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Definizione e concettualizzazioni

In un lavoro sulla felicità Reynolds (2008) sosteneva che «our culture’s emphasis on the single-minded pursuit of material wealth leaves little time for anything but getting and spending». È emblematica questa implicita relazione logica di tipo negativo tra il tema della felicità da una parte e il tema dell’essere materiali dall’altra. Il pensiero citato offre in realtà anche ulteriori spunti d’analisi: fa del nostro essere materialisti un fatto culturale e mette in evidenza una forma di ineluttabilità.

Se cerchiamo di comprendere e definire il materialismo dobbiamo distinguere tra accezioni. Una prima accezione filosofica secondo la quale niente esiste se non la materia e i suoi movimenti. Quando si tratta di consumi tuttavia si assume un’accezione più tipicamente popolare secondo la quale il materialismo si riferisce a una certa devozione verso i bisogni e desideri di tipo materiale, dando meno importanza a quelli di tipo spirituale o un modo di vivere basato interamente su interessi materiali (Richins & Dawson, 1992).

Molti studiosi si sono occupati recentemente di materialismo in questa seconda accezione che è quella che viene qui considerata.

Il materialismo è inteso come

«the importance a consumer attaches to worldly possessions. At the highest levels of materialism, such possessions assume a central place in a person’s life and are believed to provide the greatest sources of satisfaction and dissatisfaction» (Belk, 1985)

e anche

«the importance a person places on possessions and their acquisition as a necessary or desirable form of conduct to reach desired end states, including happiness» (Richins & Dawson, 1992).

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«The extent to which individuals attempt to engage in the construction and maintenance of the self through the acquisition and use of products services and experiences or relationships that are perceived to provide desirable symbolic value.» (Shrum, et al., 2013)

Moschis & Churchill (1978) definiscono il materialismo come un orientamento che enfatizza il possesso e il denaro finalizzati alla felicità personale e al progresso sociale e Roedder John (1999) sottolinea che è la nostra stessa cultura occidentale che incoraggia i bambini a focalizzare la loro attenzione sui beni materiali come mezzo per ottenere la felicità personale, il successo e l’autorealizzazione. Molti legano il materialismo all’idea di commercializzazione dell’infanzia enfatizzandone la connotazione negativa.

Negli studi fatti sul materialismo emergono due approcci principali: il primo che intende il materialismo come un tratto, caratteristica della persona inferibile dalla centralità che il possesso e l’acquisizione hanno nella vita di una persona e sono considerate come fonte di soddisfazione (Belk, 1985). Il secondo è quello che invece lo intende come un valore, cioè l’importanza che una persona dà a possesso delle cose e da quanto consideri le acquisizioni come necessarie per sentirsi felice (Richins & Dawson, 1992.

In particolare, Belk ritiene che

«at the highest levels of materialism, such possessions assume a central place in a person’s life and are believed to provide the greatest sources of satisfaction and dissatisfaction»

e che esso possa essere misurato attraverso tre tratti specifici della personalità, possessiveness, nongenerosity, envy. Per Richins & Dawson (1992) invece,

«defining materialism as a value is consistent with the notion that materialism reflects the importance a person places on possessions and their acquisition as a necessary or desirable form of conduct to reach desired end states, including happiness»

e questo porta gli autori a individuare altre tre variabili come acquisition centrality, possession-defined success, acquisition as the pursuit of happiness. Sulla stessa linea di Richins & Dawson, altre ricercatrici, Opree, Buijzen, van Reijmersdal & Valkenburg (2011) hanno sottolineato come i valori materialistici si evidenzino nei bambini, dall’importanza che loro danno a ciò che possiedono, la soddisfazione che ottengono da questi possedimenti e il grado in cui a loro piacciono gli altri bambini in virtù di ciò che posseggono.

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Il lavoro di Goldberg, Gorn, Peracchio & Bamossy (2003) trae spunto dai lavori di Richins & Dawson da un lato e di Belk dall’altro, cercando di unire le due riflessioni in un unico concetto di materialismo e al tempo stesso riadattando le scale usate da questi autori per i bambini. Nella loro ricerca Goldberg e colleghi mettono in evidenza una differenziazione del modo di essere materialisti dei bambini distinguendo due livelli a seconda del momento di sviluppo:

- il livello precondizionale dei minori nel periodo precedente ai 9 anni in cui i bambini sono molto egocentrici e finalizzati ad obiettivi singoli, specialmente nel momento in cui vengono stimolati attraverso promozioni o commercials a desiderare degli oggetti;

- il livello condizionale invece è quello cui i bambini giungono dopo i 9 anni e nel quale c’è una maggiore consapevolezza, capacità di riflessione e coerenza nel perseguire i propri obiettivi anche in termini di ottenimento o possesso di prodotti e oggetti.

