X. Un libro sui generis, questo
2. Dizionarietto di una teoria tascabile
2.6 Livelli generativi del piano dell’espressione
Un secolo di vita e poco più di un chilometro a piedi (tredici dei minuti di K.) separano le due occorrenze del monogramma dei tre anelli in Santa Croce e nella cappella Rucellai in San Pancrazio. Ma è come se il tempo non si sen- tisse. Le “imprese” fanno l'effetto di coprire istantaneamente la massima di- stanza tra i diversi piani del “processo generativo dell'espressione” (Fontanille 2008b, cap. 1). Sono spesso segni che emblematizzano (condensano) l'intero
stile vita di chi le porta e di chi li interpreta. Eppure, non sarebbero leggibili se
non come trasposizione (riduzione) di un testo virtuale incarnato in un oggetto fisico – non ci sono testi se non iscritti in oggetti – soggetto a una competente
pratica interpretativa. Non avrebbero senso fuori da un'intera scena pratica che
“metta in pratica” una strategia di interpretazione che, a sua volta, attualizzi (trasponga) dei valori di un intero stile di vita da un dato Ethos.
Tutto ciò̀ che chiamiamo “espressione” può essere considerato costituito dallo stratificarsi di diversi livelli di pertinenza (diversi piani d’immanenza), da quello dei semplici “segni” a quello dei “testi” in cui sono iscritti entro corpi oggettuali concreti, a quello degli “oggetti” che, a loro volta, hanno senso solo attraverso “strategie” all’interno di “pratiche” pertinenti in una data “cultura”. Le qualità̀ sensibili e materiali di ogni livello significante sono significanti perché sono materia espressiva che diviene “sostanza” significante solo trovando (astraendosi in) “forma”95 in un livello successivo che li integra: il segno trova
coerenza interpretativa solo nello spazio di un testo che “prende corpo” (og-
gettuale) che, a sua volta, “prende tempo” in una pratica (interpretativa) lungo
le tattiche di una strategia i cui atti realizzano i valori dell'Ethos di una certa “forma di vita”. Tutto ciò che chiamiamo “opera d'arte” è un oggetto che offre come condizione necessaria di costituire esattamente quello che i semiotici chiamano “testo”.96 E il fatto che quel testo sia categorizzato in un certo modo
piuttosto che in altri dipende ovviamente anche dal “cosa ne facciamo”. Se ora K. considerasse solo come un “segno” l’immagine dei tre anelli borro- mei figurata nella tarsia marmorea (Figura 18 A) al centro dell’abside del sacello Rucellai in San Pancrazio, gli potrebbe bastare quanto gli direbbe un icono- grafo. Si tratta semplicemente di un “emblema araldico di Lorenzo”, qui posto
95 Le proprietà sensibili e materiali degli oggetti sono assunte solo come pure forme
astratte definibili attraverso la relazione con altre forme astratte (l'insieme di ciò che se ne sa).
96 Nell'intendere la condizione di testo come preliminare a quella di opera d'arte con-
accanto ad altri tre emblemi delle (allora appena imparentate) famiglie Medici e Rucellai, collocati ciascuno nella specchiatura centrale di ognuno dei quattro fronti dello scrigno sepolcrale. Non sarebbe molto rilevante il fatto (pur evi- dente) che la geometria della formella dei tre anelli esprime (diagrammatica- mente) un’unità ternaria di “distinti” dualmente isolati.
Figura 18. (A) Leon Battista Alberti, Sacello Rucellai in San Pancrazio a Firenze, vista del fronte est con la formella centrale dei tre anelli (1467). (B) Foto che ritrae Jacques Lacan mentre disegna il diagramma Reale/Immaginario/Simbolico nella forma dei tre borromei al congresso della École freudienne de Paris, svoltosi al conservatorio di Santa Cecilia, Roma, il 1° novembre 1974.
