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Le denominazioni d’origine e le indicazioni di provenienza alla Corte di giustizia

L A PROTEZIONE DELLE INDICAZIONI GEOGRAFICHE DEI PRODOTTI AGRICOLI E ALIMENTARI NEL DIRITTO DELL ’U NIONE EUROPEA

2.2 Le denominazioni d’origine e le indicazioni di provenienza alla Corte di giustizia

Negli anni che hanno preceduto l’adozione del regolamento n. 2081/1992, le indicazioni geografiche riferite a prodotti dell’agricoltura sono state, direttamente e indirettamente, oggetto di alcune controversie finite dinanzi alla Corte di giustizia. Come ha rilevato l’Avvocato Generale Ruiz-Jarabo Colomer nelle conclusioni presentate in occasione della seconda sentenza sul caso Feta168, la Corte di giustizia si è occupata, seppur in via incidentale, di indicazioni di provenienza per la prima volta nella celebre sentenza

Dassonville169. In quell’occasione, pur non fornendo una definizione né di indicazione di provenienza, né di denominazione d’origine, la Corte affermò che in mancanza di un sistema comune atto a garantirne l’autenticità, gli Stati membri avrebbero potuto adottare, entro certi limiti, provvedimenti intesi a prevenire comportamenti sleali170.

offrono una serie di garanzie sul metodo di fabbricazione e sull'origine”. Dello stesso tenore alcuni passaggi

della Comunicazione COM (88) 501 Il futuro del mondo rurale.

167 Si veda il settimo considerando del regolamento 2081/1992, “considerando tuttavia che le prassi nazionali di elaborazione e di attribuzione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche sono attualmente eterogenee; che in effetti un quadro normativo comunitario recante un regime di protezione favorirà la diffusione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine poiché garantirà, tramite un'impostazione più informe, condizioni di concorrenza uguali tra i produttori dei prodotti che beneficiano di siffatte diciture, ciò che farà aumentare la credibilità dei prodotti in questione agli occhi dei consumatori”.

168 Conclusioni dell’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer del 10 maggio 2005 in cause riunite C-465/02 e

C-466/02, Repubblica federale di Germania (C-465/02) e Regno di Danimarca (C-466/02) contro

Commissione delle Comunità europee, in Raccolta, 2005, p. I-9115. Si vedano in particolare le pagine I-

9137-I-9140.

169 Sentenza della Corte di giustizia 11 luglio 1974 in causa C-8/74, Procureur du Roi contro Benoît e Gustave Dassonville, in Raccolta, 1974, p. 837.

170 Punto 6 della sentenza in causa C-8/74: “finché non sarà stato instituito un regime comunitario che garantisca ai consumatori l'autenticità della denominazione di origine d'un prodotto, gli Stati membri che intendano adottare provvedimenti contro comportamenti sleali in tale settore possono farlo soltanto a condizione che tali provvedimenti siano ragionevoli e che i mezzi di prova richiesti non abbiano per effetto di ostacolare il commercio fra gli Stati membri, ma siano accessibili a tutti i cittadini comunitari”.

2.2.1 Dal caso Sekt e Weinbrand alla sentenza Exportur: storia ed evoluzione di una definizione

Pochi anni più tardi, in occasione della sentenza sull’uso dei termini Sekt e Weinbrand171, i giudici comunitari elaborarono una prima definizione. Rifacendosi alla direttiva n. 70/50/CEE172, la Corte affermò che le indicazioni di provenienza e le denominazioni d’origine mettono in rilievo la provenienza di un prodotto da una determinata zona geografica. Più precisamente, “la loro ragion d’essere consiste […] nel designare un

prodotto che possiede in effetti qualità e caratteristiche intimamente connesse alla zona di provenienza”173.

