• Non ci sono risultati.

La personalizzazione del rischio: l’art 28 del d.lgs n 81/2008

1. LA TUTELA DELLA PERSONA NELL’AMBIENTE DI LAVORO

1.8 La personalizzazione del rischio: l’art 28 del d.lgs n 81/2008

Come accennato all’inizio del precedente paragrafo, il d.lgs. n. 81/2008 ha ampliato – rispetto alla disciplina previgente – il novero

dei soggetti beneficiari della normativa prevenzionistica. Tuttavia, ciò non appare sufficiente: la tecnica definitoria utilizzata dal legislatore non è idonea a cogliere tutti gli aspetti da considerare in sede di valutazione del rischio.

A questo proposito, l’art. 28 del decreto legislativo in esame ha avuto il merito di superare la rigidità del sistema prevenzionistico, consentendo di personalizzare il rischio, declinandolo in maniera diversa a seconda delle caratteristiche proprie del lavoratore104.

Il comma 1 del suddetto articolo – così come novellato dal d.lgs. n. 106/2009 – prevede che la valutazione dei rischi debba

“riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell'accordo europeo dell'8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all'età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro”.

Alcuni elementi di personalizzazione del rischio, dunque, sono il genere, l’età, la provenienza da altri paesi e l’atipicità del contratto di lavoro.

La correlazione tra il genere e il rischio – salvo in caso di gravidanza o puerperio – non è sempre immediata da cogliere; tuttavia è stato dimostrato, ad esempio, che nel lavoro al videoterminale è maggiore l’incidenza sulle donne dell’astenopia occupazionale (o sindrome da affaticamento visivo)105.

Anche una relazione del 2003 resa all’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro riporta alcuni dati di differenziazione del rischio a seconda del genere: solo per citarne alcuni, è stata

104 F.MALZANI, op. cit., p. 113.

105 G. TAINO, M. FERRARI, I.J. MESTAD, F. FABRIS, M. IMBRIANI, Astenopia e

lavoro al videoterminale, in G. ital. med. lav. erg., 2006, p. 487 ss.; F.MALZANI,

riscontrata una maggiore esposizione, da parte delle donne, al rischio da perdita della voce causata dal lavoro. E anche lo stress lavoro- correlato – che ovviamente non è un problema solo femminile – statisticamente colpisce più frequentemente le donne106.

La disciplina prevenzionistica deve tener conto anche dei rischi collegati all’età, con riferimento particolare ai minori fino ai 16 anni e a tutti gli adolescenti, sia con rapporto a causa mista che parasubordinati.

Sono esclusi dall’applicazione del decreto gli adolescenti addetti a lavori occasionali – o, comunque, di breve durata – riguardanti sia servizi domestici in ambito familiare che le prestazioni di lavoro non pericolose presso imprese a conduzione familiare. Tuttavia tale esclusione non appare ragionevole, poiché non sembra opportuno escludere dal novero questi soggetti solo perché sussiste un rapporto affettivo-parentale che intercorre tra i componenti dell’impresa familiare107.

Per i minori, la valutazione dei rischi assume dei connotati specifici108; si dovrà tenere di conto, principalmente, di un sviluppo psico-fisico non ancora completo e della mancanza di esperienza relativa alla mansione. È altresì previsto che essi debbano sottoporsi a una visita medica preventiva, nonché ad altre visite, periodiche, con cadenza annuale109.

La personalizzazione del rischio in virtù dell’età, chiaramente, riguarda anche i lavoratori che non sono più giovani. Un esempio è dato dall’art. 176 del d.lgs. n. 81/2008, inerente alle visite di controllo per i lavoratori addetti al lavoro videoterminale; la frequenza con cui

106 AGENZIA EUROPEA PER LA SICUREZZA E LA SALUTE SUL LAVORO, Prospettive di

genere applicate alla salute e sicurezza sul lavoro, 2003, in

https://osha.europa.eu/it/tools-and-publications/publications/reports/209/view, p. 13 e 109.

