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tra arti e scienze della visione

3.9 Morfologia anamorfica

L’artefatto prospettico (disegno, pittura, scatola, scena teatrale, edificio o piazza…) non ci vale tanto in quanto esemplificazione di un dispositivo tecnico di rappresentazione proiettiva, vale anzitutto nel suo sostrato fenomenico di oggetto fisico che, tuttavia, – soggetto a una pratica estetizzante – ci mette in scena (in immagine) la forma architettonica e fenomenica di uno spazio altro: uno spazio figurativo (raffigurato) che ci appare come immerso, intenzionato e incorniciato nel nostro ambiente reale. Un oggetto-immagine è tanto una “cosa” quanto una raffigurazione; ci vale per quella “dualità” delle immagini (Spinicci 2008:cap. 4) che ne fa al contempo un doppio spazio (“assetto ot- tico”) giacché appartiene sia al nostro ambiente e alla geometria fenomenica dell’oggetto, sia a una profondità intenzionalmente raffigurata dall’autore dell’oggetto visuale che lo ha fatto apposta per noi (suoi spettatori). Perciò, l’immagine-oggetto non è un oggetto come gli altri perché ci costringe (noi spettatori) a oscillare tra le sue polarità di oggetto e di raffigurazione, funzio- nando secondo la duplice natura dell’immagine: come una cosa e come una

raffigurazione che pretende una concreta dimensione pragmatica nel suo rap-

portarsi allo spettatore (noi).

Lo abbiamo visto con la massima evidenza nei casi della prospettiva teatrale e delle scatole prospettiche (§ 3.7.4). In quei casi l’oggetto prospettico è

obiettivamente tridimensionale e proiettivamente coerente al punto da preve- dere determinate posizioni del punto di vista: i) alcune perfettive e decettive – dove l’oggetto funziona come una specie di trompe-l'œil che ingloba tutto lo spazio percepito dallo spettatore –, e ii) altre posizioni imperfettive dove, in- vece, l’oggetto si manifesta inglobato in uno spazio ambiente, pur manife- stando le sue proprietà di artefatto scenico che propone raffigurazioni a diversi gradi (lungo un gradiente) di “deformazione”, offrendo queste “deformazioni” – in quanto tali – all’apprezzamento estetico. Per esempio:

i) Percependole in una posizione decettiva (da trompe-l'œil) del punto di vi- sta, delle stanze oggettivamente esaedriche, coniche, ellissoidiche (o più acci- dentate) potrebbero, rispettivamente, apparire come ambienti cubici, cilindrici o sferici, se fossero opportunamente “decorate” con pattern visivi illusivi nei quali allineamenti oggettivamente spezzati o genericamente curvilinei possono apparire visivamente – agendo da correttivi ottici – come rettilinei o come archi di curve notevoli di una superficie in pattern più semplici e regolari. Cioè, dal punto di vista decettivo lo spettatore crede– da quel che vede – che l’ambiente abbia realmente una certa forma obiettiva che appartiene a una certa categoria ch’egli già possiede: “cubo”, “cilindro”, “sfera”, “lossodromia”… e “illumina- zione verosimile di un interno”. Egli immagina dunque di essere in uno spazio interno fatto così e così.

ii) Se lo spettatore si sposta, quegli stessi ambienti gli appariranno diversa- mente nelle posizioni imperfettive – non decettive – del suo punto di vista. Egli non crederà più di essere in un interno di data forma, ma di star vedendo un oggetto-involucro che assomiglia a quelle date forme. Precisamente, immagi- nerà che l’ambiente abbia forma “somigliante” a quelle che egli conosce e che tale “somiglianza” potrà risultare maggiore o minore, variando lungo un gra-

diente, così come, per esempio, egli potrebbe riconoscere in infinite curve co-

niche le trasformazioni proiettive (deformazioni otticamente coerenti) di uno stesso circolo.

