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Per quanto riguarda gli studi empirici sulla felicità dei bambini, a seconda del tema, sembra di poterli raggruppare in alcune categorie principali:

 analisi delle variabili che possono essere predittori della felicità, con una ricorrente attenzione alla parte eziologica del motivo per cui i bambini sono felici;

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 analisi e valutazioni del benessere dei bambini con il fine di comprendere se i bambini felici di oggi saranno degli adulti felici e secondo quali criteri;

 punto di vista dei bambini a proposito del concetto di felicità;

 analisi della felicità e il benessere a scuola, alcuni di questi contributi mettono in evidenza la possibilità di insegnare ai bambini a stare bene in un modo formalizzato e istituzionalizzato a scuola e questo sarà oggetto del paragrafo successivo.

La categoria più consistente è quella in cui ci si occupa di comprendere le relazioni, causali o meno, con la felicità. Le variabili prese in considerazione sono numerose e riguardano

 la questione socio-anagrafica in particolare l’età, il genere, la classe sociale;  la questione sociale e relazionale, in particolare il legame con la famiglia e con

i genitori e con gli amici;

 altre variabili astratte come spiritualità, religiosità, temperamento.

La questione socio-anagrafica è presa spesso in considerazione come variabile indipendente. L’età in particolar modo è oggetto di analisi e sembra avere secondo alcuni studi dei legami con SWB dei bambini (Manzoor, Siddique, Asghar, Nazir & Hassan, 2015) o la felicità degli adolescenti (Uusitalo-Malmivaara, 2014) di tipo negativo. Un altro studio tuttavia non si riscontrano correlazioni in termini di età ma di tipo socio-economico, nel senso che ragazzi di classe sociale più bassa hanno tendenzialmente un SWB abbastanza basso (Bedin & Sarriera, 2015).

Un’altra ricerca si pone l’obiettivo di scoprire cosa renda i bambini felici al variare dell’età (Chaplin, 2009) e i suoi risultati appaiono interessanti. Chaplin evidenzia come ci siano delle differenze, ma come queste rispondano più a differenze nell’oggetto di felicità, in ciò che li rende felici, più che a variazioni del livello di felicità stesso al variare dell’età. Per quanto riguarda l’aspetto socio-relazionale, vari studi rilevano che la relazione famigliare (Gray, Chamratrithirong, Pattaravanich & Prasartkul, 2013) e quella sociale (Uusitalo-Malmivaara & Lehto, 2013) sono fondamentali per la crescita armonica e serena di un ragazzo. Questo è confermato anche da Holder & Coleman (2009) e O'Rourke & Cooper (2010) che segnalano come i bambini tendano a essere più felici se hanno relazioni sociali. Goswami (2012) distingue vari tipi di relazioni sociali: dalla famiglia alle amicizie

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con connotazioni positive o negative includendo esperienze di bullismo. Egli mette in evidenza come relazionalità positive e negative influenzino il Subjective Well-being: in particolare, in positivo, le relazioni positive con la famiglia e le amicizie positive e, in negativo, le esperienze di bullismo.

Da un’ottica più esplorativa anche Greco e Ison (2014) propongono di individuare con un’analisi quali-quantitativa i determinanti della felicità negli adolescenti. Ne emerge un quadro interessante in cui la famiglia e le amicizie sono le principali fonti di felicità, unite a situazioni sociali serene, frequentazione di attività del tempo libero e possesso di animali domestici.

La relazione genitoriale positiva tende ad essere un buon indicatore di felicità (Headey, Muffels & Wagner, 2014) in virtù della trasmissione dei valori e delle scelte comportamentali associate alla felicità: ovvero bambini con genitori pro-felici saranno anch’essi pro-felici e avranno comportamenti tipici della persona felice (prosocialità). La relazione genitoriale positiva in termini di Positive Affect sembra agevolare un’efficacia educativa (Karazsia & Wildman, 2009).

Molti ricercatori, come abbiamo già segnalato, hanno trovato delle correlazioni con il temperamento che indirettamente si lega alla questione della personalità (Holder & Klassen, 2010) o con l’ottimismo (O'Rourke & Cooper, 2010), o con la spiritualità e la religione (Abdel-Khalek, 2009; Eaude, 2009; Holder, Coleman & Wallace, 2010), che emergono essere buoni indicatori di felicità.