107 F.MALZANI, op. cit., p.120.

108 Come nel caso dei rischi derivanti dall’esposizione ad agenti fisici, v. artt 182-

il lavoratore deve sottoporsi alle visite di controllo varia a seconda dell’età.

L’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008 richiama anche “la provenienza

da altri Paesi” tra i fattori di differenziazione da valutare. A tal

proposito, si pone con particolare rilevanza la problematica della comprensione linguistica; l’art. 36 del d.lgs. n. 81/2008 prevede espressamente, in questi casi, la necessità di una previa verifica della comprensione della lingua utilizzata per informare i lavoratori dei rischi e delle norme di sicurezza.

L’ultimo caso richiamato dall’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008 è quello inerente l’atipicità del contratto. Si pensi al caso del contratto a tempo determinato, o all’ipotesi di più contratti di somministrazione che si susseguono e attribuiscono al lavoratore mansioni diverse; è plausibile che il lavoratore con contratto atipico conosca in misura minore, rispetto agli altri lavoratori, il contesto lavorativo e le sue criticità110.

A tal proposito, la direttiva n. 91/383/Ce ha preso in considerazione la problematica, richiedendo agli Stati membri di adottare le misure necessarie a garantire la sicurezza dei lavoratori interinali o assunti con contratto a tempo determinato.

Un’ipotesi che non è stata contemplata dall’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008 è quella inerente alla personalizzazione del rischio con riferimento alla condizione di disabilità del lavoratore.

Indubbiamente, non si può negare che il d.lgs. n. 81/2008 si occupi di disabilità: l’art. 63 prevede esplicitamente la necessità di strutturare il luogo di lavoro tenendo di conto delle esigenze dei lavoratori disabili, in particolar modo per quanto riguarda le “porte, le

vie di circolazione, gli ascensori e le relative pulsantiere, le scale e gli accessi alle medesime, le docce, i gabinetti ed i posti di lavoro utilizzati da lavoratori disabili”.

Tale disposizione, però, persegue prevalentemente la finalità di garantire al prestatore d’opera disabile l’accesso al lavoro, mentre non prevede nulla in merito alla tutela dell’integrità psico-fisica.

L’unico modo per cercare di andare oltre al mero adattamento fisico e logistico è quello di interpretare la suddetta norma in combinato disposto con l’art. 15, sempre del medesimo decreto, che richiede “il rispetto dei principi ergonomici nell'organizzazione del

lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo”.

L’art. 15 impone un riesame dell’organizzazione stessa del lavoro al fine di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, sia esso disabile o meno. In questa prospettiva il datore di lavoro “non potrà

non considerare la disabilità come elemento di differenziazione imprescindibile per una corretta mappatura del rischio” 111.

Tuttavia, ciò non è sufficiente. Non è possibile limitarsi a interventi tecnici o strutturali: il profilo prevenzionistico dev’essere declinato per garantire il rispetto del principio di eguaglianza e non discriminazione del lavoratore.

A tale proposito, la risposta al livello europeo è stata quella della reasonable accomodation prevista dalla direttiva 2000/78/Ce, attuata nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 216/2003.

In base all’art. 5 della citata direttiva, “per garantire il rispetto

del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo

sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili.”

In base alla cd. reasonable accomodation si assicura il rispetto del principio di eguaglianza nei confronti di lavoratori disabili.

Tale principio, però, non ha una portata applicativa limitata solo al caso della disabilità; sul punto, è opportuno ricordare che la Corte di Giustizia ha richiesto il rispetto della reasonable

accomodation anche nel caso in cui il prestatore d’opera sia affetto da

una malattia, fisica, mentale o psichica, che gli impedisca lo svolgimento della mansione per un lungo periodo; il datore di lavoro potrà risolvere il rapporto soltanto nel caso in cui siano state attuate tutte le misure necessarie che non comportino un onere finanziario sproporzionato.112

2. L’EMERSIONE DEL DANNO ALLA PERSONA NEL RAPPORTO DI LAVORO

2.1Il danno alla salute: centralità ed evoluzione

L’art. 139 del codice delle assicurazioni private – il d.lgs. n. 209/2005 – definisce in questi termini il danno biologico: “per danno

biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.

