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Una definizione, mille definizioni

I BAMBINI FELICI: STATO DELLA RICERCA

8.2. Una definizione, mille definizioni

Dare una definizione di felicità o di benessere è una sfida particolarmente ardua che ha portato Pollard & Lee (2003) ad affermare che questo costrutto è subdolamente

«a complex, multi-faceted construct that has continued to elude researchers’ attempts to define and measure».

Si rende evidente in questa frase un’obiettiva difficoltà dovuta ad una complessità che porta spesso i ricercatori a descrivere il concetto più che a definirlo (Dodge, Daly, Huyton & Sanders, 2012).

Al di là delle definizioni contenute nei dizionari che tendono a sconfinare sugli antecedenti o sulle ricadute dell’essere felici più che sul concetto stesso (Sotgiu, 2013), il modo di concepire la felicità si differenzia da lingua e lingua, da cultura a cultura.

L’etimologia della parola italiana deriva dal latino felicitas che indica “fortuna” pur se esiste anche un lat. felix che deriva dal gr. Phyo che significa “fecondo”. Il collegamento

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con la fortuna è quello più frequente e in effetti è riscontrabile in molte lingue europee, il tedesco Gluck e il francese bonheur, esprimono con la stessa parola i due concetti di felicità e fortuna. Per quanto riguarda l’inglese happiness sembra derivare più da ‘happen’ accadere, accadimento anche se come ci ricorda Nettle (2005, qui in Sotgiu, 2013) good hap significava buona fortuna in Old English.

Haybron (2012) ci rimanda alla Stanford Encyclopedia of Philosophy in cui la spiegazione del termine è legata alla sua essenza e la sua essenza è in relazione con chi la studia. Si sostiene qui che la “Happiness” viene solitamente intesa in due modi:

 come termine psicologico puramente descrittivo di uno stato, allo stesso modo di “depressione” o “tranquillità”,

 come sinonimo di Well-being, di Flourishing nel senso di condurre una vita felice.

Una distinzione simile ma non identica viene ripresa anche da McMahon (2010) che dice che oggi la felicità sembra «more feeling good than being good».

Anche Jacobsen (2007) lavora su una distinzione, mentre si pone l’ambizioso obiettivo di rispondere alla domanda «What is happiness?» che nasce dal suo lavoro quale terapista-psicologo esistenziale. Egli sottolinea come l’emergenza di una definizione ha origine dal fatto che coloro che si sottopongono alla terapia sono persone che non sono felici e che vorrebbero esserlo. Dover aiutare delle persone a trovare la felicità richiede effettivamente uno sforzo nella definizione di cosa essa sia. Jacobsen distingue tra gli stati di breve e lunga durata della felicità intendendo i primi come ordinaria felicità e i secondi come vera felicità, i primi ottenibili con una certa frequenza, i secondi quasi mai. Jacobsen in realtà mette in evidenza ancora la difficoltà di definizione, ne sottolinea la variabilità data da pressioni e spinte, metamorfosi e alterazioni provocate dall’importanza che diamo al concetto stesso o a quanto ci viene detto dovremmo essere felici sulla base di presupposti di vario tipo. Egli propone una «composed joyous serenity», uno stato estremamente difficile da raggiungere fatto di tre componenti fondamentali, libertà, gioia e serenità e di due dimensioni una psico-biologica e una spirituale.

Oltre a coloro che abbiamo citato, pochi ricercatori sono riusciti a – o hanno voluto – trovare una reale definizione di questo concetto senza cadere nelle varie concettualizzazioni.

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La difficoltà nel ragionare su questo concetto è tanto evidente che Argyle (1987) lo indica come «obscure and mysterious», e anche lui sottolinea che spesso le risposte ad una eventuale richiesta di definizione diventano le stesse concettualizzazioni.

Sonja Lyubomirsky, luminare russa sulla felicità e sulla Psicologia Positiva, e professore a Berkeley, alla domanda di cosa sia la felicità risponde «the experience of joy, contentment, or positive well-being, combined with a sense that one’s life is good, meaningful, and worthwhile»8.

Diener, che ha dato un contributo enorme alla ricerca sulla felicità in particolare edonica e alla concettualizzazione del Subjective Well-being, dal canto suo, (2009, qui in Nistor, 2011) riporta che le definizioni esistenti di benessere e felicità possono essere distinte in tre tipi:

1. normative, che indicano non ciò che la felicità è, ma ciò che è desiderabile essa sia. Non si intende che eudaimonia – che sarà spiegata di seguito – porta alla gioia ma che la gioia è il risultato del piacere di aver vissuto una vita virtuosa; in questo senso, la felicità è vista come il bene più grande o anche il più forte motivatore di tutti i comportamenti umani (Argyle, 1987);

2. quelle che utilizzano criteri soggettivi e si preoccupano di chiarire ciò che fa sì che le persone valutino le loro vite come positive;

3. quelle legate alla quotidianità in cui la felicità è una proporzione più alta di affettività positiva rispetto all’affettività negativa «the belief that goes along with pleasant effects when one achieves the things that he/she wants» (Kraut, 1979).

Haybron (2003) dà un contributo sostanzialmente filosofico ma interessante sostenendo che non abbiamo gli strumenti per verificare la validità delle nostre interpretazioni perché non abbiamo i mezzi per provare cosa sia corretto o scorretto. In effetti, sostiene, si tende a ricercare concetti che meglio si adattino a concetti già conosciuti e questa è già una prima alterazione. Alla luce di questo, Haybron dichiara che sarebbe forse importante smettere di chiedersi cosa sia la felicità e porsi altre domande più rispondibili come: dato il nostro interesse per la felicità come può essa essere compresa al meglio? E

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elabora un range di quelle che definisce macro-funzioni nelle quali viene tendenzialmente richiamato questo concetto fondamentale:

 in situazioni in cui si debba prendere decisioni importanti;

 in situazioni in cui si debba valutare le proprie o altrui condizioni tipicamente per sapere o riportare quanto bene qualcuno stia riguardo ad un certo ambito;

 in situazioni in cui si debba predire qualcosa;

 in situazioni in cui sia necessario spiegare i grandi cambiamenti della propria vita. I primi due punti rivestono un’importanza superiore. Sempre secondo Haybron, ci sono dei vincoli cui le teorie sulla felicità che devono assolutamente sottostare tra cui l’adeguatezza descrittiva, l’utilità pratica e teorica, l’ubiquità, l’efficienza e la coerenza.

Haybron conclude con la seguente idea

«the best conception of happiness is the one that best enables us to satisfy our practical needs as ordinary individuals trying to lead good lives» (Haybron, 2003).

Nel tentativo di dare delle definizioni, risulta frequente l’elencazione di tipi o caratteristiche della felicità. È il caso dello studio indiano di Limbasiya (2015) che mette in evidenza come possano essere definiti 6 tipi di felicità in una sorta di scala gerarchica:

 materiale, legata all’ambiente in cui si vive;

 fisica, collegata con i bisogni basici di Maslow (1970);  sensoriale, legata alla conoscenza e azione dei 5 sensi;  intellettuale, in cui la mente elabora il lavoro dei 5 sensi;  psicologica, come attitudine positiva verso la vita;

 spirituale, legata al True Self come insieme di verità, consapevolezza e beatitudine. La complessità del tema si è ampiamente resa evidente. Si ritiene quindi che un passo indietro alla genesi concettuale della felicità stessa possa portare un contributo alla comprensione. L’inizio, la base di partenza per il concetto di felicità conduce all’antica Grecia e alle due parole eudaimonia e hedonia.

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