• Non ci sono risultati.

Il danno da abuso del contratto a tempo determinato, il danno

Nel documento Il danno alla persona nel rapporto di lavoro (pagine 111-120)

1. LA TUTELA DELLA PERSONA NELL’AMBIENTE DI LAVORO

3.7 Il danno da abuso del contratto a tempo determinato, il danno

Al fine di inquadrare tale tipologia di danno, occorre brevemente offrire uno scorcio sulla disciplina normativa del contratto a tempo determinato.

A tal proposito, occorre ricordare la regolamentazione data a questa materia in sede comunitaria: la direttiva n. 1999/70/Ce si prefiggeva l’obiettivo sia di migliorare la qualità del lavoro a termine, nel rispetto del principio di non discriminazione, e, al contempo,

77 M. LAMBERTI, Sulla risarcibilità del danno da perdita di chance: giudizio di

probabilità e criteri di liquidazione in Il danno alla persona del lavoratore, op.

cit., p. 282.

78 M. LAMBERTI, Sulla risarcibilità del danno da perdita di chance: giudizio di

probabilità e criteri di liquidazione in Il danno alla persona del lavoratore, op.

anche di prevenire gli abusi derivanti dall’impiego successivo di più contratti a tempo determinato80.

Alla direttiva è stata data attuazione, nel nostro ordinamento, con il d.lgs. n. 368/2001, il quale prevedeva la possibilità di apporre il termine al contratto di lavoro solo “a fronte di ragioni di carattere

tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività dell’impresa”81.

Già la riforma Monti – la l. n. 91/2012 – aveva introdotto una consistente eccezione a quanto era stato disciplinato dal d.lgs. n. 368/2001; i limiti suddetti non dovevano essere applicati nel caso “del

primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi”82.

Di effettiva liberalizzazione, però, si può parlare soltanto a seguito della riforma voluta dal Governo Renzi: attualmente, la materia è disciplinata dagli artt. 19 e ss. del d.lgs. n. 81/2015.

Nel nuovo quadro normativo non esiste l’obbligo di giustificazione, dal punto di vista sostanziale, dell’applicazione della clausola del termine al contratto.

L’unico limite previsto è quello temporale: “la durata dei

rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l'altro, non può superare i trentasei mesi”83.

Vi è altresì un limite quantitativo, poiché il numero complessivo di contratti a tempo determinato non può eccedere il limite del venti per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato; tuttavia, questo limite non è così rilevante ai fini della

80 O.MAZZOTTA, op. cit., p. 233.

81 Testo dell’art. 1 d.lgs. n. 368/2001 in vigore fino al 17 luglio 2012. 82 Testo dell’art. 1 d.lgs. n. 368/2001 in vigore fino al 18 dicembre 2012. 83 Art. 19, comma 2, d.lgs. n. 81/2015.

presente tesi, perché il datore di lavoro, in questo caso, dovrà corrispondere solo una sanzione amministrativa84.

Invece, di estrema rilevanza – al fine di un’analisi del tema alla luce del danno alla persona del lavoratore – è l’apparato sanzionatorio in caso di violazione dei limiti temporali.

A tal proposito, intanto dev’essere citato l’art. 21 del d.lgs. n. 81/2008: “Il termine del contratto a tempo determinato può essere

prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a trentasei mesi, e, comunque, per un massimo di cinque volte nell'arco di trentasei mesi a prescindere dal numero dei contratti. Qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della sesta proroga. Qualora il lavoratore sia riassunto a tempo determinato entro dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi, il secondo contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato”.

Ed è altresì degno di nota l’art. 22, comma 2: “Qualora il

rapporto di lavoro continui oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini”.

La tutela che si profila nella disposizioni appena richiamate è particolarmente garantista per il lavoratore: il contratto di lavoro a tempo determinato viene trasformato in un contratto a tempo indeterminato.

La sfera giuridica del lavoratore subisce, quindi, una riduzione in pristino; non permane alcuna conseguenza lesiva dell’abuso perpetrato dal datore di lavoro.

Quanto appena affermato, tuttavia, non è valido per coloro che svolgono la propria attività lavorativa alle dipendenze della pubblica amministrazione.

Sul punto, l’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, al comma 5, prevede quanto segue: “In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative

riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”.

La ratio di tale differenza di trattamento trova fondamento nell’art. 97 della Costituzione, il quale, all’ultimo comma, prevede: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante

concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.

Il problema del difficile contemperamento tra la necessità del concorso per i pubblici dipendenti, da un lato, e la tutela dei lavoratori a termine, dall’altro, è stata posta al vaglio della Corte di Giustizia.

