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X. Un libro sui generis, questo

1. Le immagini nel progetto: una tipologia pragmatica

1.4 Elaborati di autonomo valore artistico

Già prima di terminare la sua vita attiva, un atelier può essere, in parte, anche un museo che conserva filologicamente la disposizione tipica di alcuni oggetti esposti. Alle pareti dell'atelier di K. sono esposti disegni, dipinti, fotografie e

maquettes; ma questi oggetti non c'entrano più (direttamente) coi progetti in

lavorazione sui tavoli. Si tratta di elaborati incorniciati, protetti, ben esposti, autografi e, quasi tutti, a soggetto architettonico: un dipinto di Arduino Canta- fora, un piccolo teatrino sottovetro di John Hejduk, un biglietto d'auguri e una fotografia di Carlo Mollino, una stampa di Vittorio De Feo, un acquarello di Antonio Longo, un manifesto di Max Bill, un bassorilievo molto rovinato di Renato Rizzi, un aggregato di schizzi progettuali originali chiaramente tracciati dalla mano di James Stirling, ecc. Ma c'è una differenza intrinseca tra questi oggetti-immagine esposti e quelli degli stessi generi – anche “più belli” – che ingombrano i tavoli da lavoro dell'atelier e che non hanno avuto l'onore dell'o- stensione in cornice, su piedistallo, in teca o su pagina pubblicata?

1.4.1 Un separato domino pubblico

Quando uno schizzo progettuale, estrapolato dalla sua cornice pratica (euri- stica) e dai suoi paratesti, viene esposto non è più un elaborato strumentale a uso privato: passa a un dominio altro, assolutamente pubblico. Poco importa dove, perché, per chi o per cosa si sia stata prodotta una raffigurazione a sog- getto architettonico; quando la si mette in cornice, o in mostra, o in scena, o in catalogo, o in vetrina, o in onda, o in rete, o in banca, … diventa un'altra cosa, cambia genere oggettuale e campo di valutazione. Passa in secondo piano il fatto che l’immagine esposta raffiguri un dato oggetto: esponendola in quel modo la si propone come “emblema” di un modo di formare oggetti, ambienti e atmosfere.

K. espone gli schizzi originali di Stirling non perché abbiano un maggior prezzo sul mercato del modernariato o che – per lui – gli “originali autografi” esposti abbiano un valore feticistico, come reliquie. Forse K. è un collezionista, ma non ha una particolare passione per le reliquie biografiche o autobiografi- che. Crede certamente che gli oggetti-immagine siano tutti delle evocanti “tracce di vita”, ma lo crede soprattutto per aspetti formali più che sostanziali. Dunque, se le pareti dell'atelier di K. fanno mostra di un qualche “feticismo” o reliquiario; non si tratta di un fatto privato, ma, al contrario, di un vasto feno- meno culturale, pubblico e collettivo: un fatto di “genere” (anche merceolo- gico) di oggetti-immagine.

L’uso emblematico di una raffigurazione progettuale si basa sul fatto che la visibilità degli artefatti visuali (di qualunque categoria siano) è sempre istruita attraverso altri artefatti visuali. Ciò che cambia è la scena pratica nella quale questi oggetti-immagine entrano in funzione. In questo caso si tratta

dell'esposizione di disegni originariamente tracciati nella flagranza di un'occa- sione di progetto edilizio, fatti solo in funzione di quel dato progetto e non certo – in origine – per essere venduti ed esposti come “nature morte”, vedute, composizioni plastiche, … Ma esponendoli come tali li si inserisce nel circuito collettivo nel quale anche gli oggetti materiali sono progettati per essere visti, cioè come “artefatti visuali”.

1.4.2 Rendering

Si potrebbe (ingenuamente) credere che il lavoro di visualizzazione di una soluzione progettuale, come quello che simula esattamente la vera (fenome- nica) apparenza ottica o plastica del prodotto realizzato, sia solo l’ultima fase della elaborazione tecnico-esecutiva del progetto. In realtà la visualizzazione pubblica di un oggetto è un lavoro retorico, è una “raffigurazione” persuasiva che risponde a ben altra ratio.

La raffigurazione persuasiva, non funziona come una prototipazione, fab- brica un nuovo oggetto-immagine che s’iscrive in un dato circuito sociale di oggetti-immagine – grafica, pittura, fotografia, cinema, … – che appartengono a un dominio separato, autonomo rispetto a quelli dell’architettura, dell’urba- nistica o del product design. In questo caso l’oggetto raffigurato non è che il “pretesto” della raffigurazione. D’altronde il mestiere di visualizzatore – come quello del pubblicitario, del divulgatore scientifico, … – ha sempre avuto una sostanziale (pragmatica) autonomia rispetto al progettista o allo scienziato, an- che quando i due ruoli erano e sono impersonati dallo stesso autore.

