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X. Un libro sui generis, questo

1. Le immagini nel progetto: una tipologia pragmatica

1.3 Elaborati euristic

Quando consideriamo gli elaborati di rappresentazione come strumenti figu- rativi o prefigurativi della progettazione in atto, essi valgono come strumenti euristici, almeno se sono usati per prendere decisioni in corso d’opera, in ade- renza a specifiche morfologie, utilizzati per parametrizzare le forme signifi- canti, a partire dalle proprietà materiali, plastiche e iconiche dell'oggetto in progetto. Le immagini del modello digitale BIM dispensate dagli schermi del computer non sono i veri “elaborati euristici” del progetto; ne sono solo gli effetti. Gli autentici elaborati euristici, invece, sono le tracce più visibili e co- genti del vero lavoro d'ideazione, sono le espressioni concrete della comuni- cazione tra gli autori del progetto, anche quando si tratta del monologo inte- riore di un solo progettista. Sono quel che si vede direttamente entrando in un vero (vissuto) atelier – vincendo il legittimo pudore dell'artista, dell'architetto, del medico o del cuoco – è la faccia privata dell'officina artistica e tecnica, quella che mostra il modo in cui il progettista si tiene presenti gli strumenti di lavoro e, tra questi, le tracce di alcuni ingredienti usati nei progetti, distribuiti su tavoli di montaggio, di cucina o di laboratorio d'analisi; e magari si dispon- gono amorevolmente, come le statuette di un presepe napoletano, verso la natività di un oggetto di valore. Sono questi strumenti di una razionalità tutt’al- tro che sequenziale, come spiega Gilbert Simondon (2010, p. 129) nel suo

Corso sulla comunicazione del 1970 osservando che

«non è affatto facile usare le macchine per mettersi in comunicazione con se stessi per formare un sistema soprassaturo favorevole all’inven- zione e capace di raggruppare gli schemi e le conoscenze anteriori; le macchine (registratori, curvigrafi, …) sono ausili dell’invenzione, ma la

specie più alta di comunicazione (quella che s’istaura nello stesso indi- viduo tra differenti conoscenze e diverse esigenze) non può essere sol- tanto di tipo sequenziale; la simultaneità è necessaria all’invenzione giacché l’invenzione è la risoluzione di un problema inizialmente as- surdo, ma infine coerente grazie alla scoperta di un sistema di compati- bilità, di un ordine superiore a quello dei dati; tutti gli apprendimenti, quelli del linguaggio come le immagini della spazialità, possono concor- rere all’invenzione ma non sono affatto sufficienti a garantirla; l’inven- zione resta ciò che fa apparire una necessità post facto rendendone pos- sibile una comunicazione tra sistemi di comunicazione primitivamente intraducibili; il senso dell’invenzione è l’auto-costituzione di norme; l’invenzione non è una comunicazione, ma è una comunicazione tra comunicazioni, un sistema di sistemi istituito a un livello di complessità superiore a quello dei sistemi preesistenti»39.

Dunque, gli strumenti dell’invenzione – tra i quali si annoverano gli elaborati progettuali – hanno un senso necessariamente parziale, sempre in attesa di compiersi in un più complesso ordine di fatti e adeguazioni. Perciò, qualunque cosa, purché sia funzionale a un qualche processo euristico, potrebbe assur- gere al ruolo di strumento progettuale in un’invenzione. Ma è necessario al progettista capire molto bene “come” una qualunque “cosa” possa divenire un elaborato euristico in un progetto.

Un elaborato utile a un processo euristico deve soddisfare almeno due con- dizioni funzionali: i) quella (necessaria) di mostrare gli aspetti “pertinenti” a un dato aspetto dell’invenzione e ii) quella (sufficiente) di evidenziare i tratti “rile- vanti” per l'intero progetto.

Dunque, questi elaborati svolgono anche una funzione “persuasiva”: con essi si cerca di mettere d'accordo l’autore con se stesso e con tutti gli autori – gli attori del processo – su alcuni valori in gioco, specialmente sulla pertinenza locale e sulla rilevanza globale degli aspetti presi in considerazione.