Stando alle conclusioni dei giudici europei, la disparità di trattamento tra datori di lavoro pubblici e privati non può dirsi in contrasto con la direttiva 1999/70/Ce, a condizione che la normativa nazionale contenga un’altra misura per sanzionare gli abusi nell’apposizione della clausola del termine nel contratto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni85.

Di fronte a tale pronuncia, la giurisprudenza italiana ha manifestato orientamenti difformi.

Parte di essa si è attestata sulla concezione classica del risarcimento del danno, che prevede un onere probatorio da parte del lavoratore86.

D’altro canto, però, serpeggiava, almeno in alcune sentenze, un’altra tendenza, volta verso un nuovo modo di concepire il danno.

L’altra parte della giurisprudenza ha iniziato a raffrontarsi con la categoria del danno punitivo, capace di atteggiarsi come uno

85Corte giust. UE, sez. II, 7 settembre 2006, n. 180in IusExplorer (banca dati). 86Cass., sez. lav., 23 dicembre 2014, n. 27363, in IusExplorer (banca dati): “il danno non può comunque ritenersi in re ipsa, ma provato, secondo i principi sull'onere probatorio”.

strumento sanzionatorio e risarcitorio al tempo stesso. Dalla violazione del diritto comunitario discendeva un danno, il cd. danno comunitario, che non richiedeva nessun assolvimento dell’onere della prova da parte del soggetto leso.

Come ha affermato anche la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 1260/2015, si tratta di una “sorta di sanzione ex lege a

carico del datore di lavoro (…) l'interessato deve limitarsi a provare l'illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze "falsamente indicate come straordinarie e temporanee" essendo esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde perceptum)”87.

Tale nuova tipologia di danno era foriera di problematiche inerenti al parametro da utilizzare per commisurare il risarcimento del danno.

Alcuni giudici di merito avevano proposto un criterio di liquidazione basato sul trattamento retributivo e contributivo che il lavoratore avrebbe conseguito negli intervalli non lavorati tra un contratto a tempo determinato e l'altro88.

Altra giurisprudenza, invece, aveva fatto riferimento all’entità prevista dell’art. 8 della l. n. 604/1966 (prevista per il caso di licenziamento illegittimo)89.

Vi era, infine, una terza ricostruzione: il risarcimento doveva essere commisurato sulla base di quello previsto nel settore privato a ristoro del danno sofferto precedentemente alla trasformazione del contratto a tempo indeterminato90.

Quest’ultima teoria faceva aggio sull’art. 28, comma 2, del

87Cass., sez. lav., 23 gennaio 2015, n. 1260, in IusExplorer (banca dati).

88Trib. Catania 6 dicembre 2006, in Il Lavoro nelle pubbliche amministrazioni,

2007, n. 6, II, 1154; Trib. Catania 19 gennaio 2007, in Foro It, 2008, n. 1, 350; sul punto anche P.PASSALACQUA, Le Sezioni Unite sull'abuso del contratto a termine

nella PA optano per la trasposizione dell'indennità prevista per il settore privato: il cerchio si chiude davvero?, in Dir. rel. ind., 2016, parte III, p. 829 e ss.

d.lgs. n. 81/2008: “Nei casi di trasformazione del contratto a tempo

determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge n. 604 del 1966.”

Di fronte alle posizioni diametralmente opposte che si sono susseguite nelle pronunce giurisprudenziali, inevitabilmente si rese necessario un intervento della sezioni unite della Corte di Cassazione. Con la sentenza n. 5072/2016, la Cassazione ha stabilito, intanto, che il danno, per il lavoratore che svolge la propria prestazione alle dipendenze della pubblica amministrazione, non deriva dalla perdita del posto di lavoro – questa prospettiva non sarebbe percorribile: senza concorso, non vi è possibilità di accedere al pubblico impiego –, ma, piuttosto, dallo svolgimento della prestazione di lavoro in violazione delle norme imperative.

Citando un passaggio fondamentale della sentenza sul punto: “il lavoratore a termine nel pubblico impiego, se il termine è

illegittimamente apposto, perde la chance della occupazione alternativa migliore e tale è anche la connotazione intrinseca del danno, seppur più intenso, ove il termine sia illegittimo per abusiva reiterazione dei contratti”91.

La Cassazione stabilisce altresì che al lavoratore verrà attribuita automaticamente un’indennità forfettaria, “tra un minimo di 2,5 e un

massimo di 12 mensilità”, sulla base di quanto previsto dall’art. 28,

comma 2, del d.lgs. n. 81/2015; tuttavia, per quanto concerne il danno da perdita di chance, il lavoratore dovrà assolvere a un pesante onere probatorio.

