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X. Un libro sui generis, questo

1. Le immagini nel progetto: una tipologia pragmatica

1.1 Introduzione in atelier

Sotto precise condizioni, qualunque oggetto potrebbe essere usato come im- magine strumentale nel lavoro di progettazione tecnica o artistica perché l’ideazione si svolge proprio come “trasduzione”28 tra immagini e si svolge

come costruzione di immaginari. Dunque, una tipologia funzionale (pragma-

tica) degli oggetti-immagine usati e prodotti dai progettisti non si presta facil-

mente a un'esposizione sistematica; sarebbe più agevole trattarla attraverso tantissime storie e casistiche concrete, rendiconti etnografici capaci di rappre- sentare le (diverse) “culture del progetto”, vuoi nella forma – soggettivata – del diario, vuoi in quella – oggettivata – del rendiconto etnografico. Un'esposizione narrativa – non filosofica – proverebbe a dar conto della flagranza, contin- genza, autenticità, apertura e imprevedibilità che domina sempre la progetta- zione come epicentro di “negoziati di valori” che riaggiusta le sue ipotesi strada facendo, vivendo quell'esperienza estetica che domina anche la dimensione tecnica. Per farlo dovremmo scrivere un romanzo scientifico in un manuale didattico.

Rivolgendoci soprattutto a lettori non tecnici (motivati ma non ingenui) che possono essere adeguatamente introdotti in alcuni aspetti dei tanti mestieri della progettazione, dobbiamo correre il rischio di cadere nella didascalia, nell'esempietto didattico. Il lettore deve poter appuntare l'attenzione su prati- che progettuali concrete e molto diverse tra loro e, allo stesso tempo, prendere distanze critiche (e ironiche) da questo testo. Ciò gli sarà più comodo potendo confrontare le proprie credenze con quelle di un simulacro dell'autore: il signor K. Costui sia immaginato come una sorta di (paradossale) media statistica delle competenze di un poietes, a mezza via tra arti e tecniche. Ci è dunque comodo immaginare K. come architetto, non tanto per via del nome del celebre agri- mensore letterario, ma per il carattere esplicitamente progettuale, allografico29,

28 La rete di immagini che costituisce l’ideazione non avviene sempre tramite “trascri-

zione”, perché le forme espressive coinvolte sono eterogenee, ma in forma di “traspo- sizione” fondata su una parte di contenuto comunemente presupposto alle diverse forme espressive.

pluriautoriale, politecnico, multiscalare dell'architettura radicata nei luoghi (geografici e ambientali). Nonostante l'effettiva marginalità dell'architettura nell'odierna cultura visuale, appuntare l'attenzione sulla pratica ideale dell'ar- chitetto – oltre ad essere stata la professione di chi scrive – offre soprattutto due vantaggi alla nostra trattazione:

i) il dominio dell'architettura è quello che più esplicitamente sembra abbrac-

ciare la nozione di “ambiente ibrido” o “associato” coniata da Simondon (1958) e per noi fondamentale, giacché – nel senso di una tecno-estetica – coinvolge esplicitamente anche le altre pratiche tecniche e artistiche;

ii) è un'arte che testimonia caratteristiche di allografia e di multiautorialità alle

quali – secondo la visione di Nelson Goodman – sembrano tendere oggi anche le arti autografiche.

L'ideale (tradizionale) di una disciplina architettonica collocata a metà via tra musica e medicina ci porta ad immaginare K. proveniente da una formazione eclettica e disordinata; proveniente da un'intensa pratica giovanile delle arti figurative e da primi studi universitari di medicina, K. si era dedicato all'arte di costruire nella convinzione che l'esperienza estetica facesse parte della cura del benessere umano. Nel proseguire delle sue esperienze immaginiamo che questo vago ideale giovanile si sia convertito in alcuni specifici valori che orien- tano spesso la sua azione. Possiamo riassumerne alcuni affermando che, per lui, l'arte di costruire:

- è una forma di produzione e modifica di oggetti concreti, luoghi e pratiche d'uso, cioè è introduzione di nuove “immagini solide” che vengono ricono- sciute e usate da una collettività in base a specifiche categorie culturali (l'origi- nalità non esiste, esistono solo molte originarietà);

- è un contributo alla costruzione di una parte della memoria culturale este- riorizzata nell'ambiente costruito, dove si consuma fisicamente il dialogo tra le generazioni passate e quelle future (una casa, una giacca o un minestrone fun- zionano anche come “monumenti”);

- è una pratica con la quale i luoghi insediati rifondano continuamente il progetto retrospettivo della loro identità, cercando di conciliare le opposte ne- cessità di “memoria” e di “nuova destinazione” (le costruzioni più autentiche sono quelle che non si riescono a datare).

Dunque, K. sostiene la tesi che l'architettura è “spazio contro tempo”, cioè che la memoria umana rimontata nell'immagine domestica, architettonica e urbana, …, per poter reggere alla necessaria (benefica) convivenza con l'oblio,

architettura, letteratura a stampa, arti algoritimiche digitali) – dotate di una sintassi ese- cutiva per cui è irrilevante distinguere un testo “falso” da una sua versione – e opere (e arti) istruite da testi “autografici” (ex. pittura, arti performative,…) – dense, senza sintassi che discrimini elementi formali e fisico-materiali, costitutivi e contingenti – si deve a Nelson Goodman (Goodman 1976) e resta un caposaldo delle definizioni dei diversi domini tecnico artistici. Qui ci atterremo in particolare al modo in cui il rapporto allo- grafia/autografia è trattato da Gérard Genette (Genette 1994) identificando la nozione di “opera” con quella di “testo”.

dev'essere viva, autentica e densa, tanto che la difficoltà nel datare un edificio sarebbe il sintomo e il criterio della sua riuscita.

Il lettore ora sa di aspettarsi da K. un certo interesse (ingenuo) per le immagini – nel senso più ampio e intenso del termine “immagine” –, può quasi scom- mettere sul sistema di valori di K., col vantaggio di poter, eventualmente, “prendere le distanze” da lui «e vedere di nascosto l'effetto che [gli] fa», come dice la canzone. Occorre canzonare seriamente.

Qui incontriamo K. in un atelier fiorentino, di fronte a un tavolo ampio, in- vaso da un affastellamento di oggetti in un disordine quasi sciatto, ma che lui conserva con cura, come l’effettiva “mappa” dei suoi lavori in corso, e che guarda, ogni tanto, con quel minimo di pietà (domata in fondo a certi sguardi) ch'egli deve ai segni delle sue fatiche ancora irrisolte. Una radiolina trasmette la voce di Paolo Conte che canta Sandwich man, una canzone che risuona nell'atelier mettendo ironicamente in scena una situazione simile al tipico mo- nologo dialogante di ogni progettista col suo progetto.

«Se mi dici che tu mi ami non ci credo però, / è un peccato se non mi ami, questo almeno lo so. / sandwich man, sandwich man / cartellone di cinema che passeggia per la città / sandwich man. / sono io, sono io caricato di immagini / che mi dan le vertigini, sono io / sento la mia vita che sta diventando un film / sì ma l'ho già visto e non mi piace questo film...».

In effetti progettare è una pratica amorosa ma faticosa perché il decidere a “ragion veduta” è sempre un atto solitario, anche quando le responsabilità sono ripartite tra tanti o tra molti. Dovendo “vedere bene” le diverse (e contrastanti) “ragioni” del progetto, chi progetta è assediato da una pletora di “rappresenta- zioni” e, progettando, è portato a confondere le immagini interiorizzate con quelle esteriorizzate. «… parli tu, parlo io, trascinando per la città / le parole

del cinema, parlo io / parla tu, parla tu, tanto io mi nascondo qui, / in un sand- wich della réclame, …». È difficile distinguerle definitivamente perché le im-

magini, in quel caso, sono come fantasmi che assumono il sostegno di corpi diversi; poi si traducono plasticamente tra diversi canali sensoriali – «la do-

manda è rosso fuoco e la risposta è blu» –, attraversando anche diversi media

e generi di testi e di oggetti – «Voglio gli indiani, non voglio l'amor!» –, in un odierno Iconic turn del quale innumerevoli autori hanno ormai cantato l'e- brezza o l'angoscia.