Huebner e colleghi (2004) studiando la Life Satisfaction e la Perceived Quality of Life si sono resi conto che bambini con alta autostima, locus of control interno e stabilità emotiva hanno più alti livelli di Life Satisfaction.

La seconda categoria di studi riguarda gli elementi del benessere del bambino o dell’adolescente che possano diventare predittori del benessere o della salute dell’adulto di domani (Jewell & Kambhampati, 2015; Flouri, 2004; Hoyt, Chase-Lansdale, McDade & Adam, 2012).

Uno di questi studi (Jewell & Kambhampati, 2015) mette in evidenza come esista una correlazione tra i livelli di felicità di un minore e la Life Satisfaction da adulto (subordinata a determinate condizioni demografiche e socio-economiche e di personalità). Questo era stato dimostrato anche precedentemente, anche se erano stati evidenziati due principali tipi di fattori che potevano essere considerati degli importanti predittori negativi

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del livello di Life Satisfaction da adulti: i problemi emozionali-comportamentali nell’infanzia e il disagio sociale (Frijters, Johnston & Shields, 2011).

Il fatto che i minori siano visti in proiezione adulta non sorprende. Nel nostro percorso di conoscenza del minore, noi adulti abbiamo avuto bisogno di tempo per collocarlo in maniera diversa rispetto ad “antecedente” dell’adulto. Lo stesso Freud, già menzionato quale uno dei primi studiosi del bambino da un punto di vista psicologico, lo studiava solo per comprendere le cause delle problematiche sviluppate dallo stesso in età adulta. Questa tendenza della nostra società è messa in evidenza anche da Bradshaw et al. (2007) e D’Amato (2008). Ma come Alanen (1990) sostiene, il focus sul futuro dei bambini è un chiaro esempio di «definizione in negativo» in cui appunto i bambini sono visti solo in relazione a ciò che diventeranno. D’Amato sottolinea proprio la necessità di non pensare al bambino semplicemente come adulto di domani ma come bambino di oggi con le sue caratteristiche, criticità, emozioni. Ragionare in questi termini significa porre attenzione al suo essere, agli eventi della sua vita, al qui e ora. Pensare in termini futuribili significa invece dare poca importanza al fondamentale, frammentato e ricco quotidiano nel quale vanno a collocarsi le avventure, quotidianità, vissuti ed emozioni. Essere attenti ai bambini in quanto tali significa tener maggiormente presente l’esperienza in sé che non il ricordo che essa creerà.

Esiste quindi una necessità di fare attenzione al nostro modo di porci nei confronti dei minori e di guardare al bambino per come si manifesta, vive e reagisce. Questo non significa rifiutare quanto verrà dopo, anzi esso sarà importante, perché ovviamente il vissuto del bambino di oggi ha ovviamente una ricaduta sull’adulto di domani. Ciò che però nelle nostre valutazioni deve pesare è il fatto di mettere non l’adulto al centro degli studi ma il bambino stesso.

La terza categoria di studi riguarda l’idea che i bambini e gli adolescenti hanno della felicità. In un’analisi quali-quantitativa (Lopez-Perez, Sanchez & Gummermum, 2016), i bambini hanno positive feelings nei confronti della felicità mentre concetti più astratti come harmony e balance emergono nelle parole degli adolescenti. Anche il concetto eudemonico di achievement si riscontra solo nelle parole degli adolescenti. L’idea di felicità come ultimate value emerge invece da entrambi i gruppi. Un altro contributo(Giacomoni, De Souza & Hutz, 2014) in cui si chiede ai bambini cosa venga in mente nominando la felicità, le risposte hanno una differenza di genere nel senso che le bambine si riferiscono alla felicità come sentimento positivo mentre per i bambini essa è molto legata al tempo libero.

