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L’onere della prova

1. LA TUTELA DELLA PERSONA NELL’AMBIENTE DI LAVORO

2.4 L’onere della prova

L’onere della prova trova un fondamentale riferimento normativo nell’art. 2697 cod. civ.

In base al testo della disposizione, chiunque voglia far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento; al contrario, chi ne eccepisce l’inefficacia, ovvero vuol provare che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti sui quali l’eccezione si fonda.

In accordo con tale principio generale, la prova del danno non è in re ipsa; non è sufficiente dimostrare l’esistenza di una lesione del diritto per ottenere il risarcimento del danno38.

Ovviamente, in alcuni casi è possibile fare ricorso al cd. fatto notorio – così come disciplinato dall’art. 115 cod. proc. civ. – e alle presunzioni semplici. Chiarissimo, sul punto, è l’esempio di Rossetti: “non v'è dubbio che dal fatto noto che la vittima abbia peso un arto in

37 L. MASERA, Evidenza epidemiologica di un aumento di mortalità e

responsabilità penale, alla ricerca della qualificazione penalistica di una nuova categoria epistemologica, in http://www.dirittopenalecontemporaneo.it, p. 22.

seguito a un sinistro possa risalirsi al fatto ignorato che abbia sofferto molto”39.

Tuttavia, nonostante l’esempio citato, è indispensabile non cedere alla tentazione di credere che l’onere probatorio, ai fini del risarcimento del danno, sia sempre così facile da soddisfare.

Si pensi, ad esempio, alla persona che abbia attraversato un periodo di invalidità temporanea in stato di incoscienza: in questo caso la difficoltà di provare il danno non patrimoniale – declinato nel senso di un danno morale soggettivo – potrebbe essere eccessivamente alta. La comprovata lesione del diritto di salute non comporta, in re

ipsa, la prova della sofferenza morale; anzi, quest’ultima sembrerebbe

essere esclusa dallo stato di incoscienza del danneggiato40.

L’esigenza di fornire una ricostruzione così scrupolosa dei comportamenti offensivi in sede di giudizio può condurre, in extremis, a offuscare il necessario momento dell’inquadramento giuridico della fattispecie; il rischio che si prospetta è quello di perdere il necessario contatto con i beni fondamentali da tutelare. Ad esempio, la difficoltà di provare il danno esistenziale è causata, sicuramente, dall’evanescenza dei contorni di quest’ultima fattispecie41.

In merito a quali siano gli elementi che il danneggiato debba concretamente allegare e provare, sicuramente illuminante è la sentenza n. 9009/2001 della Corte di Cassazione: “Il comportamento

antigiuridico del datore di lavoro, in quanto tenuto in violazione dei precetti dell'art. 36 Cost. (ma non solo), non vi è dubbio che possa ledere non solo i diritti economici ma anche diritti fondamentali. Ma proprio per questo il pregiudizio di un diritto inviolabile della personalità deve essere da colui che lo invoca allegato e provato (sia

39 M.ROSSETTI, Gli ermellini: per ottenere il risarcimento la lesione non basta, ma

occorre il danno, in Dir. gius., 2005, parte VI, p. 14 e ss.

40 M.ROSSETTI, Gli ermellini: per ottenere il risarcimento la lesione non basta, ma

occorre il danno, op. cit., ibidem.

41 P.ALBI, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, op. cit.,

pure con ampio ricorso alle presunzioni, allorché non si versi nell'ambito del pregiudizio della salute in senso stretto, in relazione al quale l'alterazione fisica o psichica è oggettivamente accertabile), nei suoi caratteri naturalistici (incidenza su di una concreta attività, pur non reddituale, e non mero patema d'animo interiore) e nel nesso di causalità dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all'art. 36 Cost. Su di un piano diverso e logicamente successivo, una volta accertato il cd. danno evento (cioè il pregiudizio del diritto fondamentale), si colloca la valutazione del cd. danno - conseguenza, cioè dell'entità del sacrificio sofferto, ai fini di una liquidazione naturaliter equitativa”42.

Non solo, quindi, si prevede un onere della prova che faccia riferimento all’esistenza del danno nei suoi caratteri naturalistici; è altresì necessario dimostrare l’esistenza del nesso di causa tra la lesione e il comportamento che si assume lesivo e, in ultima istanza, è necessario che il danneggiato provi anche l’entità del sacrificio sofferto, ai fine della determinazione del quantum di risarcimento.

A questo punto dell’analisi, avendo operato una ricognizione del quadro normativo generale in materia di onere della prova, è opportuno soffermarsi su quella che potrebbe sembrare un’eccezione a quanto affermato finora: la prova della discriminazione.

È opportuno chiarire fin da subito quanto segue: la prova della discriminazione incombe su chi ne invoca la sussistenza, e ciò è pacifico sia in dottrina che in giurisprudenza.

Tuttavia, uno sguardo superficiale all’art. 40 del codice delle pari opportunità – il d.lgs. n. 198/2006 – potrebbe condurre a conclusioni ingannevoli. Tale disposizione stabilisce che, quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, derivanti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti, e questi siano “idonei a

fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza

di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso”, in

questo caso, spetta al convenuto l'onere della prova sull’assenza della discriminazione.

In base a questa previsione, però, non si può sostenere che vi sia, nel caso della discriminazione, una vera e propria inversione dell’onere della prova: l’art. 40 del codice delle pari opportunità, disciplina, piuttosto, un’attenuazione del rigore probatorio tramite l’utilizzo dello strumento delle presunzioni.

Le presunzioni sono disciplinate dall’art. 2729 cod. civ.; esse, qualora non siano stabilite dalla legge, sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che “presunzioni gravi, precise e

concordanti".

È innegabile che quest’ultimo istituto si atteggi diversamente nel caso della prova della discriminazione.

Appare evidente, infatti, che, nel testo dell’art. 40 del codice delle pari opportunità, manchi ogni riferimento alla “gravità” delle presunzioni.

Colui che vuol far valere la discriminazione rimane comunque gravato dell’onere della prova, ancorché alleggerito: il danneggiato potrà avvalersi di presunzioni semplici, precise e concordanti, senza che occorra anche la sussistenza del requisito della gravità.

Particolarmente delicato è il riferimento alle risultanze delle analisi statistiche, operato dall’art. 40 del citato decreto legislativo.

Esse appaiono inespressive, in re ipsa, di un accettabile contenuto di credibilità; tali risultanze sono condizionate dalle caratteristiche del contesto sociale ed economico nel quale i dati statistici vengono raccolti43.

A fortiori, non si può trascurare come, di fronte al risultato di

un’indagine statistica, il datore di lavoro sia costretto a fornire una

probatio quasi diabolica, arrivando persino a giustificare l’assetto

della propria organizzazione.

Ciò porterebbe inevitabilmente a configurare in capo al giudice un vero e proprio controllo di merito sull’opportunità delle scelte aziendali che sono state compiute dal datore di lavoro; tale conclusione, ovviamente, non può essere condivisibile44.

In generale – ma vale anche per il caso della discriminazione – il datore di lavoro dovrà offrire la prova cd. liberatoria, di fronte alle affermazioni del lavoratore danneggiato; egli dovrà negare che vi sia un inadempimento degli obblighi che derivano dall’art. 2087 cod. civ., ovvero dimostrare che l’inadempimento non sia a lui imputabile45.

Secondo un particolare orientamento giurisprudenziale, il lavoratore dovrà provare quali sono gli obblighi di comportamento che il datore di lavoro abbia violato, anche quelli non imposti da specifiche disposizioni in materia di sicurezza, ma derivanti dalla tecnica o dall’esperienza46.