39«qu'il n'est pas facile d'utiliser les machines pour se mettre en communication avec

soi-même afin de former un système sursaturé favorisant l'invention et groupant les schèmes et les connaissances antérieures; les machines (enregistreurs, traceurs de courbes ... ) sont des auxiliaires de l'invention, mais l'espèce la plus élevée de commu- nication (celle qui s'instaure dans le même individu entre différentes connaissances et différentes exigences) ne peut guère être de type uniquement séquentiel; la simulta- néité est nécessaire à l'invention, qui est une résolution de problème initialement ab- surde, mais enfin cohérent par la découverte d'un système de compatibilité d'un ordre supérieur à celui des données; tous les apprentissages, ceux du langage comme les images de la spatialité, peuvent concourir à l'invention mais ne suffisent pas à l'assurer; l'invention reste ce qui fait apparaître une nécessité post facto en rendant possible une communication entre des systèmes de communication primitivement intraduisibles; l'invention a un sens d'auto-constitution de normes; elle n'est pas une communication, mais une communication entre des communications, un système de systèmes, institué à un niveau de complexité supérieur à chacun des systèmes préexistants» (Simondon 2010, p. 129).

Sono questi gli elaborati che tessono realmente il processo progettuale, dan- dogli forma e precisandone il senso. Nella parte maggioritaria della letteratura sul tema, il processo progettuale è assimilato allo sviluppo di un “problema”, anche quando il progetto – come ben avvisa Simondon – non è affatto forma- lizzabile in un “problema ben definito”, almeno nel senso che questa locu- zione ha in buona parte degli studi cognitivi sull'organizzazione progettuale40.

1.3.1 Problem Solving e/o Problem Building

In generale, la condizione progettuale non è sempre così facilmente codifi- cabile tra i casi contemplati dalle tecniche di problem solving. Perché un pro- getto si possa considerare come “problema solubile” (cfr. spec. Simon 1973) è necessario che sia chiaramente formalizzato e verificato nei suoi mezzi, fini, realizzabilità e conseguenze. Cioè, è necessario trovarsi in una situazione co- gente in cui si possa distinguere chiaramente uno “stato di fatto” (con aspetti indesiderati) da uno “stato desiderabile” in modo che il progetto non sia che la trasformazione tra questi due stati, cioè sia rappresentabile come una sorta di “percorso” del quale si conosce esattamente il punto di partenza e quello di arrivo41. Poi è indispensabile sapere bene se e in quali termini si possa trasfor-

mare la situazione in corso: cioè sapere quel che “si può” effettivamente fare, conoscendo i “mezzi” a disposizione e quali “vincoli” (di ogni tipo) si debbono considerare in un chiaro ordine di priorità. Inoltre, bisogna conoscere le con- seguenze di ogni decisione ammissibile nel corso del progetto. Solo a queste severe condizioni un progetto sarebbe assimilabile a un “soluble problem” e le decisioni progettuali paragonabili – come fanno alcune teorie cognitive del progetto (ex. Neisser 1981) – alle mosse di un “gioco” come gli scacchi o un piccolo puzzle. In quel caso si potrebbero forse definire delle strategie di ri- cerca delle soluzioni come quelle che si applicano in alcuni compiti progettuali strettamente tecnici, ben definiti, sperimentati, standardizzati e quasi rutinari o algoritmici.

Ma la situazione di un qualunque progettista di artefatti tecnici e artistici non è esattamente quella di un chirurgo che si trovi di fronte a un evidente caso di peritonite mortale, e nemmeno quella di un ingegnere che deve calcolare lo spessore di una trave sottoposta a un dato carico e dati vincoli applicando, per es., la teoria dei lavori virtuali. La realtà delle pratiche progettuali è ben altra, è molto più vicina all’invenzione che all’esecuzione di un protocollo. General- mente anche i progettisti più ortodossi e metodici dispongono di analisi assai

40 Cfr. in particolare (Newell e Simon 1972).

41 Generalmente una mappa dello “spazio del problema” nei termini in cui sarebbe

trattabile dalla (simoniana) “scienza del progetto” non è facilmente riferibile alle con- crete condizioni di un progetto non rutinario. In alternativa, nel capitolo 5, tenteremo tuttavia di utilizzare a questo scopo il diagramma del quadrato semiotico della valoriz- zazione (di Floch) rivisto alla luce delle considerazioni di René Thom (Thom 2011) nel suo seggio sulle Strutture cicliche in semiotica.

poco esaustive dello stato di fatto, e non possiedono certo una prefigurazione profetica del “migliore (o del peggiore) dei mondi possibili”. A parte le prospet- tive utopiche o distopiche, anche ciò che si chiama “analisi dello stato di fatto” in un progetto limitatissimo è già una selezione degli aspetti ritenuti significativi, dunque è già una deliberata scelta progettuale. C'è un'ineludibile circolarità er- meneutica nel progetto, anche perché un compito progettuale, pur semplice e limitato, può dischiudere l'occasione – fagocitata con brainstorming iniziali – di una piccola rivoluzione di senso; è questa speranza che fa di ogni progetto una situazione più prossima a forme di Problem building che al classico Problem sol-

ving.

