἱ τὴν Ἰνδῶν γῆν ἐξαρκεῖν φέρουσαν τὰ ὡραῖα.

155 Ind. 11, 8: σιτέονται δὲ τὰ ὡραῖα καὶ τὸν φλοιὸν τῶν δενδρέων, γλυκύν τε ἐόντα τὸν φλοιὸν καὶ τρόφιμον οὐ μεῖον ἤπερ αἱ βάλανοι τῶν φοινίκων. 156 Porph. Abst. IV 17, 4-5: σιτοῦνται δὲ οἱ μὲν ὄρειοι τήν τε ὀπώραν καὶ γάλα βόειον βοτάναις παγέν, οἱ δὲ περὶ τὸν Γάγγην ἐκ τῆς ὀπώρας, ἣ πολλὴ περὶ τὸν ποταμὸν γεννᾶται. φέρει δὲ ἡ γῆ σχεδὸν καρπὸν ἀεὶ νέον καὶ μέντοι καὶ τὴν ὄρυζαν πολλήν τε καὶ αὐτόματον, ᾗ χρῶνται ὅταν τὸ τῆς ὀπώρας ἐπιλείπῃ. 157 Dam. Isid. 67: Ἐσιτοῦντο δὲ φοίνικας καὶ ὄρυζαν, καὶ ἦν αὐτοῖς πόμα τὸ ὕδωρ.

158 Flor. 6, 8: non illi norunt aruum colere uel aurum colare uel equum domare uel taurum subigere uel

ouem uel capram tondere uel pascere. Quid igitur est? Vnum pro his omnibus norunt: sapientiam percolunt tam magistri senes quam discipuli iuniores.

84 Nel racconto del Romanzo di Alessandro160 il re, giunto nella loro terra, ha modo di osservare, oltre a molte selve e molti alberi con frutti di ogni specie, anche un fiume dall’acqua trasparente e bianca come il latte, palme cariche di datteri, e tralci di vite con migliaia di splendidi grappoli. Non ci viene detto, però, che i mirabili prodotti naturali siano il risultato di lavori agricoli, né che vi siano coltivazioni.

Più avanti, interrogato da Alessandro, Dandami gli dice che quando hanno fame, vanno presso gli alberi, generati secondo il ciclo lunare, e ne mangiano i frutti, che spuntano in modo del tutto naturale161. Poi aggiunge che sono soddisfatti di avere a disposizione l’acqua del fiume Eufrate162.

Il motivo della nascita spontanea dei frutti dalla terra mostra una serie di sfaccettature rilevanti, che definiscono pesantemente il modello culturale della “marginalizzazione” con cui i Bramani vengono inquadrati.

I termini della questione diventano chiari, soprattutto, leggendo le notizie riportate dalla Collatio. Mentre da un lato Dindimo, elogiando il suo popolo, afferma che essi non utilizzano l’aratro, né hanno carri trascinati dal giogo163, al contrario, Alessandro polemicamente non solo li accusa di non seminare i campi164, ma critica anche la loro abitudine di nutrirsi di erbe e germogli, come le bestie165.

In relazione a tali osservazioni, vanno rilevati due dati fondamentali: in primo luogo, la loro esistenza viene completamente assimilata a quella animalesca, in secondo luogo, l’assenza di pratiche agricole li iscrive decisamente alla sfera dell’inciviltà.

Se si esaminano, poi, nel loro complesso i “trattati indiani”, i due motivi appaiono variamente declinati e intrecciati tra loro.

Dall’esame di tali documenti, che presentano molti dettagli al riguardo, possiamo desumerne, in via schematica, questi elementi:

160 Ps.- Callisth. III 5. Testo in Appendice II.

161 Ps.- Callisth: III 6 (ed. Müller): ὅταν οὖν πεινάσωμεν, πορευόμεθα εἰς τὰ κατάκομα δένδρα καὶ

ἐσθίομεν καρποὺς αὐτομάτους. κατὰ γὰρ γένναν σελήνης ὅλα τὰ παρ’ ἡμῖν δένδρα κύει καρπούς.

162 Ps.- Callisth. III 6 (ed. Müller): ἔχομεν δὲ καὶ τὸν μέγαν ποταμὸν Εὐφράτην· καὶ ὁπόταν διψῶμεν,

ἀπερχόμεθα πρὸς αὐτὸν καὶ πίνομεν ὕδωρ καὶ εὐφραινόμεθα.