Da quel punto di vista si tratta solo una delle “fantasie geometriche” (genere ornamentale) disposte nel partito delle 33 tarsie marmoree quadrate intarsiate che scandiscono i fronti del Sepolcro in una griglia quadrata lunga 11 e alta 3 riquadri. La collocazione di quella tarsia, protesa e centrale – sull’asse di sim- metria dell’abside Est nella testata dello scrigno sepolcrale –, potrebbe rispon- dere a ogni sorta di motivazione, ma non tutte della stessa e intensa “pre-
gnanza”. Per capire perché quella formella e quel “segno” sono messi proprio
lì, in evidenza, K. deve rendersi conto di essere immerso nella pratica di una «Visita al Sepolcro».
Il Sacello Rucellai non è una vera e propria tomba, è una trasposizione del Santo Sepolcro in una nitida architettura umanistica, nella forma di una stanza absidata (il Sepolcro) contenuta in un’altra stanza (la Cappella Rucellai) in modo che i disegni dello spazio contenente (Cappella) e dello spazio conte- nuto (Sacello) risultano quasi omotetici (contenuti entro proporzioni simili), con le loro superfici compartite in una rigorosa geometria tipografica di lesene
e trabeazioni, composti come se fossero una sola tarsia lapidea dispiegata tri- dimensionalmente.
La “Visita” alla Cappella ci obbliga in una dimensione concretamente tea- trale, commovente, che riesce a toccare a fondo (fino alle lacrime) anche il cuore (agnostico e illuminista) di K. come forse avrà toccato quello di un antico e religioso visitatore. La piccola costruzione del Sepolcro ha le dimensioni delle garitte tipiche delle Sacre Rappresentazioni nelle chiese medievali; con la Cap- pella costituisce una vera e propria trasposizione teatrale della “Resurrezione di Cristo” secondo il racconto evangelico. Al vano interno del Sepolcro si ac- cede, infatti, da una porta asimmetrica a sinistra, per evocare la stessa presenza virtuale del “messaggero indicante vestito di bianco” (l’angelo) all’interno del vano sepolcrale alla destra dell’ingresso. È l’angelo che, nel racconto evange- lico, rassicura Maria, Maria Maddalena e Salome con le parole che – seguendo Marco 16.6 – Leon Battista Alberti riporta (come in un fumetto) nella massima evidenza lungo il fregio del Sepolcro: YHESVM QVERITIS NAZARENVM CRVCIFIXVM SURREXIT NON EST HIC ECCE LOCVS VBI POSVERVNT EVM [«Gesù il Nazzareno crocefisso che state cercando è risorto, non è qui, ecco il luogo ove fu deposto»].
Nel correre del fregio scandito in perfette capitali romane è molto evidente una concomitanza tipografica. Sull’asse centrale verticale dell’abside, in corri- spondenza alla tarsia coi tre anelli borromei (o medicei), è la locuzione «NON EST» seguita, nel racconto, dalla deissi dell’angelo – «NON EST HIC» – sul vuoto del sudario del Cristo risorto. Di fatto il Corpo del Cristo «non è qui». Secondo dottrina, la sua assenza realizzata presupporrebbe la presenza attua- lizzata delle altre due ipostasi di Dio.
Questa trasposizione architettonica (e fumettistica) “in interno” del letterale racconto evangelico presenta al suo estremo (asse centrale della testata absi- data) la formella con l’emblema dei tre anelli borromei (medicei). E quel rac- conto evangelico si conclude letteralmente con l’istituzione della stessa mis- sione evangelica della Chiesa: «Andate dunque, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Matteo 28:19). Dunque, in queste circostanze (pratiche, sceniche e intertestuali) l’em- blema dei tre anelli borromei (medicei), per quanto provveda a un uso aral- dico, si fa leggere perlomeno con un suo significato “trinitario”. La sua pro- prietà topologica – congiunzione ternaria di tre coppie disgiunte – mostra visi- vamente il paradosso logico del dogma trinitario: la distinzione delle tre Per- sone, le tre ipostasi consustanziali dell’unico Dio (loro immanente).