Certo, mi direte: ma, tentare di dare al progetto la “forma del problema” – traducendo il brainstorming in una mappa gerarchica – è un modo per poterlo controllare attraverso una divisione del lavoro, razionalizzando le azioni in pro- cedure condivise tra i diversi attori in gioco. Anche nel monologo interiore del progettista solitario ciò che si “mette in scena” è una situazione di dialettica tra tesi antitetiche in cerca di una sintesi. Ma le “forme del problema” sono, al limite, tante quante sono le forme di progettazione e i progettisti stessi, cioè quanti sono i domini, gli ambiti e gli stili di lavoro42.

1.3.2 Schizzi e diagrammi: epigenesi topologica e topografica del progetto

Osservato al lavoro – registrandone i protocolli d'azione43 – ogni progettista

mostra proprie strategie euristiche, anche quando non è cosciente di seguire un metodo rigoroso di design. Gli elaborati euristici ch'egli usa possono essere i più disparati; non avrebbe molto senso classificarli a priori, distinguendoli per la loro sostanza espressiva, o per il codice cui fanno riferimento nel funzionare come rappresentazioni; semplicemente essi si distinguono vedendoli “in opera” nel corso dell’invenzione.

Nella progettazione di oggetti urbani, edilizi e industriali gli schizzi autografi, di solito, sono considerati i principali elaborati euristici, i veri testimoni – le vestigia della epigenesi del progetto44 – che portano i segni dell’autore nella

loro flagranza espressiva, nella loro selezione critica degli aspetti più

42 Per “stile” intendiamo il carattere costante nel ricorrere a un certo tipo di strategia

di lavoro, come riconosce lo stesso Simon (Simon 1975), ma secondo una nozione che assume un rilievo particolare nell'estetica della formatività (Pareyson 1960).

43 L'analisi dei protocolli d'azione (Ericsson e Simon 1993) può essere applicata alla

descrizione delle interazioni del progettista con compiti specifici, come dimostra un ambito di studi (spec. Schön 1983) che privilegia l'analisi empirica obiettivata e talora la pratica dell'auto-osservazione del progettista (Galle e Kovács 1992), della propria auto-narrazione verbale (Davis 1995) specie quando approda a complesse costruzioni letterarie come le celebri autobiografie degli architetti: “epiche” (Wright 1977; Pouillon 1964) o “scientifiche” (Rossi 1990).

44 Innumerevoli dalla storiografia le analisi genetiche di progetti condotte su corpora

di schizzi. Anche nell'approccio cognitivo al disegno (Sommers 2009) e al suo ruolo nei metodi del design è spesso trattata la ricerca per sequenze grafiche (Lawson 1980; Fish 1996); Verstijnen 1997).

significativi. Inevitabilmente, fatalmente, guardiamo uno schizzo sempre attra- verso una prospettiva genetica, giacché s’intende lo sketching come prefigura- zione grafica di un oggetto in termini ottici, topografici o topologici, a diversi gradi di definizione, cioè di i) completezza (mereologica), ii) concretezza (geo- metrica) e iii) varianti (casistica). Uno schizzo può esprimere “l’embrione” – il “generatore primario”45 del progetto – cioè un diagramma che ritrae la solu-

zione a un certo grado di (i) completezza-incompletezza, (ii) astrazione-con- cretezza e (iii) di esemplarità tra le alternative possibili. Perciò lo schizzo, per poter ritrarre meglio la soluzione progettuale, gode della massima libertà di scelta e di ibridazione delle forme di rappresentazione visuale – dai pitto- grammi e mitogrammi fino alle vedute e alle mappe topografiche e topologiche –, delle tecniche espressive – grafiche, pittoriche, tipografiche, analogiche o digitali – e dei formati visuali. Anche sui tavoli e sui pannelli a parete dell’atelier di K. – come prevedibile – troviamo immagini molto diverse (diagrammi, grafici tecnici, mitogrammi, abbozzi quasi pittorici o quasi fotografici) e collages, con altre pagine sfuse, variamente stampate, con fotografie, disegni su foto, brani di testo accompagnato da brevi formule letterali e numeriche. Una congerie di oggetti visuali molto diversi eppur convocati lì solo per partecipare a uno stesso “gioco rappresentazionale”. Nonostante la vertiginosa libertà espressiva, lo schizzo è sempre, semioticamente, un caso di diagramma: è un “testo” iscritto in un oggetto fisico (foglio, libro, schermo o modellino) che rappresenta un altro oggetto attraverso una sincope della forma, cioè una trasposizione che ne riduce (immerge) progressivamente le sue dimensioni spaziali, corporee, tatti- che, prassiche, valoriali. Il diagramma è interpretabile solo se risponde a spe- cifiche regole di riduzione per ricostruire le dimensioni figurate del suo oggetto. Da solo uno schizzo non ha alcun senso euristico, sebbene possa essere espo- sto isolato per il suo intrinseco valore espressivo; ma questa è tutt’altra ratio (§ 1.4). Lo schizzo ha un senso solo intertestuale, nella rete di diagrammi e di regole interpretative che tesse un progetto. È in questa rete – si veda ad esem- pio la Figura 2 – che l’incompletezza e l’astrazione dello schizzo valgono come descrizioni delle potenzialità della forma, come sintesi top-down (dal tutto alle parti) o come sua attualizzazione in un’analisi bottom-up (dalle parti al tutto). Lo schizzo è sempre una visualizzazione parziale, orientata da un certo punto di vista e contenente una quantità limitatissima di informazioni: il resto vi resta implicito, per dispiegarsi esige spiegazioni, un punto di vista e un orientamento sull’oggetto raffigurato.

