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I marchi di qualità ed i marchi collettivi geografici: possibili alternative alle DOP-IGP?

L A PROTEZIONE DELLE INDICAZIONI GEOGRAFICHE DEI PRODOTTI AGRICOLI E ALIMENTARI NEL DIRITTO DELL ’U NIONE EUROPEA

2.17 I marchi di qualità ed i marchi collettivi geografici: possibili alternative alle DOP-IGP?

Come è ampiamente emerso dai paragrafi precedenti, le DOP e le IGP costituiscono uno strumento di promozione e valorizzazione della qualità territoriale. Pertanto, pare opportuno interrogarsi circa l’esistenza di mezzi alternativi, vista anche la posizione assunta dalla Corte di giustizia in occasione della sentenza Bud II. Mi concentrerò, in particolare, su due istituti: il marchio di qualità ed il marchio collettivo geografico595. Per poter delineare al meglio il quadro giuridico pertinente, richiamerò in maniera concisa due importanti sentenze della Corte di giustizia, rispettivamente i casi Buy Irish e Apple

and Pear Development Council, le quali, pur se emesse nei primi anni Ottanta,

costituiscono un orientamento giurisprudenziale valido ancora oggi.

2.17.1 Il caso Buy Irish

La sentenza Commissione delle Comunità europee c. Irlanda596 rappresenta un noto intervento giurisprudenziale, in cui la Corte di giustizia è stata chiamata a decidere sulla compatibilità con il Trattato di alcune misure nazionali sospettate di creare ostacoli al commercio intracomunitario.

Il caso è assai conosciuto, pertanto mi limiterò a richiamarne gli aspetti salienti. Sul finire degli anni Settanta, il governo irlandese adottò un pacchetto di provvedimenti con l’obiettivo di incentivare l’acquisto di prodotti nazionali e con esso incrementare il numero totale degli occupati597. Le misure controverse consistevano in un contrassegno

“garantito irlandese” da applicare sui prodotti di fabbricazione nazionale, unitamente ad

595 Le riflessioni che seguono non hanno alcuna pretesa di essere esaustive. Esse si limiteranno ad un

tentativo di definire quale sia il quadro giuridico di riferimento, tenuto conto, da un lato, del diritto primario e derivato, dall’altro della giurisprudenza della Corte di giustizia. La dottrina conta diversi contributi sul tema. Tra gli altri, AA. VV., Oltre le DOP nuovi strumenti per la garanzia della sicurezza, della qualità e

delle specificità dei prodotti alimentari, Accademia dei Georgofili, Quaderni sulla Qualità (2005-V),

Firenze, 2005; F. GENCARELLI, I segni distintivi di qualità nel settore agroalimentare e le esigenze del

diritto comunitario, cit., p. 87 e ss.; M. LIBERTINI, L’informazione sull’origine dei prodotti nella disciplina

comunitaria, in Rivista di diritto industriale, 2010, p. 289; G. E. SIRONI, op. cit., p. 235 e ss.. In particolare, Libertini nel suo articolo propone una visione alternativa del sistema di tutela fondato sulle DOP-IGP, motivando la sua preferenza per una protezione delle indicazioni geografiche attraverso l’istituto del marchio collettivo geografico.

596 Sentenza della Corte del 24 novembre 1982, in causa C-249/81, Commissione delle Comunità europee

contro Irlanda, in Raccolta 1982, p. 4005.

597 I provvedimenti adottati dal governo e rientranti nella campagna “Buy Irish” consistevano nelle seguenti

misure: a) servizi d’informazione gratuita dei consumatori su quali fossero, all’interno di una categoria merceologica, i prodotti di fabbricazione nazionale e dove si sarebbero potuti acquistare; b) offerta, per l’esposizione dei soli prodotti irlandesi, di locali presso un grande centro di esposizioni in Dublino, gestito dall’ Irish Goods Council, un ente pubblico irlandese; c) invito ad usare un contrassegno “garantito irlandese” per i prodotti di fabbricazione nazionale e l’organizzazione concomitante di un sistema d’esame dei reclami relativi ai prodotti così contrassegnati; d) organizzazione di una vasta campagna pubblicitaria a favore dei prodotti irlandesi ad opera dell’Irish Goods Council.