Il fatto che in un artefatto visuale si possa cogliere la coerenza interna della “deformazioni” di una forma archetipica è ha (ovviamente) un valore espres- sivo importantissimo, capitalizzato tra le proprietà estetiche dell’oggetto. In- fatti, le storie delle arti descrivono spesso questa coerenza in termini di “spa-

zialità figurativa” (pittorica, grafica, plastica, architettonica, filmica) e, talora, di

“anamorfosi”. Specialmente la storiografia dell’architettura insite sul fitto com- mercio che gli architetti hanno sempre intrattenuto con i modi codificati della rappresentazione spaziale (ex. Evans 1997; Pérez-Gómez e Pelletier 2000), come d’altronde abbiamo rimarcato qui (§ 3.2) a proposito della portata gene- rale che ha la dimensione teatrale e architettonica della prospettiva.

Il fatto essenziale è che la nozione di “anamorfosi” è totalmente connaturata a quella di oggetto prospettico; lo è a tal punto che ogni oggetto prospettico è, di fatto, sempre un oggetto anamorfico. Il caso del trompe-l'œil è soltanto una bizzarria patologica – che vale solo quando rivela il suo scherzo – giacché un

quadro, una scatola, una scena, una stanza, una piazza… vogliono essere ri- conosciuti prima in quanto oggetti e, solo poi, in quanto anamorfosi visuali di spazi raffigurati. La prospettiva dei pittori e degli architetti non è nata per in- gannare occhi coglioni o fessi (con rasoi cinematografici), ma per produrre tra-

sformazioni coerenti e fondate sulla nostra realtà fenomenica ottica.

È perciò che gli oggetti prospettici, fin dal primo Quattrocento, mostrano di possedere delle precise categorie tecniche (costruzioni da bottega) di questa “spazialità coerente” e “anamorfica” che – diremmo oggi – gli derivano dalle leggi delle trasformazioni proiettive delle figure spaziali, ma che gli derivavano ancor prima che queste leggi fossero formalizzate, secoli dopo, nei teoremi della geometria proiettiva e nell’algebra lineare in cui la proiettiva è oggi tra- dotta ad uso dei nostri computer e smartphone poli sensoriali. Il perché lo ri- marchiamo a ogni passo; la prospettiva dei teorici del Quattrocento era già, tutta in atto, una geometria proiettiva giacché si basava sull’articolazione degli stessi archetipi acheropiti dell’immagine: l’ombra e lo specchio.

3.9.1 Lo spazio allo specchio

Come i nostri antichi progenitori, noi sperimentiamo quotidianamente la po- sizione ambivalente dello spettatore che deve raccordare la spazialità interna alle immagini con il proprio spazio reale che la racchiude in una stessa e sola percezione ambientale. Muovendoci liberamente in una stanza con uno spec- chio alla parete prevale anzitutto la consueta percezione ambientale fenome- nologicamente sorretta dalle categorie del nostro percepire uno spazio tridi- mensionale nella sua stabile configurazione e profondità. Ma vediamo nello specchio uno spazio (figurativo?) con una sua dinamica spaziale collegata a quella che esperiamo nel nostro spazio reale, come se questa fosse connessa da “vettori” che ci legano allo spazio riflesso. Nello specchio vediamo spec- chiato sempre ciò che vedremmo “se” occupassimo la posizione ortogonal- mente simmetrica alla nostra rispetto al suo piano riflettente. Se la superficie dello specchio fosse misurata da due assi coordinati (x, y), mentre la direzione obiettiva a lui ortogonale fosse misurata da un terzo asse coordinato (z), di- remmo che ogni punto P = (x, y, z) del nostro spazio è duplicato illusoriamente dallo specchio in un punto P' di coordinate x' = (x), y' = (y) e z' = (– z), cioè invertendo semplicemente il verso della direzione (z) a lui ortogonale. Fac- ciamo così quotidianamente l'esperienza oggettiva della presenza apparente di due spazi non identici, idealmente sovrapposti, in cui i punti del nostro spazio e i punti corrispondenti dello spazio riflesso stanno a distanza opposta, allineati lungo rette ortogonali allo specchio. Dato che i punti del piano dello specchio coincidono coi loro riflessi, diciamo che sono “punti uniti” ai loro riflessi, co- stituenti un piano dell'omologia.192 Si tratta dell'omologia che lega due spazi