Per completare il quadro della disciplina sanzionatoria, oltre alle conclusioni della Cassazione, occorre citare anche l’art. 36 del

d.lgs. n. 165/2001, il quale prevede una responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso del contratto a termine92.

La presente ricostruzione dell’apparato sanzionatorio, però, non è stata pacificamente accolta da alcuni giudici di merito.

A tal proposito, occorre citare una recentissima ordinanza del Tribunale di Trapani, del 5 settembre 201693, con la quale si è predisposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

In tale ordinanza, il Tribunale di Trapani ha rilevato che l’attuale quadro normativo si pone in contrasto con il cd. principio di

equivalenza tra posizioni lavorative affini elaborato dalla Corte di

Giustizia dell’Unione Europea.

A ben vedere, la posizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione non risolve il problema della parità di trattamento tra i lavoratori del settore privato e quelli del settore pubblico: occorre ricordare che, anche nel settore privato, l’indennità dell’art. 28, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015 viene attribuita senza che si richieda al lavoratore di fornire alcun elemento di prova: è sufficiente che il contratto superi la durata dei trentasei mesi. E, inoltre, il lavoratore del settore privato può ottenere la trasformazione del contratto di lavoro a termine in un contratto a tempo indeterminato.

Appare, dunque, evidente la disparità di tutela per i lavoratori del settore privato e per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

Inoltre, la sanzione di cui all’art. 28, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015 può avere una carica dissuasiva per un datore di lavoro privato; ma non la si può di certo ritenere sufficientemente elevata perché possa scalfire la disponibilità economica di una pubblica amministrazione .

92 Art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001: “Le amministrazioni hanno l'obbligo di

recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell'articolo 21 del presente decreto”.

L’unico modo per uscire da questo empasse – sempre secondo il Tribunale di Trapani – è configurare un risarcimento commisurato sulla base del valore del posto di lavoro.

Si tratterebbe di un danno punitivo, una sanzione civile svincolata dalle regole classiche della prova effettiva del danno: questa, stando alla ricostruzione operata dal giudice a quo, è l’unica soluzione alternativa per assicurare una tutela effettiva ai lavoratori del pubblico impiego, senza ricorrere alla conversione del rapporto di lavoro.

Se si ammette che la disciplina legale del contratto a tempo determinato nel pubblico impiego abbia violato il diritto comunitario, conseguentemente, si dovrà anche configurare una violazione dell’art. 117, comma 1, della Costituzione: “La potestà legislativa è esercitata

dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

A questo punto dell’analisi, è giunto il momento di porsi il quesito sulla possibilità di configurare un danno da norma incostituzionale.

Sul punto, si è espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 187/2016.

La Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo dell’art. 4, commi 1 e 11, della l. n. 124/1999 – inerente al lavoro dei docenti scolastici –, “nella parte in cui autorizza, in mancanza di

limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino”94.

Tuttavia, per quanto concerne il profilo risarcitorio, la Corte Costituzionale cita la sentenza Mascolo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea: “quando, come nel caso di specie, il diritto

dell'Unione non prevede sanzioni specifiche nell'ipotesi in cui vengano nondimeno accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell'accordo quadro”.

La Consulta afferma altresì che “tale efficacia è indubbiamente

tipica della sanzione generale del risarcimento, desunta dai principi della normativa comunitaria e non richiede approfondimenti; non diversa, tuttavia, è l'efficacia dell'altra misura, che sostanzialmente costituisce anch'essa un risarcimento, ma in forma specifica. Ciò sarebbe ancor più evidente se la sanzione alternativa consistesse nella trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, ma la Corte di giustizia dell'Unione europea, prendendo atto del principio del concorso pubblico, ricordato anche nell'ordinanza n. 207 del 2013, ritiene sufficiente una disciplina che garantisca serie chances di stabilizzazione del rapporto. (…) tale conclusione trova una indiretta ma autorevole conferma in quella cui è pervenuta la Commissione U.E. a proposito della procedura di infrazione aperta nei confronti del nostro Paese per la violazione della stessa normativa dell'Unione: essa è stata archiviata senza sanzioni a seguito della difesa dell'Italia, argomentata con riferimento alla normativa sopravvenuta”.

Nessuno spazio, quindi, per configurare un danno da norma incostituzionale; la Consulta ritiene che non vi sia alcuna violazione dell’art. 117, comma 1, Cost.

Tuttavia, occorre tenere presente che la questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Trapani alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea potrebbe essere accolta. In questo caso, forse sarà opportuno un ripensamento dell’attuale linea di pensiero della Corte Costituzionale.

Nel documento Il danno alla persona nel rapporto di lavoro (pagine 111-120)