una vasta campagna pubblicitaria sui principali mezzi di comunicazione598. La

Commissione contestò all’Irlanda di aver violato l’articolo 30 del Trattato, oggi articolo 34 TFUE, poiché a suo avviso i provvedimenti adottati configuravano una misura d’effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all’importazione599. Il governo irlandese impostò la sua difesa sostenendo, in particolare, che le misure in causa non costituivano atti aventi effetto cogente emanati da una pubblica autorità e che pertanto esulavano dal divieto contestato600.

La Corte chiarì anzitutto che la campagna controversa non poteva essere equiparata ad un’azione pubblicitaria condotta da imprese private o pubbliche a favore di prodotti di loro fabbricazione. Essa rispecchiava, indipendentemente dai metodi seguiti per porla in essere, la precisa intenzione del governo di sostituire, sul mercato irlandese, i prodotti nazionali a quelli importati, frenando in tal modo le importazioni dagli altri Stati membri601. Stando così le cose, le due attività in questione avrebbero configurato una pratica nazionale, instaurata dal governo e messa in atto con la sua collaborazione, il cui effetto potenziale sul commercio intracomunitario era paragonabile a quello derivante da atti governativi di natura cogente602. Per la Corte, tale pratica non poteva essere esente dal divieto di cui all’articolo 30 del Trattato per il solo fatto di non basarsi su decisioni vincolanti per le imprese. Infatti, anche atti di un governo di uno Stato membro privi di effetto cogente possono essere idonei ad incidere sulla condotta dei commercianti e dei consumatori ed avere quindi la conseguenza di pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Trattato603. Con tali argomenti, la Corte rilevò la violazione contestata, accogliendo il

ricorso della Commissione604.

598 Su richiesta della Commissione europea, il governo irlandese ha proceduto alla soppressione di due delle

quattro misure adottate, mantenendo, invece, in vigore quella relativa al contrassegno “garantito irlandese” e la campagna pubblicitaria.

599 Punti 7 e 8 della sentenza in causa C-249/81. La Commissione contestò all’Irlanda anche la natura di ente

pubblico dell’Irish Goods Council, un’associazione il cui compito era quello di favorire la cooperazione tra le industrie irlandesi e che svolgeva un ruolo di primo piano nell’attuazione dei provvedimenti adottati dal governo. In particolare, per i servizi della Commissione, il fatto che il governo sostenesse finanziariamente le attività di tale ente e che i membri dello stesso fossero nominati dal Ministro militava a favore della natura di ente pubblico dell’Irish Goods Council. Anche su questo punto, la Corte accolse i rilievi avanzati dalla Commissione.

600 Punti 8 e 21 della sentenza in causa C-249/81. Il governo irlandese cercò, invano, di sostenere che la

fattispecie oggetto del ricorso avrebbe dovuto essere valutata alla luce della disciplina sugli aiuti di Stato, il che a suo parere avrebbe precluso la possibilità di esaminarne la conformità con l’articolo 30 del Trattato.

601 Punto 23 della sentenza in causa C-249/81. 602 Punto 27 della sentenza in causa C-249/81. 603 Punto 28 della sentenza in causa C-249/81.

604 Più che il dispositivo finale, è interessante l’affermazione fatta dalla Corte al punto 29, nella quale sono

condensati tutti gli elementi che hanno condotto i giudici comunitari a riconoscere la violazione dei Trattati da parte dell’Irlanda. A parere della Corte, uno Stato membro infrange il divieto di porre in essere misure d’effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all’importazione “quando, come nella fattispecie, una

siffatta pratica restrittiva costituisce la messa in atto di un programma stabilito dal Governo che si estende a tutta l’economia nazionale e che mira a frenare gli scambi intracomunitari mediante l’incoraggiamento

2.17.2 Il caso Apple and Pear Development

Poco tempo dopo, la Corte ha emesso la sentenza Apple and Pear Development Council c.