163 Collatio I 2, 4: Laborem non exercemus, qui nutrit avaritiam […] Nefas est apud nos iuga montium

vulnerare dentibus vel camporum nitorem rugare vomeribus aut gementibus tauris stridentia plaustra subiungere.

164 Collatio I 5, 3: Ais nec habere Bragmanos consuetudinem semina mandare telluri. 165 Collatio I 5, 3: necesse est herbis palmitibusque depastis vitam horribilem pecorum more

85 a) i Bramani hanno alberi di cui consumano i frutti166 e bevono acqua167;

b) si nutrono di ciò che la terra produce senza lavoro168;

c) poiché essa non dà raccolti169, mangiano qualunque cosa trovano, le foglie delle piante, o le erbe, allo stesso modo degli animali170;

d) è illecito presso di loro arare e aggiogare i buoi171, ma anche gettare reti in mare per pescare e cacciare quadrupedi e uccelli172.

Il mosaico composto da simili cliché fa risaltare quanto la condizione dei Bramani venga relegata ad uno stadio di vita “primitivo”, caratterizzato dalla raccolta di ciò che esiste in natura, o addirittura ad un livello sub-umano, quello ferino.

166 Commonit. 3, p. 4 (ed. Pfister): Habent et alias arbores, quas ego nescio, de quarum fructibus semper

manducant.

167 Gent. Ind. I 12: ἐσθίουσι δὲ τὰ παρατυγχάνοντα ἀκρόδρυα καὶ λαχάνων τὰ ἄγρια, ὅσα ἡ γῆ ἐκφύει

αὐτομάτως, καὶ ὕδωρ πίνουσι νομάδες ὄντες ἐν ὕλαις ἐπὶ φύλλοις ἀναπαυόμενοι.Mangiano frutti degli alberi, quelli che capitano, ed erbe selvatiche, cose che la terra produce spontaneamente, e bevono acqua”. Cfr. Gent. Ind. II 7 (ed. Berghoff): καρποὺς ἐσθίoμεν καὶ ὕδωρ πίνoμεν; Ps. Ambr. Mor.

Brachm. II 7 (ed. Pritchard).

168 Collatio II, p. 11 (ed. Pfister): Nullam aliam annonam ad manducandum querimus, nisi quam mater

terra producit sine aliquo labore. Informazioni simili anche in Historia de preliis 99, p. 222, ed.

Zingerle: Abundanter enim annonam habemus. Nullam aliam anunonam ad manducandum querimus,

nisi quam mater terra producit sine hominis laborem. De talibus cibis implemus mensas nostras, qui nos non nocent.

169 Commonit. 3, p. 4 (ed. Pfister): nullos fructus de terra.

170 Commonit. 3, p. 4 (ed. Pfister): Manducant autem, quaecumque invenire potuerint, sive folia

arborum sive olera silvatica, quemadmodum pecora. Similmente leggiamo in Mor. Brachm. I 12 (ed.

Prichard): Edunt autem ea que potuerint invenire, hoc est arborum folia et holera silvestria, pecorum

more viventes. Le stesse osservazioni si leggono anche in Historia de preliis 100, p. 232 (ed. Zingerle): ideo necesse est ut pascatis herbas et duram vitam ducatis ut pecora. Il testo è ripetuto nell’edizione

Hilka-Steffens di J1, p. 198, e nell’edizione Hilka di J2, p. 100. Mentre nell’edizione di Steffens di J3, p.

142: ideoque pascentes herbas opportet vos ut pecora vitam ducere orridam et agrestem, quia neque

frumenta neque carnes neque pisces habere potestis. In quest’ultimo si sottolinea che i Bramani non

possono avere né grano né carne né pesce.

171 Collatio II, p. 13 (ed. Pfister): Inlicitum est apud nos arare campum cum vomere et ad carrum boves

iungere.