La Corte, pur non chiarendo quale fosse la differenza tra le une e le altre, individuò quindi i due requisiti necessari affinché un termine potesse rientrare nella definizione: porre in rilievo la provenienza geografica del prodotto, il quale possiede caratteristiche e qualità intimamente connesse con il territorio d’origine. In altre parole, l’indicazione di provenienza e la denominazione d’origine individuano un prodotto, che si distingue dagli altri beni comparabili per qualità o caratteristiche dovute al territorio da cui provengono. Se così non fosse, verrebbe meno la natura distintiva del termine, non avremmo quindi un’indicazione di provenienza o una denominazione d’origine, ma bensì una denominazione generica.

Sempre nella stessa sentenza, la Corte fissò anche un primo limite174. L’ambito geografico cui fa riferimento un’indicazione di provenienza o una denominazione d’origine non poteva essere definito né in funzione di un criterio linguistico, né in rapporto ad un intero

171 Sentenza della Corte di giustizia del 20 febbraio 1975 in causa n. C-12/74, Commissione c. Repubblica federale di Germania, in Raccolta, 1975, p. 181. In dottrina, tra gli altri, G. MARENCO, I termini “Sekt” e

“Weinbrand” non sono riservati ai prodotti tedeschi, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali,

1975, p. 358; D. WYATT, Free Movement of Goods and Indications of Origin, in The Modern Law Review,

1975, p. 679.

172 Direttiva della Commissione n. 70/50/CEE, del 22 dicembre 1969, che trova la sua fonte normativa nel disposto dell'articolo 33 paragrafo 7, del Trattato, relativa alla soppressione delle misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative non contemplate da altre disposizioni prese in virtú del Trattato CEE,

in GUCE L 13 del 19 gennaio 1970, p. 29.

173 Punto 7 della sentenza in causa C-12/74: “Le denominazioni d'origine e le indicazioni di provenienza, cui la direttiva si riferisce, devono, a prescindere dagli elementi che possono più particolarmente caratterizzarle, possedere un requisito minimo: esse devono mettere in rilievo la provenienza del prodotto da una determinata zona geografica. Nella misura in cui le predette denominazioni sono giuridicamente tutelate, esse devono giustificare tale protezione, cioè apparire necessarie non solo per difendere i produttori interessati dalla concorrenza sleale, ma altresì per impedire che i consumatori siano tratti in inganno da indicazioni fallaci. La loro ragion d'essere consiste precisamente nel designare un prodotto che possiede in effetti qualità e caratteristiche intimamente connesse alla zona di provenienza. Per quanto riguarda più specificamente le indicazioni di provenienza, il collegamento con la zona geografica d’origine deve poter evocare una qualità e caratteristiche tali da consentire una precisa individuazione del prodotto”. 174 Punto 8 della sentenza in causa C-12/74: “una zona di provenienza definita in rapporto all'intero territorio nazionale oppure in funzione d'un criterio linguistico non costituisce un ambito geografico (nel senso in precedenza considerato) cui si possa ricollegare un'indicazione di provenienza. Ciò è tanto più vero se si osserva che i prodotti in esame possono essere ottenuti partendo da uve di provenienza non specificata”.

territorio nazionale. Così facendo, i giudici non fecero altro che applicare la definizione appena elaborata. Risulta, infatti, assai improbabile poter far risalire una o più qualità del prodotto a caratteristiche riscontrabili nell’intero territorio di un Paese. Alla stessa maniera, il criterio linguistico appare inadeguato costituendo di per sé un riferimento troppo ampio.

La definizione fornita ed i limiti fissati delinearono, quindi, un rapporto tra prodotto e territorio stretto e materialmente riscontrabile.

Successivamente, la Corte riprese la giurisprudenza Sekt e Weinbrand in occasione di un rinvio pregiudiziale175 sorto per determinare la compatibilità con il Trattato di una normativa francese che disciplinava l’uso della denominazione per formaggi Edam. Rifacendosi alla definizione elaborata qualche anno prima, i giudici qualificarono Edam denominazione di vendita e non indicazione di provenienza o denominazione d’origine176.

Edam costituiva, quindi, una denominazione generica, perché non individuava un prodotto

preciso con caratteristiche distintive dovute all’origine geografica.