K.J. Lewis Ltd e altri605, con la quale ha verificato la compatibilità con il diritto comunitario delle attività svolte dall’Ente di incoraggiamento per le pere e le mele istituito con decreto ministeriale del governo britannico prima dell’ingresso del Regno Unito nella Comunità economica europea. Il rinvio pregiudiziale traeva origine da una controversia avviata dall’ente in questione nei confronti di un gruppo di produttori per non aver versato i contributi obbligatori finalizzati al finanziamento delle attività controverse. I produttori, al contrario, reclamavano la restituzione delle tasse versate a partire dal 1° gennaio 1973, sostenendo che la conservazione in vita dell’ente era incompatibile con il diritto comunitario e che detto contributo avrebbe dovuto esser soppresso, in quanto tassa d’effetto equivalente ad un dazio doganale606.

La Corte ritenne anzitutto necessario verificare se l’espletamento dei compiti affidati all’ente in causa avesse potuto in qualche maniera ostacolare il commercio intracomunitario. Essa riconobbe, in primo luogo, che le attività riguardanti la ricerca, l’elaborazione di statistiche, la diffusione delle informazioni raccolte, nonché i compiti meramente consultivi non erano tali da interferire con gli scambi di merci tra gli Stati membri607. Tuttavia, le indagini svolte evidenziarono che l’Apple and Pear Development Council si occupava prevalentemente dell’organizzazione, oltre che di pubblicità generiche per le mele e per le pere, di campagne che riguardavano, in particolare, i prodotti di origine nazionale. Per tale motivo, i giudici decisero di valutare la compatibilità di tali attività con il divieto imposto agli Stati membri di porre in essere misure d’effetto equivalente a restrizioni quantitative all’importazione. Dopo aver richiamato la giurisprudenza Buy Irish, i giudici stabilirono che un ente quale quello in causa, istituito dal governo e finanziato mediante una tassa a carico dei produttori, non poteva, sotto il profilo del diritto comunitario, godere della stessa libertà, per quel che riguarda i mezzi pubblicitari cui fa ricorso, di cui godono gli stessi produttori o le associazioni di produttori di carattere volontario608. In particolare, per la Corte “un siffatto ente ha il dovere di

dell’acquisto di prodotti nazionali tramite una campagna pubblicitaria su scala nazionale e mediante l’organizzazione di procedimenti speciali validi per i soli prodotti nazionali, e quando questo complesso di attività può essere attribuito al Governo e si svolge sistematicamente nell’intero territorio nazionale”. 605 Sentenza della Corte del 13 dicembre 1983, in causa C-222/82, Apple and Pear Development Council contro K.J. Lewis Ltd e altri, in Raccolta 1983, p. 4083.

606 Punto 8 della sentenza in causa C-222/82. Alla Corte venne anche chiesto di verificare la compatibilità

delle attività controverse con le disposizioni di diritto derivato relative all’organizzazione comune dei mercati nel settore degli ortofrutticoli. Questo secondo profilo, tuttavia, non interessa ai fini del presente lavoro.

607 Punto 13 della sentenza in causa C-222/82. 608 Punto 17 della sentenza in causa C-222/82.

astenersi da qualsiasi pubblicità mirante a sconsigliare l’acquisto di prodotti degli altri Stati membri o a svilire detti prodotti agli occhi dei consumatori. Esso deve pure astenersi dal consigliare ai consumatori l’acquisto di prodotti locali solo perché sono di origine nazionale. Viceversa, l’art. 30 non osta a che detto ente metta in valore, nella sua pubblicità, le qualità specifiche della frutta prodotta nello Stato membro in questione o organizzi campagne pubblicitarie per la vendita di talune varietà, indicando le loro caratteristiche specifiche, anche se dette varietà sono tipiche della produzione nazionale”609. Con tali argomentazioni, la Corte risolse il quesito per la parte che qui interessa, riconoscendo che le disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci ostavano alle attività controverse condotte dall’Apple and Pear Development Council, misure che per la natura di tale ente erano imputabili al Regno Unito610.