192 A rigore dobbiamo riconoscere che anche le rette e i piani ortogonali allo specchio

che, immaginati nella loro piena estensione, sono sovrapposti e non identici: quello che diciamo “reale” e quello che diciamo “immagine”. Il centro di que- st'omologia è la direzione ortogonale allo specchio (che ne è il piano unito). Si tratta dunque di un caso particolare di “omologia”, quello che ha il piano unito “al finito” e il centro “all'infinito” ove concorrono le rette lungo le quali si tro- vano punti equidistanti da parti opposte dello specchio193.

L'esperimento di Brunelleschi (§ 3.4) ci costringe all'esperienza mentale d'in- vertire la direzione riflettente dello specchio, trattando anche lo spazio riflesso come se fosse “reale”, concludendone che lo spazio, se riflesso due volte sullo stesso piano coincide con se stesso. Ci ritroviamo così in due spazi sovrapposti e identici, ove non possiamo più dire a priori quale sia quello “rappresentante” e quello “rappresentato”; possiamo semplicemente definirli un “primo” e un “secondo” spazio, in quel caso, sovrapposti (uniti) punto per punto.

Questa riflessione inversa (o doppia) è la situazione di partenza più salda per concepire ogni altra trasformazione dello spazio geometrico. Si tratta di una trasformazione “identica” e l'identità può essere ancora considerata quel caso “speciale” di “omologia” – cioè un luogo interamente unito perché ha subito una trasformazione nulla – a partire dal quale possiamo immaginare tutte le trasformazioni regolari di uno dei due spazi in gioco, le sole che mantengano la relazione di collinearità (allineamenti convergenti di ogni coppia di punti corrispondenti) con l'altro spazio. Concependo la stanza come sostegno di due spazi perfettamente sovrapposti è immediato constatare che una semplice tra-

slazione di uno dei due spazi identici li fa corrispondere ancora in un'omologia speciale che ha “centro” (improprio) in una direzione dello spazio (quella di

traslazione) e ha per “piano unito” il piano improprio di entrambe gli spazi, giacché si conserva tra loro il parallelismo di rette e piani corrispondenti. Ogni possibile coppia PP' di punti corrispondenti è ora la coppia degli estremi di segmenti tutti equipollenti. Invece, se uno dei due spazi fosse ruotato, ovvia- mente, punti corrispondenti non sarebbero estremi di segmenti equipollenti; tuttavia i due spazi si corrisponderebbero ancora attraverso l'applicazione suc- cessiva (non commutabile) di due “riflessioni” rispetto a due diversi piani194.

trasformazione, mentre ogni altra retta e ogni altro piano del nostro spazio sono distinti dalle loro immagini riflesse (pur restandovi puntualmente collineari), ma le incontrano immancabilmente sullo specchio: rette corrispondenti si incontrano in un medesimo “punto unito”, piani corrispondenti si incontrano in una medesima “retta unita”.

193 Cioè, basta conoscere la coppia costituita da un punto P e del suo riflesso P' per

poter ricostruire il riflesso (l'omologo) di ogni altro punto. Abbiamo visto (§ 3.7.2) che un'omologia non speciale è determinata dal suo centro, dal suo piano (unito) e da una coppia elementi corrispondenti: cioè da due punti allineati col centro, o da due rette che s'intersecano nel medesimo punto unito, o da due piani che s'intersecano nella medesima retta unita.

194 Cioè, se la stanza fosse ruotata intorno a un asse BC in modo che un suo punto P

si trovasse poi nella posizione P', sarebbe esattamente come se il suo intero spazio fosse stato prima riflesso specularmente rispetto al piano bisettore dell'angolo diedro percorso dalla rotazione, poi riflesso di nuovo rispetto al piano P'BC.