172 Historia de preliis 99, p. 222, ed. Zingerle: Apud nos illicitum est arare campum cum vomere et

terram seminare et boves ad carrum iungere et retia in mare mittere ad comprehendendos pisces aut aliquas venationes facere sive de quadrupedibus terre sive de avibus celi. Si veda anche l’edizione di

K. Steffens, Die Historia de preliis Alexandri Magni. Rezension J3, cit., p. 132, si legge: Terras nostras non aramus, in ipsis semina non inicimus. Boves currui non iungimus, retia in mare ad comprehendendos pisces non mittimus. Venationes aliquas quadrupedum aut avium non facimus. Nichil enim ad manducandum querimus, nisi quod terra sine hominis labore producit.

86 Il culmine di tali descrizioni si presenta in un passo del De gentibus Indiae173, in cui campeggia la loro estrema distanza dalla civiltà:

παρ’ οἰς οὐδὲν τετράποδον ὐπάρχει, οὐ γεώργιον, οὐ σίδηρος, οὐκ οἰκοδομή, οὐ πῦρ, οὐκ ἄρτος, οὐκ οἶνος, οὐχ ἱματίον, οὐκ ἄλλο τι τῶν εἰς ἐργασίαν συντελούντων ἢ ἀπόλαυσιν συντεινόντων.

Essi non hanno quadrupedi, né agricoltura, né ferro, né edifici, né fuoco, né pane, né vino, né abiti, e nient’altro di ciò che è utile al lavoro o che mira al godimento.

***

Sul motivo del cibo dei Bramani, alcune riflessioni a parte merita ancora il trattato di Palladio, di cui va ribadita l’indubbia complessità.

Nella seconda parte, affiora la dimensione simbolica della loro alimentazione in maniera molto esplicita. Essi sostengono che quando arriva la fame, la calmano con frutti ed erbe, elargiti loro dalla provvidenza (προνοία), e che se hanno sete, vanno al fiume, bevono e si dissetano, “disprezzando l’oro”174.

In relazione a quest’ultimo particolare, il discorso prosegue con una durissima invettiva contro il metallo prezioso che non disseta, non nutre, non guarisce le ferite, non cura le malattie, in breve non soddisfa l’insaziabilità, anzi eccita la cupidigia, estranea alla stessa natura175.

Il livello figurato dell’allocuzione si fonda su una serie di analogie e di contrapposizioni:

173 Gent. Ind. I 11 (ed. Berghoff). Cfr. Ps. Ambr. Mor. Brachm. I 11 (ed. Pritchard): Nulli apud illos

possunt esse quadrupedes, nullus fructus ex terra, nullus ferri usus, nullum instrumenti genus quo fieri aliquod opus possit.

174 Gent. Ind. II 10 (ed. Berghoff): πείνης παραγενομένης άκροδρύοις καὶ λαχάνοις, τοῖς ἐκ τῆς προνοίας

ἡμῖν χορηγουμένοις, ἰώμεθα ταύτην, καὶ δίψης παραγενομένης ἐπὶ τὸν ποταμόν ἐρχόμενοι χρυσὸν πατοῦντες ὕδωρ πίνομεν καὶ ταύτην θεραπεύομεν.Ps. Ambr. Mor. Brachm. II 10 (ed. Pritchard): Nos autem, qui cognovimus veritatem ipsamque naturam, si ceperimus sitire, imus1 ad fluvium aurumque calcantes aquam bibimus. Auro enim sedari fames, ac sitis nescit extingui.

175 Gent. Ind. II 10 (ed. Berghoff): χρυσὸς δὲ οὐ παύει δίψαν οὐδὲ λιμὸν παραμυθεῖται· οὐδὲ τραῦμα

θεραπεύει, οὐ νόσον ἰᾶται, οὐκ ἀπληστίαν ἐμπίπλησιν, ἀλλὰ μᾶλλον καὶ προσεξεγείρει τὴν ξένην ταύτην τῆς φύσεως ἐπιθυμίαν.

87 a) da una parte la fame/sete dei Bramani è soddisfatta da frutti/acqua;

b) dall’altra l’insaziabilità/cupidigia dei Macedoni è alimentata dall’oro.

Possiamo ricordare un passo significativo che mostra in modo stringente la simbologia di tale nutrimento: in esso leggiamo che se i frutti selvatici e l’erba vengono consumati dai saggi, “generano un intelletto degno di un dio e convengono al corpo”, cui si aggiunge che questi alimenti sono stati creati dalla divinità proprio come cibo per i mortali176. Passando per questa via, i Bramani raggiungono un livello superiore di elevazione spirituale.