L’elaborazione di tale tipologia di danno è stata frutto di un intenso dibattito giuridico. Il danno biologico ha compiuto un percorso di profonda trasformazione grazie a operazioni di vera e propria “ingegneria del diritto”; si può affermare che la giurisprudenza ne abbia disegnato i confini, mentre la dottrina ha avuto il merito di arricchirne il significato1.

La problematica principale era costituita dalla necessità di svincolare il danno biologico dalla rigida limitazione prevista dall’art. 2059 cod. civ.; quest’ultima disposizione del codice civile prevede che il danno non patrimoniale debba essere risarcito “solo nei casi

determinati dalla legge”.

Per individuare i suddetti “casi determinati dalla legge”, l’art. 2059 cod. civ. era letto in combinato disposto con l’art. 185 cod. pen., il quale stabilisce la necessaria correlazione tra il compimento del reato e il risarcimento del danno, da parte del colpevole o delle persone che devono rispondere del fatto di lui, a norma delle leggi civili.

Da tale lettura si evinceva l’impossibilità di risarcire il danno non patrimoniale – e, quindi, anche il danno biologico – ogni qual volta la condotta lesiva adottata dal danneggiante non integrasse, contestualmente, una fattispecie di reato.

La menomazione era suscettibile di essere valutata soltanto in relazione agli effetti negativi di tipo patrimoniale, sia sotto il profilo degli oneri economici da sopportare a causa dell’evento – danno emergente – che per quanto riguarda le perdite economiche che il danneggiato avrebbe subito a seguito della lesione – lucro cessante2.

Indubbiamente vi furono alcuni tentativi volti ad allontanare lo spettro dell’art. 2059 cod. civ.; a tal fine, parte della giurisprudenza di merito finì per attestarsi su teorie che definivano l’integrità della persona come “bene patrimoniale”3 o, addirittura come “un capitale

che si risarcisce e si reintegra con una somma di denaro”4.

Quasi inutile dire che tale ricostruzione fu fortemente criticata; la giurisprudenza successiva compì ogni tentativo per ricercare soluzioni innovative che consentissero di configurare il danno biologico come danno non patrimoniale, ma, allo stesso tempo, anche di evitare i rigidi limiti imposti dall’art. 2059 cod. civ.

Per superare l’empasse, il Tribunale di Genova, negli anni settanta del secolo scorso5, riuscì a ricondurre il danno biologico alla categoria del danno non patrimoniale, sottraendolo, però, all’ambito di applicazione dell’art. 2059 cod. civ.

2 A.PIZZOFERRATO e A. MONTANARI, il danno alla persona nel rapporto di lavoro

in Trattato di diritto del lavoro, Contratto di lavoro e organizzazione, op. cit., p. 1902.

3 Corte Cass., 24 novembre 1967, n. 2819 in Arch. resp. civ., 1970, p. 181; F.D.

BUSNELLI, Il danno biologico dal “diritto vivente” al “diritto vigente”, Torino, Giappichelli, 2001, p. 7.

4 Corte. App. Milano, 25 maggio 1920, in Mon. Trib., 1920, p. 372; F. D.

BUSNELLI, op. cit., ibidem.

5 Trib. Genova, 20 ottobre 1975 in Resp. civ. prev., 1976, p. 466; F.D.BUSNELLI,

Tale soluzione si basava su una ricostruzione dottrinaria, peraltro accolta anche da Scognamiglio6, in base alla quale l’art. 2059 cod. civ. non riguarderebbe l’intera categoria dei danni patrimoniali, ma solo quelli morali (dolori, patemi d’animo e sofferenze psichiche). I danni alla persona sono, quindi, sempre qualificabili come danni non patrimoniali, ma la loro risarcibilità si fonda sull’art. 2043 cod. civ. – interpretato in combinato disposto con l’art 32 Cost. – e non sull’ art. 2059 cod. civ.