Figura 2. Esempi di Schizzi progettuali da Christopher Alexander, Note sulla sintesi

della forma (Alexander 1967). A) diagramma che vale come “schema di forma e di

requisito funzionale” se inteso come la mappa di un potenziale svincolo stradale nella quale lo spessore dei tratti è proporzionale alla quantità dei veicoli giornalieri che lo percorrono nelle direzioni indicate, dunque utile a dimensionare le sezioni stradali in funzione della loro portata. B) Albero gerarchico dei diagrammi per il progetto di un villaggio indiano: le prime quattro diramazioni sintetizzano le classi di requisiti: 1- be- stiame, carri, combustibile; 2 - produzione agricola, irrigazione, distribuzione; 3 - vita collettiva sociale e industriale; 4 - vita privata e piccole attività.

Così anche K. deve spiegarci – raccontando i progetti – come i suoi schizzi trovino senso e ordine in vista di una “posta in gioco” (in progetto) che è la scoperta di tratti e proprietà di qualche cosa in corso d'ideazione. Parte dalla “Posta” (il contenuto) per spigarci il “gioco” delle rappresentazioni. Soprattutto quando spiega come mai sui suoi tavoli vi siano schizzi non grafici, ma delle pseudo-maquettes46. Per esempio, egli ci indica un gruppo di scatolette acca-

tastate, di matite consunte e di pochi pezzi degli scacchi che, nella loro fortu- nosa o calcolata configurazione sul tavolo, formano una sorta di “natura morta” che K. ha allestito per rappresentarvi – in un’astratta e schematica maquette – la disposizione (distribuzione) degli spazi interni di una coppia di edifici adia- centi: quelli che sta progettando sulla base di quanto richiesto da un bando di concorso milanese. Ci spiega – proferendo una trama di periodi ipotetici – che quella composizione di oggetti presi a caso ma disposti con cura – “a ragion veduta” – ha lo scopo di focalizzare la sua attenzione sui soli rapporti topologici che possono stabilirsi tra le parti (spazi) principali del complesso edilizio che sta progettando, facendo astrazione di tutto il resto. Per vedere quella “ragion

veduta” dobbiamo capire il “gioco”, cioè dobbiamo sostenere quel che ve- diamo con quel che immaginiamo: dobbiamo guardare “come se”. K. ci invita a usare quegli oggetti come se fossero al contempo metà “reali” e metà “im- maginari”, imboccando un’immaginazione ludica, esattamente come fa il bam- bino A cavallo di un manico di scopa (Gombrich 1976).

Tanto più astratto e schematico è il modello fisico su cui si lavora, quanto più esso è disponibile a precisarsi in aspetti e concretizzarsi in varianti potenziali di un medesimo schema. L'uso di oggetti banali (presi a caso ma disposti “a ragion veduta”) serve a K. solo come promemoria di quel “resto” sostanziale ignorato dalla configurazione topologica delle parti. Un buon modello è quello tanto astratto da mostrarci solo quel che serve alle operazioni formali, ma ab- bastanza concreto da non farci dimenticare che c'è del resto. Quel “resto so- stanziale” che va affrontato con altri, più appropriati, modelli e descrizioni. Grazie alla configurazione sensibile di quegli oggetti la nostra immaginazione progettuale trova supporto, ne comprende le diversissime relazioni.