Tuttavia, le “immagini” intese nel senso più comune sono quelle incarnate in oggetti fisici, leggibili a due, tre o quattro (e più) dimensioni: sono disegni e fotografie, maquettes, film o simulazioni animate digitali. Sono queste le uni- che immagini trattate dalla manualistica italiana sulla rappresentazione

progettuale30. Si tratta di oggetti-immagine dei quali l'atelier è sempre più in-

gombro, ma pur nella loro molteplicità, questi elaborati sono ordinabili in “ge- neri pratici” determinati, appunto, dalle pratiche più comuni e urgenti nelle quali tali oggetti sono utilizzati lì. Un rapido inventario pratico di questo tipico

atelier porterebbe ai seguenti tre generi di immagini intese come prodotti arti-

gianali (autografi o allografi) anche quando sono fabbricati con strumenti infor- matici e giacciono in formato digitale:

Generi pratici di ela-

borati Principale criterio di valutazione pratica de-gli elaborati

Genere discorsivo della pratica (in termini aristotelici) Elaborati tecnici ese-

cutivi e di rileva- mento

Il "verosimile" della rappresentazione, in ter- mini di coerenza geometrica e di fedeltà re-

ferenziale giudiziario

Elaborati euristici e simulazioni proget- tuali

L' “efficacia” della figurazione nella sua azione utilitaria, strategica, descrittiva dei

tratti dell’oggetto in progetto deliberativo

Elaborati a valore ar- tistico autonomo

Il “bello” della raffigurazione, inteso nella dimensione retorica e figurativa (intrinseca

ed estrinseca) dell'oggetto epidittico

Quest'ordine discorsivo corrisponde dunque a tre evidenti livelli e tipi di ne- cessità pratica e per poterne discorrere al meglio credo che dobbiamo usare i tre diversi e appropriati generi del “Discorso” che Aristotele fissa nella Retorica:

1°) “giudiziario” (regolato dal criterio del “verosimile”) per gli elaborati tec- nici,

2°) “deliberativo” (intorno all’azione utilitaria) per gli elaborati euristici, e 3°) “epidittico”, cioè relativo all’argomentazione retorica vera e propria, il cui criterio di pertinenza è, in definitiva, il “bello” per il quale un oggetto-imma- gine di svariata origine s’iscrive oggi – non ai tempi di Aristotele – nel dominio sociale dell’arte.

Naturalmente questa è una tipologia d'usi, tant'è che a uno stesso elaborato può capitare di appartenere a tutte e tre le categorie. Per esempio, è il caso di uno schizzo in forma di disegno tecnico in pianta e alzato – come quelli trac- ciati a mano libera da Mario Ridolfi – quotato e pronto a istruire un'esecuzione edilizia, ma esposto e riprodotto per le sue autonome valenze estetiche. D'al- tronde – come vedremo (§ 1.4) – l’ideazione degli artefatti visuali (fatti per essere visti) è sempre istruita (§ 1.3) attraverso altri artefatti visuali. Case, città,

30 Seguendo alcune osservazioni di Massironi (Massironi 1982) e Giovanni Anceschi

(Anceschi 1992) adottiamo qui la ripartizione in tre generi funzionali, già in (Testa e De Sanctis 2003), delle rappresentazioni grafiche progettuali trattate dalla manualistica ita- liana più tradizionale (Petrignani et al. 1967) (Musmeci e La Torre 1982) (Boraso 2004).

abiti, monumenti, sculture… che si apprendono a “vedere ad arte” attraverso foto, film…, insomma, altri media e pratiche d'immagine.