Sulla scia dello stesso tema viene sviluppata, poi, la lunga polemica di Dandami nei confronti dell’ingordigia di Alessandro, dettata dal suo desiderio smodato di soddisfare il proprio piacere.

Più volte il Bramano ritorna sullo stesso argomento, denunciando la voracità dei Macedoni177, accusandoli di riempirsi il ventre, anche senza avere fame178, e di mangiare a dismisura, tanto da rigettare l’eccesso di cibo ingurgitato179. Sul piano simbolico, Alessandro e i suoi sono schiavi dei loro corpi e delle loro viscere180.

All’interno dello stesso testo notiamo, poi, come sia particolarmente sviluppato anche il topos del bere acqua. Il senso metaforico emerge quando Dindimo esorta il re macedone ad abbandonare la sua brama, poiché, pur possedendo tutti i fiumi, non riuscirebbe ad attingere acqua più di quanto non faccia lui stesso181. Nell’ottica di costui, dissetarsi sarebbe soltanto una necessità, alla quale provvederebbero le sorgenti

176 Gent. Ind. II 45 (ed. Berghoff): καρποὶ δὲ ἀκροδρύων καὶ θινῶν βοτάναι ἔξω ἀφεθέντα κάλλιστον

ἀτμὸν ἀπόζει καὶ παρὰ σοφῶν ἑστιαθέντα θεοπρεπῆ νοῦν κύει καὶ τὸ σῶμα ἐπιπρέπει∙ ταῦτα ὁ θεὸς ἐφύτευσεν εἰς τροφὴν βροτῶν φρονήσει. Ps. Ambr. Mor. Brachm. II 45 (ed. Pritchard): Tales epulas

nobis Deus plantavit ac prestitit.

177 Gent. Ind. II 45 (ed. Berghoff). Si veda anche il paragrafo successivo 2.5.

178 Gent. Ind. II 47 (ed. Berghoff): Gent. Ind. II 47: ὑμεῖς δὲ δι’ ἡδονὴν γαστρὸς τέχνας ἐπινοεῖτε, ἵνα

καὶ μὴ πεινῶντες διὰ τῆς ποικίλης τῶν μαγείρων τέχνης διαῤῥηγνύητε τὴν ἀθλίαν γαστέρα τὰ πρὸς γαστριμαργίαν ταύτῃ χορηγοῦντες.

179 Gent. Ind. II 49 (ed. Berghoff).

180 Gent. Ind. II 49 (ed. Berghoff): δοῦλοι γάρ ἐστε σωμάτων καὶ ἐντέρων ἀκορέστων. Mor. Brachm. II

49 (ed. Pritchard): Servos enim vos intestinorum scitis esse vestrorum.

181 Gent. Ind. II 22 (ed. Berghoff): ἐὰν πάντας ποταμοὺς κτήσῃ, ἶσον ἐμοὶ πίνεις ὕδωρ. Ps. Ambr. Mor.

Brachm. II 22 (ed. Pritchard): Nam etiam si omnes fluvios solus obtineas, plus me ex ipsis aquam haurire non poteris.

88 naturali, sempre attive182; i Bramani addirittura pregherebbero di non avere sete, per non essere distolti dalla contemplazione della verità183.

Alla consuetudine di dissetarsi con l’acqua, Dandami contrappone la pratica dei Macedoni di ubriacarsi con il vino. E naturalmente anche questo tema viene declinato sul piano simbolico. Egli sottolinea che costoro bevono finché non delirano184, perdendo il senno185; poi, presi dal furore, si feriscono a vicenda, privi di coscienza186. Al contrario i Bramani non desiderano il vino e non vanno incontro alla follia, ma è loro sufficiente l’acqua fornita dalla divina provvidenza187. L’ubriaco, invece, una volta perso l’intelletto, diventa estraneo a Dio188.

Esaminando il simbolismo dell’artificiosa contrapposizione tra il saggio bramano e il sovrano, appare significativo anche un passo dello stesso trattato, in cui il primo arriva addirittura a chiedere al secondo perché anche i Macedoni non imitino i tori, i cavalli e i cervi, che mangiano frutti silvestri, bevono acqua, e abitano sui monti189.

182 Gent. Ind. II 47 (ed. Berghoff). Mor. Brachm. II 47 (ed. Pritchard): Nos autem numquam bibimus

inviti, sed necessarium siti ex fontibus nature prebemus officium. Qui etiam non bibentibus nobis effluent.