Analogamente, un più composito movimento rigido della stanza, come una rototraslazione o uno spostamento elicoidale, sarebbe sempre comprensibile in questi termini. Anche se la situazione di partenza e quella di arrivo non si corrispondono più direttamente come due spazi omologici (prospettivi), tutta- via resterebbero spazi “proiettivi” corrispondenti, non solo “isometrici” ma an- che “isomerici” 195.

Insomma: i diversi casi di omologia dello spazio ordinario svolgono il ruolo di modelli generali delle “forme di figurazione spaziale” impiegati dalle arti per- ché essi regolano il modo in cui un osservatore geometrico coglie (percepisce) uno spazio figurato in relazione alle proprie credenze visuali. La posizione di quest'osservatore è incarnata dal centro dell'omologia (che svolge il ruolo di “punto di vista” soggettivo), mentre la collocazione del piano dell'omologia re- gola i diversi modi di contiguità oggettiva del supporto fisico e della misura tra i due spazi correlati. In questo senso diciamo che le omologie svolgono il ruolo di modelli “teatrali” dell'estensione figurata e si possono riassumere nella se- guente casistica essenziale:

Centro dell'omologia all'infinito (effetto di punto di vista

esterno)

| Centro dell'omologia al finito

(effetto di punto di vista interno) Piano dell'omologia all'infinito

(conservazione dei rapporti tra distanze) Traslazioni, Rotazioni, Equiversioni (isometrie) Omotetie (similitudini similmente poste) Identità (tra due spazi sovrapposti) Piano dell'omologia al finito

(conservazione della conti- guità spaziale) Affinità (“assonometrie solide”) Omologie generali (“prospettive solide”)

Nella tabella, a sinistra si danno i casi in cui lo spettatore empirico può muo- versi liberamente – secondo il nostro esempio – entro lo spazio della “stanza” di fronte a uno specchio (reale o virtuale, singolo o multiplo, proprio o impro- prio) delegando il proprio punto di vista (cognitivo) a un osservatore infinita- mente distante. A destra si danno i casi propriamente “prospettici”, nei quali

spettatore e osservatore possono coincidere (mentalmente e visivamente) in

195 Ognuna delle diverse trasformazioni isomeriche può dunque essere scomposta

come esito di un numero finito di rispecchiamenti e questo numero (pari o dispari) consente di classificare queste trasformazioni, oltre che di concepirle come casi di par- ticolari collineazioni isometriche.

un medesimo punto di vista (centro dell'omologia) proprio. Quelli a destra sono i casi che – come la prospettiva ordinaria – figurano l'esperienza visuale di uno spazio oggettuale “includente” lo spettatore, cioè visto dal suo interno. Mentre a sinistra – come nel caso della “prospettiva parallela” (o affine) – questo me- desimo spazio è descritto come “incluso” (compreso dall'esterno), immerso in uno spazio di ordine maggiore, visualizzandolo come se fosse un oggetto ma- neggevole, del quale si possono rilevare direttamente molti rapporti metrici. Come precisava Lambert (Lambert 1759, pp. 148-166), si tratta di una “pro- spettiva” il cui punto di vista “è” infinitamente lontano, oppure della prospet- tiva consueta di un oggetto di dimensioni credute tanto infinitesime da rendere impercepibile (insensata) la convergenza apparente degli elementi paralleli.