Nel novembre 1992, la Corte, in occasione della sentenza Exportur177, tornò ad occuparsi

di indicazioni di provenienza e di denominazioni d’origine. Secondo la Corte, “le

indicazioni di provenienza sono destinate ad informare il consumatore del fatto che il prodotto che le reca proviene da un luogo, da una regione o da un paese determinati. A questa provenienza geografica può essere connessa una reputazione più o meno grande. La denominazione d’origine, dal canto suo, garantisce, oltre alla provenienza geografica del prodotto, il fatto che la merce è stata prodotta secondo i requisiti di qualità o le norme di produzione disposti da un atto delle pubbliche autorità e controllati dalle stesse e quindi la presenza di talune caratteristiche specifiche”178. A parere dei giudici comunitari, quindi, esiste una differenza tra le indicazioni di provenienza e le denominazioni d’origine. Entrambe identificano la provenienza geografica del prodotto, ma differiscono nell’intensità del rapporto che lega quest’ultimo al territorio d’origine. Le prime fondano

175 Sentenza della Corte di giustizia del 22 settembre 1988 in causa n. C-286/86, Deserbais, in Raccolta,

1988, p. 4907. Un altro caso in cui la Corte segnò la differenza tra denominazioni di origine e denominazioni di vendita, e quindi generiche, fu la sentenza della Corte di giustizia del 12 ottobre 1978 in causa n. C-13/78,

Joh. Eggers Sohn & Co. c. Freie Hansestadt Bremen, in Raccolta, 1978, p. 1935, pur senza richiamare la

giurisprudenza Sekt e Weinbrand.

176 Punto 9 della sentenza in causa C-286/86.

177 Sentenza della Corte di giustizia del 10 novembre 1992 in causa n. C- 3/91, Exportur Sa c. Lor Sa e Confiserie du Tech, in Raccolta, 1992, I, p. 5529. In dottrina, tra gli altri, O. W. BROUWER, Free Movements

of foodstuffs and quality requiremets: Has the Commission got it wrong?, in Common Market Law Review,

1993, p. 1209; P. QUAIA, La tutela delle denominazioni geografiche tra diritto nazionale e diritto

comunitario, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1996, p. 277. 178 Punto 11 della sentenza in causa C-3/91.

tale legame sulla reputazione, le seconde su caratteristiche precise e riscontrabili del prodotto, tanto che possono essere fissate in atti adottati dalle autorità pubbliche179.

Questa definizione, a differenza della giurisprudenza Sekt e Weinbrand, traccia un confine tra i due segni, ma soprattutto accetta per le indicazioni di provenienza un legame con il territorio fondato sulla reputazione, per definizione immateriale, diversamente da quanto avveniva nella precedente pronuncia180.

2.2.2 Indicazioni di provenienza, denominazioni d’origine e libera circolazione delle merci

Le norme nazionali che riconoscevano e tutelavano le indicazioni geografiche configuravano un ostacolo alla libera circolazione delle merci, perché riservavano a prodotti con una precisa localizzazione geografica l’uso di una denominazione. In particolare, tali norme risultavano in contrasto con il divieto di fissare restrizioni quantitative negli scambi di merci tra gli Stati membri181, oggi articoli 34 e 35 TFUE. La Corte, tuttavia, dispose che la protezione dei diritti connessi ad un’indicazione di provenienza o ad una denominazione d’origine potesse rientrare nella tutela della proprietà industriale e commerciale182. In questo modo, le norme nazionali, pur qualificate come misure d’effetto equivalente a restrizioni quantitative183, avrebbero beneficiato della deroga prevista dall’articolo 36 TFUE e dichiarate, quindi, compatibili con il Trattato184. Traccia di questo ragionamento lo ritroviamo già nella sentenza Sekt e Weinbrand185, ma è