183 Gent. Ind. II 48 (ed. Berghoff): ἡμεῖς δὲ εὐχόμεθα μηδὲ ὕδατος διψῆσαι· περισπώμεθα γὰρ ἀληθείας,

ὅταν σῶμα περισσῶς ποτίσωμεν ὕδατι. Cfr. Ps. Ambr. Mor. Brachm. II 48 (ed. Pritchard): Nos autem

precamur Deum, ne aliquando sitiamus. Nam hoc interdum modo a regula veritatis abstrahimur, hoc est tunc cum necessarium potum nostro corpori damus.

184 Gent. Ind. II 48 (ed. Berghoff): ὑμεῖς δὲ χαίροντες ἐπὶ τὰς οἰνοποσίας συνέρχεσθε, καὶ ἂν μὴ

ἐκμανῆτε πίνοντες οὐ παύεσθε.

185 Gent. Ind. II 48 (ed. Berghoff): παντελῶς ἐκδιώξαντες ὑμῶν τὴν φρόνησιν, βαρυνόμενοι τὸν νοῦν

ἀπὸ τοῦ οἴνου. Mor. Brachm. II 48 (ed. Pritchard): At vos etiam leti estis quotiens in hunc modum

convivia vestra celebratis, ut non ante ponatis vestris comessationibus finem quam nimia ebrietate incipiatis effurere et quamdiu ipsum quod sapere videbamini diu bibendo perdatis, nimio vini pondere sensus quoque vestri cordis onerantes.

186 Gent. Ind. II 48 (ed. Berghoff): ὑμεῖς δὲ μεριμνᾶτε τὴν τιμὴν τοῦ οἴνου, ἵνα τοῦτον ἀγοράσαντες τῇ

μέθῃ τὴν φρόνησιν ἐκδιώκητε ἑαυτοῖς ἐπεισάγοντες ἔκφρονα μανίαν, κατ’ ἀλλήλων χεῖρας κατακλῶντες καὶ τραύματα ἑκάστῳ πλησίων ἐμφοροῦντες∙ καὶ ταῦτα ποιεῖτε ἀναισθήτως. De mor.

Brach. II 48 (ed. Pritchard): Vos autem et pro pretio vini sollicitudinem geritis, et cum emptum fuerit a vobis, vosmet ipsos ebrietate sepelitis, ipsique vos invicem verberatis. Atque ita ad sobrietatem reversi, vix potestis agnoscere quemadmodum ebrietatem vestram custodire valeatis.

187 Gent. Ind. II 51 (ed. Berghoff): Βραγμᾶνες δὲ οἶνον οὐκ ἐπιζητοῦμεν, οὐκ αὐθαίρετον κτώμεθα

μανίαν∙ ὕδωρ, ὅσον θέλομεν, ἔχομεν ἐκ θείας προνοίας. Mor. Brachm. II 51 (ed. Pritchard): Nos vero

vinum quidem omnino non querimus. Aquam autem habemus, quam solam volumus et qua maxime delectamur.

188 Gent. Ind. II 51 (ed. Berghoff): ὁ γὰρ μεθύων ζῶν χείρων ἐστὶν ἀλόγου, τεθνηκὼς φρονήσει∙ τὸν

νοῦν γὰρ ἀπολέσας τοῦ θεοῦ ἠλλοτριώθη. Mor. Brachm. II 51 (ed. Pritchard): Vnusquisque enim ebrius

videtur quidem vivere, sed, quantum ad sapientiam pertinet, mortuus iudicatur. Perdidit enim ipsam quam Deus summam homini dedit mentem.

189 Gent. Ind. II 45 (ed. Berghoff): ταῦροι ἵπποι ἔλαφοι καὶ ἑτέρα φύσις ζῴων παμπόλλη δικαιοτέραν

ὑμῶν ἔχουσι τὴν τροφὴν θινῶν βοτάναις τρεφόμενα καὶ ὕδωρ πίνοντα καὶ τοῖς ὄρεσιν ἐνδιαιτώμενα. […] τί οὖν οὐ μιμεῖσθε ταῦτα τρεφόμενα θεοῦ προνοίᾳ; Cfr. Mor. Brachm. II 45 (ed. Pritchard): Cur

89 Se poi si considera la questione dell’alimentazione di Dandami, è doverosa qualche altra osservazione.

Il Bramano più volte sottolinea che ha a disposizione le erbe, i frutti e l’acqua dei fiumi190, più dolce del miele191. Ma il dato più significativo, carico di valore simbolico, sta nella sua dichiarazione di cibarsi di aria192.