3.9.2 Omotetie

Tra le più antiche e moderne (radicate) forme di figurazione troviamo la ma-

quette: il modellino “in scala” di un oggetto spaziale che crediamo di dimen-

sioni obiettive più o meno estese (comunque diverse) rispetto a quelle offerte del suo modello “conforme”, cioè che conserva almeno la stessa estensione degli angoli dell’oggetto che simula. Per esemplificare questo caso con il nostro esperimento mentale della stanza e dello specchio dobbiamo immaginare di porre all'interno della stanza una sua esatta maquette che la rappresenti con- formemente scalata a misura ridotta, disponendo il modellino con le pareti ordinatamente parallele a quelle ch'esse rappresentano. In questo caso i due spazi sovrapposti (della stanza Σ e del modello Σ') sono tra loro simili e simil-

mente posti, realizzando il caso di omologia – detta “omotetia” – che ha il

proprio piano unito (lo “specchio” semplice o doppio) all'infinito e il proprio

centro “O” al finito, da qualche parte nella stanza Σ. Questo centro è il luogo dove convergono le rette che allineano ogni coppia PP' di punti corrispondenti. Allineato con O il generico punto P del primo spazio Σ e il suo trasformato P' del secondo spazio Σ' (la maquette) definiscono la “caratteristica dell'omotetia”: il rapporto k = PO/P'O che si mantiene costante per ogni altra coppia di punti corrispondenti. Con k positivo o negativo la trasformazione si dice, rispettiva- mente, diretta o inversa.

Per un concreto spettatore della scena “omotetica” – il reale visitatore di un'ampia stanza che espone al centro un suo modellino in scala – sarebbe assi scomodo porre l'occhio nel centro dell'omotetia, da dove vedrebbe sovrapposti i punti del modello a quelli corrispondenti dell'invaso referente. Tuttavia, egli può immedesimarsi idealmente in quel centro; la corrispondenza ideale tra l’invaso contenente e quello contenuto resta comunque evidente nella com- presenza omotetica dell'invaso “al vero” (scala 1:1) e del suo modello ridotto, tanto da costituire un dispositivo di esposizione museografica assai ricorrente,

erede dell'antico tema architettonico dell'edificio nell'edificio196. Il dispositivo

omotetico ha un effetto figurale posto “tra” quelli delle isometrie e quelli delle

prospettive (omografie). Le isometrie – conservando le misure esatte di lun-

ghezze, aree, volumi e angoli – si possono intendere come casi particolari delle

omotetie e delle loro composizioni197, cioè come trasformazioni per le quali il

rapporto di scala è 1:1.

3.9.3 Affinità

Se nella situazione su descritta scambiamo tra loro le posizioni di centro e piano dell'omotetia – portando l'occhio all'infinito e il piano delle tracce al finito – si ottiene il caso dell'affinità, cioè la “prospettiva parallela” (assonometria). Portando all'infinito il punto di vista di una prospettiva solida si ottiene – in analogia con il disegno assonometrico piano – una “assonometria solida” o “obliquazione”.

Figura 35. (A) Costruzioni grafiche di elementi decorativi obliquati (Guarini 1737, Tav. XXIII). (B) Illustrazione dell'obliquazione come caso – confrontabile con Figura 26 – di "assonometria solida", ovvero affinità omologica di uno spazio 3D.

Come abbiamo accennato, si tratta di una tecnica di raffigurazione assai più antica dei metodi del disegno tecnico industriale in proiezione parallela. È una

196 La fortuna del dispositivo che mette in scena la compresenza omotetica di un

invaso al vero e del suo modello ridotto si deve alla sua capacità di indurre una visione a doppio registro, dove lo spettatore si trova “tra” i due spazi e – senza cambiare il proprio senso dell'orientamento spaziale complessivo – alterna mentalmente una “vista” diretta dell'interno dell'invaso e una “visione” indiretta (dall'esterno) dell'invaso ridotto a modello simile e similmente posto.

197 In particolare, la traslazione è un'omotetia con caratteristica k = 1, mentre la sim- metria centrale (equiversione) è quello in cui k = – 1. La simmetria rispetto a un punto

e quella rispetto a un piano non sono che casi metrici particolari, rispettivamente delle

omotetie e delle affinità. Omotetie e affinità omologiche, a loro volta, non sono che casi

modalità di figurazione che, sopra tutti, Massimo Scolari (2005) ha indagato (nelle sue ragioni figurative) fin dalla cultura visuale egizia e nelle moderne culture “non prospettiche”.

