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Dal “disegno” alla “morfologia degli artefatti”

Questo libro nasceva molti anni fa, appuntato in un quaderno – ahimè, troppo presto dimenticato alla caffetteria o a un tavolo della BNF – che raccoglieva inizial- mente annotazioni sui corsi di Paul Valéry al Collège de France del 1940-‘41 relativi al suo progetto di una “morfologia generale”. Quel quaderno aveva già lo stesso titolo di questo libro, ma in francese: “à dessin”. Rispetto all’italiano “a ragion ve-

duta”, l’omologa locuzione “à dessin“ esprime più concretamente la portata pratica

che questo lavoro spera d’avere in quanto vero e proprio libro “sul disegno”. Il libro s’iscrive – mutatis mutandis – in una delle genealogie di precettistiche pratiche dell'i- deazione tecnico-artistica: quella umanistica e rinascimentale del “Disegno” con la quale si dava forma agli artefatti tecnici e artistici. Il disegno concerneva l'ideazione intesa come una disciplina tecnica, come un procedimento immaginativo, spesso come una tecnica di trasduzione d'immagini interiorizzate ed esteriorizzate; com'era, per esempio, espresso nei termini del consiglio tardo trecentesco di Cen- nino Cennini che «praticando il disegnare di penna […] ti farà[i] aperto, pratico e capace di molto disegno entro la testa tua».

In quest'ambito il termine “disegno”, per metonimia – giacché si progettava dise- gnando –, non indicava solo un'arte grafica o una pratica di rappresentazione tec- nica (prescrittiva o descrittiva) di un'idea o di un oggetto già dati; era soprattutto sinonimo di “progetto”, “concezione”, “ideazione”. “Disegnare” indicava anche l'integrale processo di “ideazione progettuale”, cioè la deliberata ricerca euristica, la “prefigurazione” di un'opera in fieri. Significava tutto ciò che ancora oggi l'inglese intende (appunto!) nel verbo to design e con le locuzioni “by design”, o “having

designs on...”. Dunque, almeno fin dall'alba del Quattrocento, la “pratica ideativa”

nelle pratiche artigianali s'istituiva come una vera e propria disciplina: un'arte co- mune alle diverse “arti”.

Per queste ragioni il termine “disegno” non è scomparso dal titolo di questo libro, è stato riformulato e specificato nel sottotitolo: “immaginazione progettuale, rappre-

sentazione e morfologia degli artefatti”. Lo si è riformulato proprio perché, seguendo

Valéry, “disegno” e “morfologia” sono termini quasi equivalenti: indicano un’attività poietica – artistica, tecnica e scientifica – rigorosa ed eclettica. Com’egli scrive:

«Vi è un’immensa differenza tra il vedere una cosa senza matita in mano e il vederla mentre la si disegna. O meglio, sono due cose assai differenti che si vedono. Anche l’oggetto più familiare ai nostri occhi diventa tutt’altro, se ci si mette a disegnarlo: ci accorgiamo che lo s’ignorava, che non lo si era mai veramente veduto» (Valéry 1980, p. 56).

In questo senso, come per Goethe, il disegno è inteso come pratica di un pensiero senza parole, ma capace di una comprensione estetica più efficace del concetto perché realmente adeguata all’oggetto del conoscere e al soggetto che conosce. Soprattutto il disegno – inteso come pratica anteriore ai domini di arte e scienza – attinge direttamente alla facoltà dell’immaginazione e dell’intuizione e opera attra- verso analogie difficilmente formulabili verbalmente; cioè può «fare variare le im- magini, combinarle, far coesistere la parte di una con la parte dell'altra e farci per- cepire, volontariamente o no, il legame tra le loro strutture» (Valéry 1894, p. 16).

Iscrivendosi – mutatis mutandis – in questa tradizione trattatistica, il nostro libro cerca di misurare la grande distanza odierna tra fatti e miti intorno all'antica disci- plina del Disegno. Mi spiego.

FATTI – Oggi la disciplina del disegno non si confonde col design e non richiede molto investimento intellettivo; è insegnata prevalentemente – anzi, quasi solo – come pratica di rappresentazione su supporti e formati cartacei o digitali. L'insegna- mento tradizionale del disegno nelle scuole tecniche e artistiche concerne una ma- teria in parte consolidata ed eclettica. Tipicamente un manuale tecnico di disegno tratta di pratiche di rappresentazione grafica e di una elementare morfologia geo- metrica (curve e superficie dalle quadriche alle quartiche) come semplice strumento di una pratica del design sempre più frazionata in specializzazioni ingegnerili.