È perciò che – per esempio – la versione stampata, annotata e sottolineata di quel bando concorsuale, al quale il progetto di K. cerca di rispondere (vin- cendo la competizione d'idee), si trovi accanto a un foglietto con alcuni dia- grammi meccanici coi quali lui calcolava di contenere lo spessore di solai molto estesi e la pressoflessione di pilastri troppo sottili. Si capisce perché sul suo tavolo i diagrammi meccanici si confondono con ancora altri “modelli” che si potrebbero distinguere tra immagini che evocano soluzioni esemplari per il progetto – solution shift 47 – e schizzi autografi di K.

Insomma, capiamo che l’epigenesi progettuale non parte certo dalla pagina bianca dello schizzo, ma da un’immaginazione ludica nella quale gli oggetti- immagine valgono perché impersonano il “ruolo” assegnato loro dal “gioco teatrale” (laboratoriale) del progetto.

1.3.3 Il teatro agonistico degli exempla

I progetti nascono da altri progetti, non da pagine bianche. Se escludiamo le credenze dei “creatori” ex nihilo che fidano nella loro ignorante originalità, la forma più canonica del progetto è ancora la poiesis per mimesis (§ 0.3), è sem- pre e solo genealogica, cioè è trasformazione di modelli antonomastici (exem-

pla).

Gli schizzi di K. hanno un senso specifico solo se collocati nelle questioni aperte dal progetto in rapporto agli exempla evocati da altre immagini. Per esempio, K. continua a spiegare che con questi suoi schizzi tentava d’inseguire

47 Il riciclo di soluzioni progettuali è di fondamentale importanza in diverse metodo-

logie della progettazione razionale: cfr. per es. (Cross, Christiaans, e Dorst 1996), so- prattutto i suoi casi particolari nella tecnica delle citazioni dirette hanno un notevole rilievo specialmente in architettura – come esemplificheremo in § 2.4, a proposito delle

prove di permutazione e di commutazione – e, più in generale, riguarda l'intera nozione

una variazione su temi figurativi testimoniati da un edificio egizio dell’Antico Regno la cui immagine è lì, a portata visuale, dalle pagine aperte di una vecchia enciclopedia. Il centro di quel suo teatro della memoria progettuale è proprio quella fotografia dell’anastilosi di un “finto” padiglione nel cortile della festa

Sed nel complesso funerario del faraone Djoser a Saqqara (Figura 3). È la foto

di quella facciata in pietra del 2600 a.C. che fronteggia dalla parte opposta del tavolo una pila di recenti riviste tecnologiche sgargianti di pubblicità patinata e di diagrammi prestazionali.

Figura 3. (A) Pagina (Badawy 1948, p. 23) con ricostruzione grafica del tempio di Athor in materiali vegetali. (B-D) Complesso funerario di Djoser a Saqqare: (B) Foto dell’anastilosi di una cappella altoegiziana del cortile del Giubileo; (D) resti della “Casa del Sud” e ipotesi ricostruttiva (C) della facciata (Lauer 1936).

Per K. è l'oggetto antico quello che propone la vera “posta del gioco” rinno- vando, con la sua efficacia espressiva, una sfida che parte dalle origini stesse dell’architettura occidentale e del suo ornato come traduzione in pietra delle forme archetipiche delle costruzioni sacrali in materiali vegetali. Ci spiega K. che quella disposizione spaziale di libri e riviste contrapposti sul tavolo gli ri- corda il fatto che l’arte di costruire non progredisce linearmente nel tempo, non progredendovi nell’uso significante delle forme. L'immagine del padiglione egizio evoca – da un passato lontanissimo – un compito estetico che s'affaccia nell’attuale panorama d'immagini progettuali che K. tiene d'occhio. In questo panorama fanno vedere le loro “ragioni forti” e vincolanti anche i valori pratici del progetto, richiamati dalle pagine del bando di concorso, dai prontuari tec- nologici, dalle simulazioni di computi metrici estimativi, dai cataloghi di

componenti, dai testi di leggi e regolamenti... Ma tali aspetti sono di natura e valore semantico (categoria) assai diverso, così che l'insieme dei modelli in campo forma un teatro eterogeneo, conteso da diversi punti di vista e compe- tenze presupposte.

Dunque, l’atelier mette in scena un teatro anacronico della memoria, ri- chiede una drammatizzazione immaginativa. La disposizione spaziale degli og- getti-attori – come le foto dell’atlante e i libri nella biblioteca di Aby Warburg – corrisponde spesso a opposizioni, contraddizioni, prossimità semantiche. In- somma, l'efficacia degli elaborati euristici è nel loro “dar da pensare” dando da vedere, da desiderare, cioè nel funzionare da modelli selettivi di aspetti rile-