La sua affermazione equivale alla negazione di qualunque bisogno corporale, a cui si aggiunge la riproduzione di un’immagine priva di consistenza reale. Non è difficile dedurre – da questo ed altri simili luoghi – che il testo palladiano introduca una filosofia di vita fondata sulla mancanza di desideri, in primis di quelli materiali193.

Ed è proprio questo il modo di concepire i filosofi indiani secondo la prospettiva degli autori cristiani dei primi secoli.

***

A tale riguardo, molte notizie ci vengono dalla Refutatio omnium haeresium di Ippolito, il quale riferisce che i Bramani conducono una vita autosufficiente, si astengono dal mangiare esseri animati e cibi cotti sulle fiamme, si accontentano dei frutti che cadono a terra e bevono l’acqua del fiume Tagabena194. Queste osservazioni sono molto significative, per due ragioni: da un lato, la scelta di non impiegare il fuoco per la cottura degli alimenti, ancora una volta, li assegna ad una condizione esterna

190 Gent. Ind. II 16 (ed. Berghoff): καὶ τροφὴ πίων, αἱ παραθίνιαι βοτάναι, καὶ ὕδωρ εἰς πότον. Cfr. Ps.

Ambr. Mor. Brachm. II 16 (ed. Pritchard): Ego enim habeo domum folia, herbis queque mihi adiacent

vescor, et aquam poto. Inoltre Gent. Ind. II 24 (ed. Berghoff): ὗλαι τράπεζα, καρποί τροφῆς ἀπόλαυσις,

ποταμοὶ διάκονοι {δίψες}. Cfr. Ps. Ambr. Mor. Brachm. II 24 (ed. Pritchard): Fluvii mihi potum

ministrant, mensam silva suppeditat. Cfr. Gent. Ind. II 37: τὰ γὰρ πάντα δωρεὰν ὁ θεὸς δίδωσί μοι,

καρποὺς εἰς τροφὴν καὶ ὕδωρ εἰς πότον, ὕλας εἰς τόπον οἰκίας, ἀέρα εἰς αὔξησιν τῶν πάντων.

191 Gent. Ind. II 38 (ed. Berghoff): καὶ μέλιτος γλυκύτερον τὸ ἀπὸ τοῦ ποταμοῦ ποτὸν. Ps. Ambr. Mor.

Brachm. II 38 (ed. Pritchard): Omnique melle mihi dulcior est, ubi naturalis venerit sitis, aque potus ex fluvio.

192 Gent. Ind. II 38 (ed. Berghoff): ἀέρι τρέφομαι; Ps. Ambr. Mor. Brachm. II 38 (ed. Pritchard): Aere

hoc ut cibo vescor.

193 Alla base del testo di Palladio c’è sicuramente la difesa di un ascetismo estremo. Tuttavia non è facile

individuare quali fonti lo abbiano influenzato. Alcuni indicano un sostrato di filosofia cinica, data la somiglianza del testo con il pap. Genev. 271, che è riconosciuto come una diatriba cinica; altri individuano in esso elementi della filosofia indiana delle Upaniṣad o del buddismo; altri ancora riconoscono per certi solo gli elementi cristiani. L’intera questione è riassunta nell’introduzione di G. Desantis a Pseudo-Palladio, Le genti dell’India e i bramani, Città Nuova, Roma 1992, pp. 5-41. Sul problema dell’ascetismo si tornerà più diffusamente nel paragrafo 3.6.

194 Hipp. Haer. I 24, 1: οἳ βίον μὲν αὐτάρκη προβάλλονται, ἐμψύχων δὲ καὶ τῶν διὰ πυρὸς βρωμάτων

πάντων ἀπέχονται, ἀκροδρύοις μηδὲ αὐτὰ ταῦτα τρυγῶντες, ἀλλὰ τὰ πίπτοντα εἰς τὴν γῆν βαστάζοντες ζῶσιν, ὕδωρ ποταμοῦ Ταγαβενὰ.