Anche questo nostro libro porge una sua lezione didattica esponendo gli aspetti essenziali della materia tradizionale del disegno nelle scuole di progettazione, ma lo fa in una nuova e unitaria sistemazione. Tratta infatti: i) la tipologia funzionale degli elaborati descrittivi e prescrittivi (cap. 1); ii) i metodi proiettivi di rappresenta- zione storicamente generati dalla moderna prospettiva (cap. 2); iii) le categorie mor- fologiche (fisico-geometriche) dei corpi (cap. 3); iv) la tipologia tradizionale delle strategie di comunicazione visiva (cap. 4).

Queste nostre pagine cominciano (cap. 1) introducendo il lettore nel vivo di un

atelier di progettazione, tra gli arnesi (nel bricolage) del mestiere. Poi tratta i temi

più tradizionali della geometria descrittiva – metodi di rappresentazione e morfolo- gia geometrica – e della “storia della rappresentazione” nei capp. 2 e 3 dove sono trattati in modo ampio e non consueto, cioè non per via astratta e assiomatica, ma trattando della trasformazione storica degli statuti delle immagini (tecniche e artisti- che) e delle “categorie eidetiche”. Anche i temi tipici dei corsi di “comunicazioni visive” sono qui distribuiti tra il capitolo introduttivo e buona parte del cap. 1, poi sistematizzati nel cap. 4, grazie a una teoria semiotica delle valorizzazioni.

Dunque, il libro si offre come uno strano “manuale di disegno” che talora indica qualche esercizio ma, in compenso, offre quella unitaria teoria trans-mediale delle

immagini cui abbiamo fatto cenno sopra (§ 0.1) sistemata da un punto di vista se- miotico. Lo scopo di questa teoria resta tuttavia pratico: consente di comprendere meglio il senso di quel «disegno entro la testa» di chi progetta [image] coltivato at- traverso «il disegnare di penna» [picture]. Cercando di tradurre – mutatis mutandis – quel consiglio ancora medievale di Cennino Cennini in una teoria rivolta ad artisti e tecnici odierni, il libro intende esporre a scopo pratico una “teoria dell'ideazione” come “trasduzione24 progettuale d'immagini”. Ne risulterà, spero, una materia rin-

novata ma che cerca di rispondere – senza nostalgie – alle ambizioni “demiurgiche” che aveva la disciplina rinascimentale del Disegno, quando la nascente teoria dell'arte riconosceva all'ideazione grafica il potere (mitico) della “figuralità”. Mi spiego.

MITI – Se i sostantivi “disegno” e “design” [progettazione razionale] conservano ancora oggi un poco della sinonimia e delle connotazioni demiurgiche e visuali che avevano nell'estetica rinascimentale è effetto (mitico) della teoria classica della poie-

sis come mimesis che abbiamo rievocato sopra (§1). È questa – quella delle vicende

semantiche di eidos nella teoria delle arti – una storia molto nota – specie a partire dalla nitida ricostruzione di Panofsky (1952 [1924]) – ma è utile qui rammentarci che dove il pensiero estetico rinascimentale metteva in sincretismo Platone e Ari- stotele (“Idea” e “Forma”) poneva una concezione intellettualizzata del “disegno” intendendolo come lo strumento morfologico dell'ideazione. E quella riconosciuta intellettualità dell'ideazione pratica promuoveva socialmente il valore del lavoro ar- tistico e artigianale.

L'essenziale è che per fare del “Disegno” uno strumento demiurgico – almeno fin dagli albertiani De pictura e De re aedificatoria – si riunivano le nozioni di “Forma” e di “Idea” a significare uno stesso concetto che oggi potremmo dire “geometria figurale” intrinseca ai corpi delle cose. È questa, per intenderci, la nozione per cui mezzo secolo dopo Leonardo seppe di “intelligere” attraverso il “disegno” le intrin- seche forme funzionanti delle cose. Per lui sia gli oggetti naturali, sia quelli fabbricati dall'uomo erano in qualche modo organismi valutabili come se fossero “artefatti estesici”, cioè fatti apposta anche per essere “percepiti”. E ciò che si percepisce è proprio la profonda motivazione delle forme e, con essa, quelle catene di analogie morfologiche tra i corpi che – dal 1796 – Goethe, per primo, chiamò “morfologia”. Sotto quel termine goethiano sarà poi il naturalista D'Arcy Thompson a intendere e praticare quella «più ampia scienza della forma assunta dalla materia in tutti i suoi aspetti e condizioni, e che si occupa anche [...] di forme che sono immaginabili solo sul piano teorico»25.

