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Dalla scuola di tutti alla scuola per tutti

Nel documento Professionalità studi (pagine 144-147)

L’istituzione scolastica italiana, in tutti i vari gradi in cui si esplica, può vantare una tradizione pedagogica e didattica basata sulle migliori teorie internazionali che hanno fatto la storia del processo di insegnamento/ap-prendimento: Dewey, Bruner, Piaget, Vygotskij, ma anche gli Italiani Montessori, Agazzi, Rodari, Ciari che hanno sostenuto e realizzato cam-biamenti epocali e definitivi. A questi studiosi se ne aggiungono, con pari meriti, i molti che hanno dedicato i loro studi alla volontà di dimo-strare quanto la scuola di tutti dovesse diventare la scuola per tutti; da quando il medico Itard1 all’inizio del diciannovesimo secolo sperimentò la possibilità di rieducare il giovane Victor, le ricerche per conoscere il funzionamento umano in presenza di una qualche criticità hanno visto un interesse enorme producendo scoperte vere e proprie che hanno sa-puto letteralmente nutrire anche la pedagogia generale; fra i molti stu-diosi che hanno segnato in maniera decisiva il XX secolo con tracce che hanno marcato il percorso italiano in modo da poterlo vivere come irre-versibile sia attualmente che in futuro, sicuramente un posto d’onore spetta a Leonardo Trisciuzzi e ad Andrea Canevaro, considerati i padri

* Ricercatore Senior. Università di Pisa - Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere.

(1)J.ITARD, Il fanciullo selvaggio, Armando Editore, 1970.

italiani della pedagogia speciale, padri che hanno disseminato la passione per la ricerca in questo ambito.

Nonostante la storia ci consegni gli esiti delle ricerche di tali insigni stu-diosi, e che anche attualmente il mondo della disabilità venga studiato approfonditamente, talvolta i professionisti della scuola non riescono a curvare operativamente le proprie competenze in ottica inclusiva; si crea tuttora, spesso, una sorta di scissura fra quanto viene riconosciuto e ac-colto a livello teorico e la volontà di realizzarlo, e ciò che in definitiva viene metodologicamente attivato nelle classi, adducendo motivazioni che essenzialmente non fanno altro che denunciare lacune sul piano della formazione pedagogica e didattica.

Le fragilità dichiarate dai docenti possono essere riassunte nella perce-zione, da parte loro, di non poter rispondere complessivamente e conte-stualmente ai bisogni di tutti e di ciascun studente, in particolare laddove i bisogni sono speciali, soprattutto perché vivono la pressione dei pro-grammi scolastici e l’urgenza di perseguire (e talvolta inseguire) gli obiettivi (che spesso sono confusi con i contenuti), senza riuscire a tro-vare risposte strategiche che siano valide contemporaneamente per tutti e per ciascuno; la questione è di notevole interesse e non più procrasti-nabile.

I più grossi equivoci, generatori in massima parte della scollatura tangi-bile fra ricerca scientifica e prassi scolastica, deriva dalla confusione fra obiettivi e contenuti, metodologie e strumenti, personalizzazione e indi-vidualizzazione, obiettivi minimi e obiettivi differenziati, competenze disciplinari e competenze metodologico-didattiche.

Un altro aspetto ancora da sviluppare completamente è rappresentato dalle scelte che vengono fatte nella stesura del Piano Educativo Indivi-dualizzato e del Progetto di Vita: siamo ancora molto condizionati dalla prima fase temporale riguardante l’inclusione, quella che veniva in realtà definita inserimento (talvolta accompagnato dall’attributo selvaggio) e che si è protratta per quasi vent’anni, fino all’emanazione della legge 104/922, norma che ha delineato con estrema precisione come, quando, chi deve partecipare alla co-costruzione di un adeguato percorso di vita delle persone con disabilità. La rivoluzione pedagogico-sociale che ha determinato la Legge Quadro, sorretta da autorevoli e inattaccabili affer-mazioni e dimostrazioni da parte di tutta la comunità scientifica, ha

(2) L. n. 104/1992 - Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, G.U. n.39 del 17/02/1992.

ampliato la visione e la consapevolezza sia delle istituzioni che delle fa-miglie, provocando una sorta di evoluzione del pensiero sulla disabilità e quindi delle azioni rivolte agli studenti con Bisogni Educativi Speciali che fino ad allora vivevano un progetto scolastico per lo più innestato sulla loro presenza in aula, presenza spesso passiva e subìta, considerata come risposta sufficiente per lo sviluppo socioaffettivo e relazionale, asse di sviluppo al quale veniva data giustamente una grande importanza, senonché veniva molto trascurato lo sviluppo cognitivo, sottovalutando molto il concetto che le dimensioni socioaffettiva, cognitiva e dell’auto-nomia necessitano l’una dell’altra e si contaminano reciprocamente e continuamente.

Testimonianza di tutto ciò ci è data dagli obiettivi espressi nei Piani Edu-cativi Individualizzati nel corso degli anni, nei vari gradi scolastici: lo sbilanciamento sulla socializzazione, e talvolta su una socializzazione che doveva dipendere esclusivamente dal comportamento dello studente con disabilità, è evidente. Frasi del tipo: “accetta la compagnia solo di alcuni compagni”, “non riesce a partecipare alle attività collettive”,

“presta attenzione in modo sporadico”, “l’autonomia personale è par-ziale” denunciano una posizione ancora molto immatura rispetto al con-cetto di inclusione, soprattutto sono una dichiarazione inconscia quanto esplicita dell’idea che le sottende, basata sulla convinzione che il risul-tato negativo dipende dallo/a studente/essa con BES e non dall’ambiente;

in altri termini siamo, ancora troppo spesso, fermi al concetto di handicap come limite imputato al soggetto stesso e non al tipo di risposta che il contesto riesce a realizzare.

Nel 1993 Leonardo Trisciuzzi3 esortava già a concentrare la nostra atten-zione su quella che lui stesso definì ‘via operativa’, l’unica in grado di realizzare una ‘svolta’ nell’approccio all’educazione delle persone con disabilità, incitando i pedagogisti ad allontanarsi dalla sola conoscenza medico-sanitaria del danno e delle conseguenze, e a sviluppare invece competenze didattiche appropriate.

Del resto, soltanto attraverso lo sviluppo cognitivo e la condivisione reale di obiettivi, percorsi e processi è possibile costruire relazioni inter-personali efficaci e autentiche, così come soltanto all’interno di una rela-zione autentica si possono perseguire e raggiungere risultati definibili come competenze cognitive4.

(3) L.TRISCIUZZI, Manuale di didattica per l’handicap, Editori Laterza, 1993, p. 244.

(4) M. MONTESSORI, Come educare il potenziale umano, Garzanti, 1970; L. S.

2. Dal predicare l’inserimento all’esercitare l’inclusione

Nel documento Professionalità studi (pagine 144-147)

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