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I BAMBINI FELICI: STATO DELLA RICERCA

8.3. Eudaimonia e hedonia: dalle origini filosofiche a oggi

8.3.1. Eudaimonia o la virtù

Eudaimonia è un termine, probabilmente coniato da Platone, che come significato riporta al greco ‘buon’ (eu) ‘demone’ (daimon) e indica l’idea di avere un demone che protegga nei momenti critici (De Luise & Farinetti, 2001). Il demone daimon ha un valore morale, è presente solo nel momento in cui un uomo conduce una vita elevata ed é «true to one’s inner self» (Waterman, 1993).

Il concetto di eudaimonia trova la sua massima espressione teorica grazie a Aristotele che nell’Etica Nichomachea (I 6 1097b22) un testo di grande valore intellettuale la indica come

«un’attività dell'anima razionale secondo virtù e, se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la perfetta»

Nel pensiero citato, i due concetti di attività e di virtù sono uniti insieme evidenziando un’idea di volontarietà e di impegno per vivere bene e per ottenere la felicità virtuosa che è

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il fine cui tutte le azioni tendono, l’obiettivo ultimo, il quale compendia e subordina a sé gli altri fini. Questo concetto è assolutamente oggettivo costituito di valori quali la conoscenza, l’amicizia e l’etica che secondo Aristotele rendevano la vita gradevole per una persona e degna di essere vissuta (Kashdan, 2008) e l’uomo che risulta da queste riflessioni è elevato ma pratico e autonomo, in grado di controllare le emozioni, di agire in maniera virtuosa e di condividere il proprio essere e logos nel vivere sociale (De Luise & Farinetti, 2001). Il controllo delle proprie emozioni e la regolazione della propria condotta che sono legati in Aristotele alla teoria del giusto mezzo evidenziano l’importanza di mantenersi a distanza dalle posizioni estreme di valenza opposta secondo Aristotele «né corrette né lodevoli ma degne di biasimo» (Sotgiu, 2013). La particolarità di questo vivere non è essere compiaciuti della propria vita ma lottare per elevarsi, per ottenere gli obiettivi che devono essere puri, retti e virtuosi (Waterman, 1993) e misurati.

Si è a lungo discusso sul significato intrinseco del termine eudaimonia e molti sostengono che esso sia l’esatto equivalente di «human flourishing» (Kraut, 1979), e che risponda a quel concetto di benessere psicologico ottimale che coinvolge la persona in toto, che dipende dall’autorealizzazione e include tra gli altri i concetti di crescita personale, proposito nella vita e senso di autonomia. Kraut (1979) lo considera come uno stato della mente e Ryan & Deci (2001) come «more than just happiness».

Alle origini, eudaimonia era soggetto a costante tirocinio ma non poteva essere insegnato. L’uomo poteva essere felice a patto che mantenesse l’obiettivo sulla virtù individuale, morale e intellettuale, e modificando eventualmente le modalità di acquisizione. Per sentirsi bene nella propria vita bisognava comprendere quanto i valori che guidavano e gli obiettivi che ci si prefiggeva e che rendono felici, rispondessero alle norme sociali di standard oggettivi di bontà e influenzassero le emozioni positive, i sentimenti di appartenenza, il significato della vita ed altri elementi della buona vita.

Proprio perché richiedeva degli sforzi di tipo valoriale e concettuale, secondo Aristotele questo tipo di felicità non era per tutti. Questo obiettivo universalmente umano era accessibile solo a pochi.

Poi con i filosofi moderni e le moderne rielaborazioni tuttavia, il limitato numero di aventi accesso aumenta anche se persiste quell’idea di merito che la felicità doveva avere colpevolizzando gli infelici e creando una forma di spiegazione morale al verificarsi della felicità stessa.

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Sulla base dell’eudaimonia si sviluppa quello che viene chiamato Eudaimonic Well-being che intende il daimon come l’insieme delle potenzialità di ogni individuo che devono essere attuate per portare alla felicità. Questo tipo di felicità è quindi proiettiva, spinge l’individuo verso il futuro in uno sforzo e impegno costante. Al centro sembra essere proprio l’impegno, e il significato di esso. L’impegno che è richiesto per ottenere la felicità non arriva per caso ma è il risultato di un lavoro su sé stessi e sui propri obiettivi e dà significato alla vita che diventa in questo modo degna di essere vissuta.

Un contributo fondamentale si evidenzia nel lavoro di Ryff & Singer (1998) che riprendono il concetto di eudaimonia richiamando l’idea cartesiana di dualità tra la mente e il corpo dalla quale traggono lo spunto per riportare l’attenzione sulla mente quale elemento fondamentale nel benessere psicologico. Ci si stacca quindi dall’idea di benessere come stato neutrale di assenza di aspetti negativi e ci si focalizza su concetti base quali i key goods: avere obiettivi nella vita e avere relazioni di qualità con gli altri, avere considerazione di sé e controllo. I ricercatori inoltre enfatizzano l’importanza della resilienza per proteggersi o recuperare dalle esperienze traumatiche che sono parte della vita.

In generale, questo concetto di felicità ha varie sfaccettature, e non è molto facilmente definibile, la felicità stessa è la somma di più componenti le cui combinazioni variano il risultato finale. Non si tratta qui di intendere la felicità come unidimensionale – di essere/non essere felice – ma come qualcosa di molto più complesso, variabile, interpretabile.

La teoria eudemonica come vedremo in seguito ha portato ad una serie di modellizzazioni come l’Optimal Well-being richiamato già da Fromm (1981, qui in Waterman, 1993) che focalizza l’attenzione sui bisogni radicati nella natura umana la cui realizzazione porta alla crescita umana e produce eudaimonia e vivere bene. Questo concetto sarà ripreso da Ryff (1998) in maniera dettagliata.

Un’altra modellizzazione è la teoria dell’autodeterminazione (Ryan & Deci, 2000), la SDT che focalizza l’attenzione su cosa significhi realizzare il Self e come questo possa essere fatto considerando i tre bisogni psicologici di base che sono Autonomy, Competence e Relatedness, il cui compimento è essenziale per la crescita psicologica, l’integrità e il benessere.

La Personal Expressiveness è invece elaborata da Waterman (1993 e 2008) e finalizzata sempre a obiettivi di auto-realizzazione ma basati sullo sfruttamento delle

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proprie potenzialità e dei propri talenti. Expressiveness quindi che tratta di proattività, la qualità della performance, la continuità dello sforzo e la finalizzazione delle azioni.