179 La Corte ribadisce la differenza tra indicazione di provenienza e denominazione d’origine anche al punto

28 della sentenza, in cui afferma “la posizione assunta dalla Commissione, che concorda con quella difesa

dalla LOR e dalla Confiserie du Tech, va disattesa. Essa si risolverebbe infatti nel privare di qualsiasi tutela le denominazioni geografiche che siano usate per dei prodotti per i quali non si può dimostrare che debbano un sapore particolare ad un determinato terreno e che non siano stati ottenuti secondo requisiti di qualità e norme di fabbricazione stabiliti da un atto delle pubbliche autorità, denominazioni comunemente chiamate indicazioni di provenienza. Queste denominazioni possono ciò nondimeno godere di una grande reputazione presso i consumatori e costituire per i produttori, stabiliti nei luoghi che esse designano, un mezzo essenziale per costituirsi una clientela. Esse devono quindi essere tutelate”.

180 Per P. BORGHI, in op. cit., p. 183-185, la definizione di indicazione di provenienza che ritroviamo in Exportur segna una svolta nella giurisprudenza della Corte. L’autore, a giusta ragione, pone in evidenza

come la Corte sia passata dal richiedere, quale requisito oggettivo di tutela, la necessaria esistenza di un legame tra qualità e territorio, nella sentenza Sekt e Weinbrand, ad accontentarsi, nella successiva sentenza

Exportur, di un nesso soltanto possibile, o anche solo creduto, fondato sulla reputazione. 181 Punti 16-22 della sentenza in causa C-3/91.

182 Punto 37 della sentenza in causa C-3/91. La stessa posizione la ritroviamo anche nella sentenza della

Corte del 9 giugno 1992, in causa C-47/90, Établissements Delhaize frères et Compagnie Le Lion SA contro

Promalvin SA e AGE Bodegas Unidas SA, in Raccolta, 1992, p. 3669, punti 16 e 17.

183 Così come definite nella giurisprudenza Dassonville “ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come una misura d'effetto equivalente a restrizioni quantitative”.

184 Punto 39 della sentenza in causa C-3/91.

185 La Corte afferma al punto 7 della sentenza che laddove sono tutelate, le indicazioni geografiche devono

giustificare tale protezione come necessaria a salvaguardare la concorrenza leale tra le imprese e una corretta informazione per i consumatori. Ai punti 15 e 16, invece, la Corte qualifica la tutela delle indicazioni di

in particolare nella sentenza Exportur che la Corte chiarisce la sua posizione. A parere dei giudici, infatti, la protezione dei diritti connessi ad un’indicazione geografica mira alla salvaguardia della concorrenza leale tra le imprese, perché combatte fenomeni di sfruttamento indebito della reputazione delle denominazioni con cui i prodotti vengono presentati ai consumatori. Tale scopo viene fatto rientrare dalla Corte nella tutela della proprietà industriale e commerciale, salvando così le misure nazionali dalla non compatibilità con il Trattato186.

Al contrario, una norma nazionale che riserva una denominazione generica, quali sono ad esempio le denominazioni di vendita, a prodotti aventi una determinata localizzazione geografica risulterebbe non solo una misura d’effetto equivalente ad una restrizione quantitativa, ma non potrebbe nemmeno beneficiare della deroga prevista all’articolo 36 TFUE187. Una denominazione generica, infatti, è per sua natura “libera” e utilizzabile da

provenienza e delle denominazioni d’origine come tutela della proprietà industriale e commerciale. Rispetto a quanto affermerà in Exportur, si tratta, tuttavia, di una formulazione ancora poco chiara e non diretta.

186 La Corte afferma al punto 37 della sentenza “in proposito va rilevato che lo scopo della convenzione è quello di impedire che i produttori di uno Stato contraente usino le denominazioni geografiche di un altro Stato, sfruttando così la reputazione propria dei prodotti delle imprese stabilite nelle regioni o nei luoghi indicati da tali denominazioni. Uno scopo siffatto, che mira a garantire la lealtà della concorrenza, può essere considerato compreso nella salvaguardia della proprietà industriale e commerciale ai sensi dell' art. 36, purché le denominazioni non abbiano acquistato, al momento dell' entrata in vigore della convenzione o in un momento successivo, natura generica nello Stato d' origine”.