La tesi appena ricordata fu supportata anche da una famosa pronuncia della Corte Costituzionale, la n. 184/19867: in questa sentenza, la Consulta ritenne non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ., negando l’esistenza di un vuoto di tutela per il danno biologico, poiché il diritto vivente, ormai, aveva garantito il risarcimento facendo aggio sull’art. 2043 cod. civ. in combinato disposto con l’art. 32 Cost.

Ora, è evidente che nemmeno quest’ultima ricostruzione possa essere condivisibile: anche con riferimento a quanto detto in merito alla natura dell’obbligo di sicurezza, non si può escludere che il danno biologico possa fondare una responsabilità di natura contrattuale.

Questa tipologia di danno è suscettibile di calarsi anche all’interno di una relazione contrattuale, di fondare una responsabilità

ex art. 1218 cod. civ., che ha un’impostazione del tutto diversa dal

semplice obbligo di neminem leadere che sta alla base della responsabilità aquiliana8.

L’unica seria possibilità di operare una corretta ricostruzione del danno biologico era quella di dare una nuova vita all’art. 2059 cod. civ., estendendone la portata applicativa anche a tutti quei danni non riconducibili a un’ipotesi di reato.

6 R. SCOGNAMIGLIO, Il danno morale. Contributo alla teoria del danno extra-

contrattuale, in Riv. dir. civ., 1957, I parte, p. 287 e ss.; sul punto anche F.D.

BUSNELLI, op. cit., p. 9.

7 Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184 in IusExplorer (banca dati).

8 L. MONTUSCHI, op. cit., p. 324. Anche se Montuschi accoglie la teoria degli

A tal proposito, fu decisivo l’intervento della Corte di Cassazione: “Ritiene il Collegio che la tradizionale restrittiva lettura

dell'art. 2059, in relazione all'art. 185 c.p., come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell'anima transeunte determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del codice del 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza), non può essere ulteriormente condivisa. Nel vigente assetto dell'ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo -, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona”9.

Il legame tra l’art. 2059 cod. civ. e l’art. 185 cod. pen. è stato definitivamente spezzato proprio da questa lettura costituzionalmente orientata; ad oggi si ammette il risarcimento del danno non patrimoniale ogni qual volta vi sia stata una lesione di un bene giuridico inerente alla persona e garantito dalla Costituzione.

L’art. 2059 cod. civ, così interpretato, ha permesso di svincolare il risarcimento del danno non patrimoniale dal limite della

9 Cass., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828, in IusExplorer (banca dati). Sulla

riconducibilità del danno biologico al danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. si veda anche Corte Cost., 27 ottobre 1994, n. 372, in IusExplorer (banca dati): “Nell'ordinanza di rimessione si obietta che i "danni non patrimoniali" previsti

dall'art. 2059 si restringono al danno morale soggettivo, che deve essere tenuto distinto dal danno alla salute "pena la confusione fra nozioni completamente diverse, quali sono il danno evento e il danno conseguenza". Ma va replicato anzitutto che un simile criterio di differenziazione è legato alla premessa di fondo, già confutata, da cui muove il giudice a quo. Il danno biologico, al pari di ogni altro danno ingiusto, è risarcibile soltanto come pregiudizio effettivamente conseguente a una lesione. (…) Il danno alla salute è qui il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.), anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento”.

necessaria esistenza di una fattispecie di reato; la disposizione in esame estende la sua portata applicativa ogniqualvolta sussista una lesione di un bene giuridico connesso all’art. 2 Cost. 10

Alla medesima conclusione era giunto anche il Tribunale di Pisa, già nel 197811.

Compiuto un breve excursus sul danno biologico in generale, non si può prescindere dall’esame del danno biologico nell’ambito del rapporto di lavoro, con tutte le specificità che quest’ultimo comporta.