Persino il rendering più fotorealistico – analogico o digitale – di un oggetto vuole anzitutto valere come “fotografia”, “brano cinematografico” o “video- clip”, ed è in quei dati circuiti, generi e domini che, praticamente, si misura il suo valore.50 Benché prodotti dalla più avanzata computer grafica ad opera di

professionisti – i Digital Artist – specializzati nel settore della visualizzazione di ambienti, architetture e prodotti industriali, i rendering fotorealistici cercano di replicare proprio i difetti ottici e gli stereotipi storici della fotografia o del ci- nema. Pur utilizzando i sempre più efficienti motori di simulazione dell’appa- renza ottica, la raffigurazione digitale giunge a prodotti efficaci quando simula l’opacità di altri media di immagine. Insomma, per capire la ratio della raffigu- razione digitale dobbiamo rivolgerci a quegli studi di cultura visuale che met- tono a fuoco anzitutto la dimensione storico-mediologica delle immagini.51 Il

punto di vista storico-mediologico ci consente di capire come il formato visuale dell’immagine digitale cerchi di stratificare i media precedenti, contenuti uno dentro l’altro: il videogioco, il cinema, la fotografia, la pittura e il disegno.

50 Nella vasta bibliografia sui risvolti pratici della visualizzazione fotorealistica digitale

in architettura e design del prodotto mi sono risultate assai perspicue due tesi di dotto- rato: (Greco 2019) e (Farinella 2019).

Ciò risulta ancora più evidente nei casi del rendering non fotorealistico, dove l’enorme varietà dei formati visuali chiama direttamente in causa dispari generi della grafica, dell’imaging medicale, della visualizzazione scientifica.

In tutti casi dello spostamento di un oggetto da una pratica strumentale (eu- ristica o esecutiva) a un'altra, più valorizzata e ritualizzata come “estetica”: il dominio dell’arte.52

1.4.3 Allegorie e visioni

Ci chiediamo se, con altrettanta efficacia, K. potrebbe esporre su muri e scaf- fali del suo atelier, per esempio, un foglio di computo metrico estimativo, un campione di intonaco, o di pavimentazione, oppure un vecchio pisciatoio, magari come monumento intitolato a Duchamp.

Tra i celeberrimi oggetti esposti da K. troviamo l'accurata prospettiva con om- bre che Arduino Cantafora tracciò raffigurando un progetto del suo amico Aldo Rossi (Figura 4 A): è un magnifico disegno che oggi si classificherebbe come “rendering”. Ma sono raffigurazioni di oggetti progettati anche (Figura 4 B) una copia fedele dei teatrini in scatola (quasi dadaisti) che John Hejduk presentò tra le rappresentazioni del suo secondo progetto veneziano.

Figura 4. (A) Arduino Cantafora, La città analoga (1973) olio su tela 7x2 m. (B) John Hejduk, le “tredici torri di guardia a Cannaregio” (1978), veduta e teatrini con sezioni in bassorilievo prospettico (Dal Co 1980).

Queste “opere” appartengono ormai al macro-genere – antichissimo e

52 Sul tema della definizione del dominio dell’arte mi riferisco spec. a (Basso Fossali

attuale – della pittura e della plastica a soggetto architettonico; valgono ormai nella loro individualità autografa, per la loro “aura”, per le loro caratteristiche di prodotti artigianali, anche se questi nuovi oggetti non dismettono le loro relazioni con la cultura architettonica. Ma le loro relazioni con la cultura archi- tettonica si danno solo in separata sede, “mediatamente”. Questi due oggetti, per esempio, sono tra gli innumerevoli casi significativi nei quali l'architettura si è realizzata solo sulla carta, sulla tela o nella simulazione digitale o cinema- tografica, cioè si è realizzata solo come “soggetto” di opere di un'altra arte53.

Naturalmente nel commercio d'immagini tra opere di arti diverse, si realizza anche il percorso inverso alla traduzione di architetture in altri oggetti-imma- gine; è il caso in cui manufatti non edilizi, destinati a diversi usi estetici entrano nel novero culturale dell'architettura. C'è, per esempio, un evidente “conte- nuto architettonico” in un'incisione di Piranesi o in una sequenza filmica di Ėjzenštejn, e questo fatto ci ricorda che la pratica dell'architettura e del design nella sua intera storia si è sempre nutrita delle altre arti. Ciò è avvenuto e av- viene nel complesso della circolazione delle immagini tra oggetti di genere e dominio culturale diverso. Spostando oggetti-immagine da una scena pratica all'altra si sono anche spostate, smontate, rimontate..., immagini da un medium all'altro.