187 La giurisprudenza della Corte di giustizia è ricca di sentenze che hanno stabilito l’incompatibilità con il

Trattato di misure nazionali che riservavano denominazioni generiche a produzioni nazionali. Oltre alla sentenza Sekt e Weinbrand, tra le più note vi sono la sentenza della Corte di giustizia del 12 ottobre 1978 in causa n. C-13/78, Joh. Eggers Sohn & Co. c. Freie Hansestadt Bremen, in Raccolta, 1978, p. 1935, oppure i vari interventi sulle denominazioni di vendita Aceto, Ginepro, Birra, Pasta, rispettivamente sentenza della Corte di giustizia del 9 dicembre 1981 in causa n. C-193/80, Commissione c. Italia, in Raccolta, 1981, p. 3019; sentenza della Corte di giustizia del 26 novembre 1985 in causa n. C-178/84, Procedimento penale a carico della Miro BV., in Raccolta, 1985, p. 3731; sentenza della Corte di giustizia del 12 marzo 1987 in causa n. C-178/84, Commissione c. Germania, in Raccolta, 1987, p. 1227; sentenza della Corte di giustizia del 14 luglio 1988 in causa n. C-407/85, Drei Glocken GmbH, in Raccolta, 1988, p. 4233; sentenza della Corte di giustizia del 14 luglio 1988 n. C-90/86, Zoni, in Raccolta, 1988, p. 4285. Questo tipo di sentenze fu frequente soprattutto nei primi anni della Comunità, quando accanto alla libera circolazione delle merci proclamata nei Trattati mancavano atti comuni adottati dal Consiglio. Gli Stati membri avevano, difatti, grande difficoltà a legiferare in sede di Consiglio, in particolare per via delle maggioranze richieste. La base giuridica più ricorrente era l’articolo 100 del Trattato, che richiedeva un voto unanime. L’entrata in vigore dell’Atto Unico ha permesso, con l’introduzione dell’articolo 100A che prevedeva un voto a maggioranza qualificata, di superare la fase di stallo raggiunta. In tale contesto, la Corte diede un forte impulso alla costruzione del mercato unico, sulla base degli articoli del Trattato che proclamavano la libera circolazione delle merci. Fu in quegli anni che la Corte elaborò alcuni dei principi poi divenuti cardini dell’ordinamento comunitario, prima fra tutti il principio del mutuo riconoscimento, formulato per la prima volta nella sentenza sul Cassis de Dijon, sentenza della Corte di giustizia del 20 febbraio 1979 in causa n. C-120/78,

Rewe-Zentral AG c. Bundesmonopolverwaltung fur Branntwein, in Raccolta, 1979, p. 649. Su questo tema

la dottrina è ricca di interventi, tra cui, R. BARENTS, Free Movements of Foodstuffs, in CMLR, 1989, p. 103;

F. CAPELLI, I malintesi derivanti dalla sentenza Cassis de Dijon, in Diritto comunitario e degli scambi

internazionali, 1981, p. 566; ID., Libertà di circolazione delle merci nella CEE e legge tedesca di purezza

della birra, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1987, p. 736; ID., Yogourt francese e pasta

italiana (due sentenze e una proposta di soluzione), in Diritto comunitario e degli scambi comunitari, 1988,

p. 389; ID, La libera circolazione dei prodotti alimentari nel mercato unico europeo, in Diritto comunitario

e degli scambi internazionali, 1993, p. 7; L. COSTATO, Sull'interpretazione dell’art. 30 del Trattato CEE, in

tutti i produttori. Essa individua un genere di prodotti, non un prodotto preciso che si distingue dai comparabili per le caratteristiche dovute all’origine geografica. Così, la norma nazionale in causa non potrebbe eludere l’incompatibilità con il Trattato, non potendo rientrare nella tutela della proprietà industriale e commerciale, perché non vi sono diritti di quel tipo garantiti dalla denominazione.