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Infine, un altro interessante studio (Freire, Zenhas, Tavares & Iglesias, 2013), analizza la felicità di adolescenti attraverso la scala EHHI Eudaimonic and Hedonic Happiness Investigation di Delle Fave, Brdar, Freire, Vella-Brodrick & Wissing (2011) e rileva una correlazione tra gli indicatori di felicità e lo sviluppo positivo degli adolescenti. Con un campione 216 adolescenti si studiano, da un lato, i domini all’interno dei quali le relazioni interpersonali – la vita quotidiana e la famiglia – rappresentano il nucleo importante, e, dall’altra, le dimensioni psicologiche in cui emozioni, realizzazione ed equilibrio rappresentano gli aspetti fondamentali. Vengono poi evidenziati gli aspetti significativi della vita corrente degli adolescenti e qui i dati di rilievo riguardano relazioni interpersonali, famiglia ed educazione. E alla richiesta di addurre una motivazione della significatività di questi elementi, la risposta di gran lunga più frequente risulta essere la vita personale. Entrambi gli aspetti di eudemonia ed edonia hanno un valore all’interno della vita degli adolescenti. Come sostengono gli autori sopra citati, il costrutto deve tener presente entrambe le prospettive: la dimensione edonica finalizzata al piacere immediato, o affetto positivo, e quella eudemonica di sfida e possibilità di crescita.

10.3.1. Si può imparare ad essere felici? Pedagogia della felicità

Secondo l’approccio socio-famigliare (Hoy, Suldo & Mendez, 2013), la felicità è frutto di un’educazione e di una socializzazione famigliare. Ma la felicità può essere insegnata in un modo formalizzato, ad esempio a scuola?

Con l’emergere della psicologia positiva, l’evidenziazione delle conseguenze positive della felicità in termini di salute – prevenzione di malattie mentali e depressione – soddisfazione di vita e di scuola e di incremento delle abilità di apprendimento e della creatività (Marques, Pais-Ribeiro, & Lopez, 2011; Holder, 2012), la domanda se si possa esser felici si è presentata sempre più spesso.

L’analisi condotta da Rijavec (2015) mette in evidenza come una serie di programmi siano stati sviluppati con l’obiettivo di intervenire nelle scuole per promuovere la Positive Education, paradigma che si riferisce all’applicazione della psicologia positiva in contesti educativi. Un esempio risulta essere il Penn Resiliency Program elaborato da Seligman nel 1995, e attuato con buoni risultati. Il programma presenta due obiettivi specifici (Holder, 2012):

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 assistere gli studenti nell’individuazione dei propri punti di forza;

 insegnare agli studenti a utilizzare tali punti di forza nella vita quotidiana; Altri programmi, che lavorano sulla speranza che si è dimostrata essere positivamente correlata con la Life Satisfaction (Marques et al., 2011, qui in Holder, 2012) o per diminuire ansia e depressione (Shoshani & Steinmetz, 2014), evidenziano risultati efficaci.

La proposta della Positive Education si riferisce a sei domini particolari: Positive Emotions, Engagement, Accomplishment, Purpose, Relationship, Health. Questi dovrebbero essere inseriti nel curriculum scolastico a tre livelli: Teaching, Embedding e Living Positive Education (Norrish, Williams, O’Connor, & Robinson, 2013). Come Rijavec sostiene, questo filone è veramente agli inizi, tuttavia i risultati sono interessanti ed è importante lavorare in questi termini sia a livello di educazione con i bambini sia a livello di ricerca.

La riflessione sull’insegnamento della felicità è oggetto di domanda anche per Kesebir e Diener che si chiedono cosa possa rappresentare un’educazione formalizzata, anche se mettono in evidenza che è importante fissare un obiettivo ben preciso (Kesebir & Diener, 2008). In effetti, questi percorsi richiamano un po’ quell’idea oggi molto presente di Personal o Life Coaching che – anche se evidenziano una certa utilità in particolare per persone in difficoltà – induce a chiedersi quale sia l’effettiva necessità, per persone e soprattutto bambini non affetti da tematiche patologiche, di un’educazione formalizzata a qualcosa che dovrebbe essere assolutamente spontaneo. La sua utilità dal punto di vista di chi scrive risiede esclusivamente nelle tematiche della consapevolezza e non è esattamente da considerarsi come ‘educazione alla felicità’.