A questa distinzione, Chaplin & John (2007) aggiungono le conclusioni di un lavoro di ricerca in cui mettono in evidenza che esiste una sorta di curva nel materialismo che aumenta dagli 8 o 9 anni fino alla prima adolescenza, ma diminuisce verso i 15-16 anni.

Le prospettive interpretative sul materialismo evidenziano alcuni fili conduttori. Anzitutto, il fatto che il materialismo è stato visto per lungo tempo con un’accezione quasi completamente negativa. Tra gli altri, Larsen, Sirgy & Wright (1999) sottolineano come sia insita nel concetto stesso una valenza tendenzialmente negativa, un giudizio di valore sfavorevole. D’altro canto, lo stesso Belk (1985), ricercatore che più di ogni altro si è dedicato a questa tematica arricchendo quest’ambito di ricerca di contenuti e riflessioni, sostiene che negli anni è stato estremamente frequente un giudizio a priori negativo nei confronti del materialismo e che solo pochi studi hanno cercato di riequilibrare la situazione astraendosi dai giudizi di valore e interpretandolo come un tratto che porta semplicemente delle conseguenze. Egli sottolinea come sia l’opposto dell’ascetismo e che sia utile in psicopatologie quali masochismo, l’odio di sé stessi, l’anoressia nervosa e altre spinte autodistruttive che tendenzialmente portano al rifiuto di fonti di soddisfazione materiale.

Altri studiosi (Opree, Buijzen, van Reijmersdal & Valkenburg, 2013) ritengono che sia importante a livello sociale perché può contribuire a incrementare la prosperità economica. Esiste anche una riconcettualizzazione del materialismo in prospettiva funzionale che mette in evidenza quanto la sua valenza possa essere diversa, e positiva, a

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seconda delle funzioni che vengono attribuite alle acquisizioni di tipo materialistico o al possesso ad esempio nella costruzione dell’identità individuale (Shrum, et al., 2013).

Oggi il materialismo assume degli aspetti nuovi e il concetto si arricchisce di accezioni interessanti. La questione della negatività/positività passa in secondo piano rispetto a ciò che esso rappresenta: gli antecedenti che ha, le conseguenze che porta nella vita delle persone e in particolare per quanto riguarda il nostro studio nei minori.

In effetti, un’interessante riflessione ci giunge da Csikszentmihalyi & Rochberg-Halton (1978, qui citato in Belk, 1985 e in Richins & Dawson, 1992). Gli autori rilevano che esistono due diversi tipi di materialismo, quello strumentale e quello terminale basati sui propositi di consumo degli individui: quando gli oggetti agiscono negli individui «as essential means for discovering and furthering personal values and goals of life» (Csikszentmihalyi & Rochberg-Halton, 1978), il materialismo è inteso come potenzialmente innocuo e chiamato «strumentale»; mentre quando non c’è una finalità, un obiettivo oltre al possesso, esso è inteso come «terminale» ed è da considerarsi in maniera negativa. Pur se lo spunto è di rilievo e la distinzione è interessante, come Richins & Dawson (1992) evidenziano, quest’analisi è incompleta e soprattutto molto complicata da operazionalizzare, ma mette in evidenza a parere di chi scrive una importanza fondamentale dell’aspetto motivazionale quando si tratta di questa tematica.

Un altro filo conduttore riguarda il fatto che al di là del tipo di valutazione che possa essere fatta sul materialismo in termini concettuali esiste comunque una serie di conseguenze del materialismo specialmente ai bambini che desta preoccupazione:

«Materialism is correlated with low self-esteem, (…) higher rates of anxiety and depression [and] psychological distress and difficulty adapting to life (…) Consumer culture undermines children’s well-being (…) The children who are more involved in consumer culture are more depressed, more anxious, have lower self-esteem, and suffer from more psychosomatic complaints (…) And less involvement in consumer culture leads to healthier kids» (Schor, Nati per comprare, 2008).

Un altro punto riguarda il fatto che il materialismo possa vincolare effettivamente e limitare comportamenti altruistici e prosociali. In realtà è stato già reso evidente che la prosocialità non si pone come negativamente correlata con il materialismo (Caprara & Bonino, 2006); anche in virtù delle diverse accezioni e componenti che volta per volta gli

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vengono attribuite pur se sono state dimostrate delle correlazioni negative con il successo e il potere (Schwartz, 1992; Caprara & Bonino, 2006).

Infine, viene spesso, in termini generali, dato per scontato un legame causale tra marketing a materialismo. È obiettivo del paragrafo successivo mettere in luce se questo legame causale sia stato effettivamente dimostrato e in che termini per quanto riguarda i bambini in particolare.