Insomma, la “morfologia” si qualifica essenzialmente come unificazione di fisica e geometria nell'ontogenesi e filogenesi dei corpi, l'insieme delle loro analogie

24 Oltre ai significati usuali di “trasduzione” assumiamo qui, precisandolo nel seguito del libro,

soprattutto quello che gli attribuisce Gilbert Simondon che v'intende la genesi di un individuo come presa di figura stagliandosi dal fondo di una realtà pre-individuale.

strutturali. Essa concerne essenzialmente le ragioni delle forme dei corpi naturali, ma rispecchia anche un aspetto mitico del “Disegno” che nel Rinascimento era re- putato come pratica che poteva imitare il “Design” della Natura (“Forma + Idea”). S'intendeva infatti con “disegno” anche l'arte di “prevedere”, cioè di vedere ciò che non è ancora realizzato. L'ideazione grafica poteva rendere visibile una realtà in presenza sospesa, non ancora realizzata e non solo virtuale, ma che pur esiste real- mente, seppur soltanto in modo potenzializzato o attualizzato. Perciò con “disegno” allora s'intendeva qualcosa di (potenzialmente) assimilabile alla goethiana “morfo- logia” di D'Arcy Thompson (1942 [1917]).

FATTI – Il sodalizio mitico tra Disegno e Design sembra esaurirsi in favolette sui banchi di scuola universitaria. La concezione rinascimentale e intellettualizzata del “disegno” (come “ideazione” consapevole) sembra un mito lontano, un raccontino buono al più per le pubblicità di Confindustria e Confartigianato sul bel “saper fare”

made in Italy. Oggi, di fatto, col nome di “disegno” si indicano prevalentemente

procedure di rappresentazione. Soltanto in un vago senso figurato quel nome indica ancora le “fatture” degli oggetti naturali o artificiali.

In senso proprio le “fatture” degli oggetti materiali a funzione estetica hanno in- numerevoli ragioni, ma oggi queste appaiono disperse e in una pluralità di sfaccet- tature separate e spesso inconfrontabili. La storia delle arti, la tecnologia, l'archeo- logia, l'antropologia e l'etnografia descrivono le fatture degli oggetti materiali attra- verso le loro specifiche teorie, ricorrendo dunque a diversi “sistemi di forme” fatti

ad hoc, caso per caso, cultura per cultura, e fondati su nozioni morfologiche molto

diverse (tipo, modello, pattern, funzione, genere, variabilità morfologica, specia- zione, ecc.) variamente provenienti sia dalle pratiche d'ideazione tecnica e di fab- bricazione materiale, sia dagli ambiti delle geometrie e delle scienze fisiche e natu- rali. Le morfologie sono dunque moltissime, contingenti, specifiche fino all'idiografia giacché non sono che sistemi di descrizione opportunamente convenzionati. Sem- brerebbe non avere molto senso federare queste innumerabili morfologie monogra- fiche in una sola “morfologia degli artefatti”. Questa federazione richiederebbe un'interminabile comparazione tra diverse batterie di modelli di descrizione della “fattura” degli oggetti e, dunque, un dispendio di associazioni tra categorie geome- triche, fisiche, tecniche, culturali ed estetiche: uno spreco. È un dispendio che ri- chiederebbe inoltre la fede cieca in alcuni universali semantici delle forme degli oggetti, o in una sorta di Ragione trascendente e nomotetica che regoli allo stesso modo le produzioni della Natura e quelle delle culture, della biologia e della tec- nologia. A che scopo affrontare questioni transdisciplinari tanto dispendiose?! Tanto più che una morfologia degli artefatti non interessa nemmeno la cultura mainstream del design, giacché questo appare un dominio che continua a scindersi sempre più in specializzazioni tecniche e merceologiche via via più ingegnerizzate.