La teoria cinque e seicentesca della “architettura obliqua” non fece che for- malizzare more prospectico (Figura 35) un antichissimo metodo di obliqua-

zione198 costruttiva.

La traduzione dell'antica obliquazione in moderna “prospettiva parallela” e, poi, in “affinità omologica” fu il processo culturale che sviluppò l'analogia del fenomeno dalle ombre solari con l'immagine allo specchio.

Spiegata coll'esperimento dello specchio sulla parete di una stanza, la mani- festazione di un'affinità richiede che il piano (unito) specchiante – grazie a un trucco diottrico – rifletta lo spazio “obliquamente” (non ortogonalmente) al suo piano. Manifesterebbe così una simmetria obliqua199, ovvero lo spettacolo di

un invaso coerentemente “obliquato”, nel quale punti, rette e piani conser- vano l'originario parallelismo reciproco, ma non l'ortogonalità. Nella stanza in- clinata allo specchio – in salita o in discesa, verso destra o sinistra – percepiamo la nostra (immagine) silhouette in una foggia simile a quella che vediamo nel contorno della nostra ombra solare gettata sul selciato. Preciseremmo questa sensazione constatando, in particolare, che un quadrato nella stanza – vista in questo strano specchio – si rifletterebbe esattamente in un parallelogrammo, come una sfera in un ellissoide a tre assi.

Un'ulteriore riflessione ortogonale sul medesimo specchio porterebbe lo spa- zio dell'immagine a non coincidere puntualmente con quello della stanza di partenza, ma a corrisponderle comunque in una “affinità concorde”, senza mutare il piano dell'omologia, riflettendo solo la direzione (il punto improprio) del centro dell'omologia nella direzione simmetrica. Questa trasformazione è perfettamente analoga alla relazione che lega una sagoma piana sospesa nello spazio alla sua ombra solare proiettata su un piano (allo spazio bidimensionale della sagoma corrisponde quello bidimensionale del piano su cui si getta l'om- bra solare); analogamente la trasformazione affine di un corpo dello spazio

198 Cfr. specialmente l'Architectura civil recta y obliqua di Juan Caramuel de Lobkowitz

(Caramuel Lobkowitz 1678) e l'Architettura civile di Guarino Guarini (1737, Trat. III Cap. XXIII). Ma è importante ricordare che un procedimento di trasformazione affine è am- piamente praticato ad antiquo, specie nel tracciato di archi. Per esempio, è attestato nel tracciato costruttivo delle colonne (curva dell'entasi) del tempio di Apollo a Didime e – tramandato dalla tradizione stereotomica medievale – nel trattato di Dürer (1525, fig. 35), nei disegni di Leonardo (Cod. Atlantico f. 318 b recto) e nel trattato di Philibert de L’Orme (1561).

199Alla simmetria “ortogonale” della riflessione piana consueta si è semplicemente so-

stituita una simmetria “obliqua”, ma null'altro cambia delle condizioni di collinearità tra i due spazi; questi sovrapporrebbero sempre i loro elementi uniti sul piano dello spec- chio (piano unito dell'omologia). I due spazi si corrisponderebbero così un'omologia che si dice “affine” e “discorde” (con inversione del verso di un asse coordinato); coppie di punti corrispondenti sono sempre allineati rispetto a una direzione, rette corrispondenti sono sempre legate da una similitudine.

ordinario è assimilabile a quella che lo legherebbe alla sua ombra solare, nel caso anch'essa si sviluppasse in tre dimensioni.

3.9.4 Metriche proiettive

L'affinità omologica di un corpo corrisponde a quella che possiamo immagine come una sua ombra “solida” proiettata dal Sole in una specie di pulviscolo geometrico. Se mai potessimo misurare le diverse ombre solide di corpi nello spazio, scopriremmo che, in un dato istante del soleggiamento, il valore del rapporto tra il “volume” del corpo e il suo “volume d'ombra” solare (intesa