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L’invenzione della geometria proiettiva

tra arti e scienze della visione

3.5 L’invenzione della geometria proiettiva

Gli esperimenti di Brunelleschi e di Cartesio hanno in comune l'elisione del corpo fisico dello spettatore, ridotto rispettivamente alle sole facoltà del “ve-

dere” e del “pensare” («abducere mentem a sensibus»). Nel caso della tavoletta

fiorentina lo spettatore si riduceva a un solo occhio puntiforme che si riconosce (si inter-definisce) riflesso nel “punto di vista” della prospettiva, cogliendo così lo spazio visuale come duplicato simmetrico di uno spazio geometrico figurato (spazio modello). Cogliendo l'estensione figurata come riflesso dell'estensione

visuale, l'esperimento alternava la vista diretta e quella riflessa, sperimentando

così anche l'alternarsi di intuizione sensibile dello spazio fisico e di astrazione intellettiva dell'estensione figurata. Da questo ritmico alternarsi di sensazione e

astrazione nasce lo “spazio geometrico proiettivo” che può essere considerato

un vero e proprio “oggetto tecnico” (paradigma), un artefatto di design, quasi un oggetto di minuta oreficeria intellettuale, costruito e obiettivato sulla base del pregiudizio estetico: simplex sigillum veri. Frutto di un processo inventivo del pensiero dei geometri allestito nei cinque secoli successivi fu questa tradu- zione dell'antica ottica geometrica in una geometria più generale, interrogando le evidenze ottico-prospettiche dell'immagine.

3.5.1 Punti e rette di fuga

La prima domanda posta dall'evidenza prospettica fu «che cosa rappresen- tano i punti e le rette di fuga?» Esplicitamente con Desargues si assunse che le rette obiettivamente parallele – giacché in prospettiva si rappresentano con- correnti in uno stesso “punto di fuga” – hanno in comune la “direzione” intesa come il loro “punto improprio” (in[de]finitamente lontano). Analogamente si assunse che piani obiettivamente paralleli – giacché in prospettiva si rappre- sentano concorrenti nella medesima “retta di fuga” – condividono la stessa “giacitura” intesa come la loro “retta impropria” (in[de]finitamente lontana).

“Occhio” e “Sole” sono (almeno dal XVI sec.) attori che nel modello ottico- geometrico possono scambiarsi nel ruolo di “centro di proiezione” (o di “rece-

zione”). Così, come dalla finitezza del nostro spazio fenomenico, giudichiamo

i raggi del Sole obiettivamente paralleli, pur sapendoli provenire da una stella indefinitamente lontana; anche i raggi di luce che entrano quaggiù nei nostri occhi sarebbero giudicati tali da qui se il nostro occhio fosse lassù, all’infinito. Dunque, si trattarono le “direzioni” delle rette e le “giaciture” dei piani alla stregua degli altri punti e rette “propri”. In questo modo, nella geometria sorta della prospettiva, l'infinito e l'infinitesimo divennero una questione tecnica (non necessariamente filosofica).

immerso in uno “spazio dell'enunciato” dove materialmente si scambiano tra loro gli sguardi del soggetto e dell'oggetto. Questo incrocio oggettivato di sguardi è proprio la caratterista saliente della moderna immagine tecnica e scientifica.

Si trattò soltanto di decidere che cosa rappresentassero effettivamente la “di- rezione” di una retta e la “giacitura” di un piano. La soluzione più semplice è che tutte le rette tra loro parallele condividono “un solo” punto improprio e che tutti i piani tra loro paralleli convergono in “una sola” retta impropria153.

Così, attraverso la prospettiva, gli occhi dei geometri del XVII secolo si affac- ciavano sull'infinito, divenuto (per la prima volta) un oggetto maneggevole e diverso dall'antico “indefinito” (apeiron) della geometria euclidea.154

Insomma, quando – nel XIX secolo – la teoria prospettica si convertì definiti- vamente nella moderna geometria proiettiva, era già da due secoli un modello di geometria non euclidea; precisamente una geometria “semplicemente ellit- tica”, cioè di “forme chiuse”155.

3.5.2 Tutto lo spazio sul piano

Quando l'occhio dell'osservatore della prospettiva si ridusse a “centro di

proiezione”, assimilandosi al puntiforme centro di una stella di rette proiettanti,

sul quadro della rappresentazione trovarono immagine (proiezione) tutti i punti dello spazio, anche quelli collocati alle spalle dell'originario spettatore. S'inau- gurò ciò che oggi, tecnicamente, si dice “visione omnidirezionale” sul piano.

Il fatto divenne evidente anche nella pratica elementare del disegno in pro- spettiva, già alla fine del XVI secolo, quando vi si applicò una prima (rudimen- tale) teoria delle ombre, simulando l'illuminazione del “Sole” posto alle spalle dello spettatore (Figura 23 A); in quei casi i raggi di sole utili alla determina- zione grafica delle ombre portate si tracciano come rette concorrenti in un punto di fuga (che rappresenta il “Sole” immaginato fisicamente alle spalle del punto di vista) posto nella parte inferiore del quadro.