90 alla civiltà; dall’altro l’astinenza dalla carne rende possibile la loro assimilazione alla comunità degli Orfici195, o alla setta degli Encratiti196. In entrambi i casi, si tratta di gruppi marginali, per i quali il divieto della dieta carnea costituiva una pratica ascetica, come forma di rifiuto della società e del mondo.

Informazioni simili a quelle di Porfirio, già osservate, si ricavano dall’Adversus Iovinianum197, laddove Girolamo scrive – citando Bardesane – che i gimnosofisti sono divisi in due scuole (dogmata), di cui la prima è chiamata dei Bramani, la seconda dei Samanei; ed essi esercitano così tanto la continenza (continentia) che si nutrono di frutti degli alberi cresciuti presso il Gange, o di riso, o di farina. Anche questa annotazione riconduce i Bramani ad un contesto di ascetismo, quello cristiano e intransigente sostenuto da Girolamo, proprio riguardo all’astinenza sessuale e i digiuni, anche contro l’opinione avversa di Gioviniano198 ed altri, le cui posizioni in merito erano decisamente più moderate.

Lo stesso autore, in una lettera indirizzata ad una madre che deve educare la figlia ad una vita da consacrata, rivolge l’invito ad un regime alimentare morigerato, come quello dei saggi indiani199: “Ciò che i Bramani dell’India ed i gimnosofisti dell’Egitto osservano, cibandosi unicamente di farina di orzo, di riso e di frutta, perché una vergine di Cristo non deve farlo in modo completo?”.

Tuttavia, su un altro versante, e mutando la sua prospettiva, Girolamo arriva a sostenere che in maniera indebita la pratica della continenza nel vitto avrebbe spinto

195 Sui mistici greci e sul vegetarianesimo degli orfici si veda D. Sabbatucci, Saggio sul misticismo

greco, 2a ed., Edizioni dell’Ateneo, Roma 1979. Cfr. paragrafo 2.6.

196 Nello stesso testo di Ippolito si trova la notizia che gli Encratiti avrebbero derivato la loro dottrina

dai gimnosofisti: Hipp. Haer. VIII 7. Sulla relazione tra i Sarmanai e gli Encratiti si veda Clem. Al.

Strom. I 15, 71, 5-6. La connessione tra quest’ultimo passo e quello di Hipp. Haer. I 24, 1-7 con

l’encratismo era stata ben sottolineata da Berg, Dandamis, cit., p. 296. Per la complessa questione dell’astinenza dalla carne e delle pratiche di ascetismo si rimanda ai paragrafi 2.6 e 2.7. Per quanto concerne la filosofia dei Bramani descritta da Ippolito si veda il paragrafo 2.11.

197 Adv. Iovin. II 14: Bardesanes, vir Babylonius, in duo dogmata apud Indos gymnosophistas dividit,

quorum alterum appellat Brachmanas, alterum Samaneos; qui tantae continentiae sint ut vel pomis arborum iuxta Gangem fluvium vel publico orizae vel farinae alantur cibo.

198 Sull’opera Adversus Iovinianum si veda C. Moreschini - N. Norelli, Storia della letteratura cristiana

antica greca e latina, vol. II, Morcelliana, Brescia 1996, pp. 421-422. Si veda anche G. D. Hunter, Marriage, Celibacy, and Heresy in Ancient Christianity: The Jovinianist Controversy, Oxford

University Press, Oxford 2007. Sulla polemica contro Gioviniano si tornerà nel paragrafo 3.6.

199 Hier. Epist. 107, 8: Alioquin, quod Iudaica superstitio ex parte facit in eiuratione quorundam

animalium atque escarum, quod Indorum Bragmanae et Aegytiorum Gymnosophistae in polentae et orizae et pomorum solo observant cibo, cur virgo Christi non faciat in toto?

91 gli Stoici, i Bramani stanziati in India e i gimnosofisti in Etiopia ad attribuirsi il compimento di un miracolo200.

Vedremo più avanti, che le osservazioni del noto teologo si inseriscono perfettamente nel quadro definito dalla ricezione dei Padri della Chiesa, che indicano questi sapienti come modello positivo di ascetismo, ma parallelamente ne condannano i tratti estremi di inciviltà, che li accomuna agli eretici.