Numerosi, in questo ambito, sono i fattori di pericolosità; il coinvolgimento diretto della persona del prestatore comporta l’esposizione al rischio di lesione nella propria sfera psico-fisica, specie nel caso in cui i soggetti debitori dell’obbligo di sicurezza non abbiano predisposto le cautele necessarie secondo il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile.

La tutela risarcitoria per il danno biologico, nel diritto del lavoro, è affiorata solo agli inizi degli anni novanta del secolo scorso. Tutto ebbe inizio con alcune pronunce – le n. 87, 356, 485 del 1991 – rese dalla Corte Costituzionale.

La Consulta dichiarò costituzionalmente illegittimi i commi 6 e 7 dell’art. 10 del d.p.r. n. 1124/ 1965, nella parte in cui prevedevano che il lavoratore infortunato avesse diritto, nei confronti delle persone civilmente obbligate, al risarcimento del danno biologico solo nelle ipotesi connesse alla riduzione della capacità lavorativa generica.

In questo modo rimanevano escluse le menomazioni che, pur incidendo in negativo sull’integrità psicofisica del lavoratore, non andavano a ledere l’attitudine lavorativa del danneggiato.

Tutto ciò non era accettabile, poiché la disciplina violava i principi della tutela della salute, del lavoro, e dell’effettività delle

10 U. BRECCIA, L.BRUSCUGLIA, F.D.BUSNELLI,F.GIARDINA,A. GIUSTI, M.L.

LOI,E. NAVARRETTA,M.PALADINI, D.POLETTI,M.ZANA, Diritto Privato, t. II, Milano, UTET, 2011, p. 675.

garanzie assicurative, nonché il principio di eguaglianza e ragionevolezza12.

Da questa pronuncia, si è mosso il legislatore col d.lgs. n. 38/2000, che ha riformato l’intero apparato indennitario Inail.

L’art. 13 di tale decreto aveva fornito una definizione “in via

sperimentale” di danno biologico: “In attesa della definizione di carattere generale (…) il presente articolo definisce (…) ai fini della tutela dell'assicurazione obbligatoria conto gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico come la lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”.

Questa è la soluzione adottata per assicurare una tutela indennitaria al lavoratore.

Invece, al fine di assicurare un pieno ristoro al danneggiato, si poneva il problema del cd. danno differenziale, ossia il danno che si calcola sottraendo dall’ammontare del risarcimento dovuto l’importo delle prestazioni erogabili dall’ente previdenziale.

L’orientamento giurisprudenziale prevalente si è attestato nel senso di riconoscere la possibilità, per il lavoratore danneggiato, di ottenere il ristoro del danno differenziale dal datore di lavoro13.

Meno problematica è stata la configurazione della risarcibilità del danno cd. complementare, ossia una tipologia di danno che include voci diverse rispetto a quelle indennizzate dall’assicurazione obbligatoria: in questo caso, resta ferma la responsabilità datoriale14.

Il danno complementare si dimostra particolarmente importante poiché è attivabile ogni volta in cui il prestatore di lavoro sia aggredito nella propria sfera giuridica e tale aggressione non offra

12 Corte Cost., 15 febbraio 1991, n. 87; Corte Cost., 18 luglio 1991, n. 356; Corte

Cost., 27 dicembre 1991, n. 485 in IusExplorer (banca dati).

13 Cass. civ., sez. lav., 1 marzo 2016, n. 4025, in IusExplorer (banca dati).

14 A. PIZZOFERRATO e A. MONTANARI, il danno alla persona nel rapporto di

lavoro in Trattato di diritto del lavoro, Contratto di lavoro e organizzazione, op. cit., p. 1917.

sbocchi per una specifica qualificazione risarcitoria. Occorre tenere presente che, nel contesto lavorativo, sono frequenti le ipotesi di lesioni alla persona del lavoratore non coincidenti col danno biologico e risarcibili come danno complementare.

2.2 L’evoluzione del danno non patrimoniale: la problematica