Si dovette ammettere così che ogni punto P' del quadro π della prospettiva – ripensandola come “proiezione centrale” – è potenzialmente immagine di tutti gli infiniti punti della retta proiettante OP che lo individua, sia ch'essi si trovino

153 Affermare che «ogni retta ha un solo punto improprio» e che «ogni piano ha una

sola retta impropria» era la soluzione più semplice. Infatti, se non vi si ammettono ele- menti impropri si ricade nella geometria euclidea (parabolica) che non spiega la pro- spettiva; se, invece, avessero “due” elementi impropri le cose si complicherebbero per- ché il piano improprio e lo spazio stesso assumerebbero la forma “iperbolica” studiata dalla geometria di Bolyai e Lobačevskij.

154 La geometria della tradizione euclidea era costruita a partire dalla concessione di

poter tracciare una retta indefinitamente estesa (aperta come un segmento privo dei suoi estremi) e di poter aprire un compasso con qualunque estensione. L'infinito e l'in- finitesimo antichi erano dati solo “in potenza” (§ 2.2) – mai, di fatto, raggiungibili –, invece ora si proponevano “in atto”, esaurendo – superando il postulato della continuità di Archimede e di Dedekind – l'antica ipoteca dei paradossi eleatici ed epicurei: dalla “tartaruga” di Zenone alla “freccia” di Lucrezio.

155 Nel XIX secolo si scelse che lo spazio proiettivo fosse una varietà di Riemann nella

quale le rette sono curve chiuse con un solo punto all'infinito e i piani sono superfici chiuse con una sola retta all'infinito. Ciò, per quanto complicato possa apparire, deri- vava necessariamente dalla conversione della “teoria prospettica” (a uso dei pittori) nella “teoria delle proiezioni centrali” (a uso dei geometri).

“prima”, sia che si trovino “dopo” il punto O che fa da centro di proiezione. Conseguentemente, anche se i pittori disegnavano sul quadro la prospettiva di una retta r come un segmento finito, compreso tra un “punto di traccia” Tr (l'intersezione della retta obiettiva col quadro) e un “punto di fuga” F'r (la proie- zione sul quadro del punto improprio della retta), si doveva ammettere che anche i punti della retta che si trovano alle spalle dello spettatore hanno im- magine sul quadro; necessariamente questi vi si proiettano nel (complemen- tare) segmento infinito (non tracciabile) F'r Tr che si estende oltre il punto di fuga e raggiunge il punto di traccia.

Figura 23. (A) Tracciamento in prospettiva delle ombre portate di una figura in due casi: con il sole alle spalle e con il sole di fronte allo spettatore. (B) Analogamente, si noti come il passaggio dalla prospettiva alla proiezione centrale comporti anche l’assun- zione delle immagini dello spazio “alle spalle” del quadro.

Altrettanto “chiusa” risulta la rappresentazione prospettica del piano, an- ch'esso non rappresentato soltanto dalla striscia finita compresa tra la sua retta di traccia (quella in cui il piano incontra il quadro) e la sua retta di fuga (proie- zione della sua retta infinitamente lontana), ma anche dalla complementare striscia infinita compresa tra le rette di fuga e di traccia. Se potessimo percor- rere una retta proiettiva seguendo la sua prospettiva ci accorgeremmo che ogni volta che varchiamo il suo punto improprio (rappresentato dal punto di fuga in prospettiva) invertiamo il nostro orientamento, scambiando la destra con la sinistra e l'alto con il basso.

Così definiti, come “forme chiuse”, la retta e il piano della geometria proiet- tiva hanno aspetti assai diversi rispetto alla retta e al piano euclidei, anche se, viste da vicino – al finito – entrambe le geometrie sono identiche tra loro e analoghe alla nostra intuizione dell'estensione fisica. Ma, se vista da lontano –

dall'infinito – e con gli occhi della topologia, la retta euclidea è una forma aperta (un segmento che non comprende i suoi estremi) e taglia il suo piano in due semipiani distinti, mentre la retta proiettiva (chiusa) non può dividere in due la superficie del piano proiettivo. Questo è topologicamente chiuso all'in- finito, cioè è una superficie unilatera e senza bordo. Al contrario, il piano eu- clideo è una superficie aperta e senza bordo che, di conseguenza, risulta avere due facce, come quella di un pallone156. La progressiva modellizzazione della

retta e del piano proiettivo (Gay 2004, cap.2) scandì un lento divorzio tra la realtà logica e topologica del modello e l'intuizione dello spazio fenomenico rappresentato dalla prospettiva. Semplicemente lo spazio implicato dalla pro- spettiva si trasformò nella figura geometrica di un “etere luminifero” che s'im- maginava pervadere tutto l’Universo dall'originario “fiat lux”: lo “spazio proiet- tivo”. Lo spazio proiettivo è la conversione in “sistema” del “processo” di proie- zione, messo in forma geometrica attraverso la più stretta economia possibile tra le condizioni logiche che legano il minimo insieme possibile di proposizioni fondamentali.