TRA FATTI E MITI – Non serve una fede cieca nell'evoluzionismo tecnologico per rendersi conto che la tendenza dei domini della progettazione tecnica a scindersi sempre più in specializzazioni ingegnerili e merceologiche, in realtà, non procede verso la loro autonomia e separatezza. La progressiva specializzazione di tecnologia

e marketing si accompagna a una necessità di segno opposto, quella di una maggiore integrazione reciproca dei diversi settori industriali, e degli specifici saperi tecnici. Come dimostra specialmente Simondon, l'evoluzione tecnologica – “la concretizza- zione” – di molte specie di oggetti tecnici è proprio segnata dalla crescente integra- zione tra domini specialistici della progettazione. Per esempio, nel caso delle ge- nealogie dei motori, egli mostra come queste specie tecniche evolvano dallo statuto primitivo di meccanismi monofunzionali (deterministici e spazialmente isolati) a quello di organismi e di ambienti, integrando sintropicamente più funzioni e artico- lando sempre più il loro ruolo di mediatori estetici tra uomo e mondo.

Per inciso, bisogna forse ricordare che, secondo Simondon, attraverso la “relazione estetica col mondo”, l'uomo cerca di risarcirsi della perdita dell'unità originaria (ma- gica, pre-tecnica) della propria esistenza in rapporto all'ambiente. È proprio attra- verso gli oggetti tecnici che – usati come protesi estesiche – si cerca di stabilire que- sta “relazione magica” (precedente la sfasatura tra tecnica e religione), anche se – come scrive – è

«l'opera d'arte [che] dà l'equivalente del pensiero magico poiché, a partire da una situazione data e secondo una relazione analogica strutturale e qua- litativa, essa ritrova una continuità universalizzante in rapporto alle altre si- tuazioni e realtà possibili. L'opera d'arte rifà un universo reticolare, almeno per la percezione» (p. 180, trad. nostra).

Questo funzionamento analogico dell'opera d'arte suggerisce una conclusione im- portante (per noi) legata al fatto che gli artefatti, in molti tratti della loro filogenesi tecnologica, sembrano evolvere da uno statuto meccanico (inorganico) a uno via via più organico. Ma ad evolvere verso stadi più concretizzati (sintropici e ambientali) dell'oggetto tecnico è proprio il lavoro della sua ideazione. Essa evolve nel tempo lungo innumerevoli linee – non progredienti insieme – se e solo se accumula il pro- prio sapere, cioè se “se ne sa sempre di più”, anche se non sempre “in meglio”. E quel “saperne di più” comporta delle progressive strutturazioni reciproche dei di- versi sistemi di categorie (fisiche, geometriche e prasseologiche) coi quali l'ideazione tratta (pensa) la forma delle cose. Tali sistemi evolverebbero verso una loro reciproca integrazione, innervando sempre più estesi reticoli di analogie, cioè unendo fisica, geometria e prasseologia antropologica. Tenderebbero dunque a costituire quella rete categoriale che abbiamo appena chiamato “morfologia degli artefatti”, ma che ci appariva una velleità irragionevole se concepita come federazione di sistemi mor- fologici specifici.

Questa “morfologia” è un'idea regolativa, un postulato “orizzonte teorico” del Di- segno inteso come strumento di un buon progettare. E quel buon progettare è solo l'esplicarsi di una ragion pratica che non implica affatto il governo (trascendente) di una Ragione nomotetica che governi con le stesse leggi le produzioni di Natura e Culture. Al di là di quella vaga analogia tra le perfettibilità di biologia e tecnologie nel loro procedere per prove ed errori – per adattamento e per bricolage

(exadattamento) – lungo linee filogenetiche, la Ragione che ci interessa è quella “lo- cale” e quotidiana, del tutto immanente alla sola continua perfettibilità della buona progettazione dei concreti artefatti umani. È “il progetto” in se stesso che – essendo quel fare che pone sempre la sua causa nel futuro – agisce come dispositivo evolu- tivo – non necessariamente di progresso – nelle genealogie dei suoi prodotti. La razionalità del progetto è il prodotto dell'accumularsi dei saperi lungo moltissime tendenze (linee) evolutive, attraverso una selezione che richiede buoni paradigmi e, dunque, sollecita quella maggior sintropia tra i sistemi di categorie fisiche, geo- metriche, prasseologiche e tecnologiche. Sollecita dunque ciò che abbiamo indicato sotto il nome di “morfologia degli artefatti” e che preciseremo ora adottando un esplicito punto di vista semiotico. Mi spiego cercando di chiarire l'obiettivo pragma- tico di questo libro con la natura necessariamente responsabile, aperta, azzardata e negoziale del progetto.