2.17.3 I marchi di qualità

Veniamo ora ai marchi di qualità, per i quali, la giurisprudenza della Corte ci aiuterà a tracciare le possibilità ed i limiti d’uso di un tale strumento per promuovere e valorizzare la qualità dei prodotti agricoli e alimentari contrassegnati.

Il ricorso per inadempimento Commissione delle Comunità europee c. Repubblica

federale di Germania611, che ha avuto per oggetto le attività della società denominata

Centrale Marketing-Gesellschaft der deutschen Agrarwirtschaft (CMA), costituisce una

delle sentenze più interessanti emesse in materia612. Tale società deteneva un marchio di qualità, il “Markenqualität aus deutschen Landen”, il quale poteva figurare solo sui prodotti agroalimentari tedeschi che rispondevano a precisi criteri qualitativi prestabiliti dalla stessa CMA.

A seguito di un’indagine svolta nel 1992 con l’obiettivo di redigere un elenco dei marchi di qualità esistenti negli Stati membri nell’ambito dei prodotti agricoli e alimentari, la Commissione chiese al governo tedesco di conformarsi al diritto comunitario, poiché la concessione del marchio controverso avrebbe configurato, a suo parere, una violazione del principio della libera circolazione delle merci. La Germania rispose, in sua difesa, che non vi era alcuna violazione del Trattato. Secondo il governo tedesco, infatti, la CMA era una

609 Punti 18-19 della sentenza in causa C-222/82. 610 Punto 33 della sentenza in causa C-222/82.

611 Sentenza della Corte del 5 novembre 2002, in causa C-325/00, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica federale di Germania, in Raccolta, 2002, p. 9977.

612 Sullo stesso tema si vedano anche la sentenza della Corte (Terza Sezione) del 6 marzo 2003, in causa C-

6/02, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica francese, in Raccolta, 2003, p. 2389 e la sentenza della Corte (Quinta Sezione) del 17 giugno 2004, in causa C-255/03, Commissione delle Comunità

europee contro Regno del Belgio, non pubblicata in Raccolta. Il dispositivo di tale sentenza è stato tuttavia

società privata finanziata da contributi erogati dalle imprese dei settori interessati. In aggiunta, l’uso del marchio controverso, oltre ad essere facoltativo, si sarebbe fondato su contratti di licenza stipulati tra privati e non su leggi o altri atti statali. Stando così le cose, le attività della CMA esulavano dal divieto di porre in essere ostacoli al commercio intracomunitario, prescrizione che vincolava, in virtù del Trattato, gli Stati membri. La Commissione, non convinta delle spiegazioni fornite dalla Germania, decise di aprire una procedura di infrazione per violazione dell’articolo 30 del Trattato, oggi articolo 34 TFUE.

La Corte verificò anzitutto la natura della società controversa. I giudici osservarono che nonostante la CMA fosse costituita in forma di società privata, essa era stata istituita con una legge, la quale ne determinava, tra le altre cose, gli obiettivi da perseguire, tra cui, quello di promuovere a livello centrale la commercializzazione e la valorizzazione dei prodotti agroalimentari tedeschi. Le sue attività, inoltre, erano finanziate da un contributo obbligatorio versato da tutti i produttori che operavano nei settori interessati. Questi elementi erano sufficienti per poterne determinare la natura di ente pubblico; così la Corte, dopo aver richiamato la giurisprudenza Apple and Pear Development Council613, stabilì che la CMA era tenuta, al pari di uno Stato membro, a rispettare le norme fondamentali del Trattato in ordine alla libera circolazione delle merci614.

A questo punto, i giudici presero in esame la capacità del marchio controverso di incidere sugli scambi intracomunitari. Rifacendosi alla formula Dassoville, i giudici valutarono che l’uso del marchio di qualità avrebbe potuto indurre i consumatori ad acquistare i prodotti contrassegnati, favorendone lo smercio a discapito dei beni importati, che invece non potevano fregiarsene per il solo motivo di non essere stati realizzati entro i confini della Germania615.

Infine, il governo tedesco tentò di giustificare la misura controversa invocando la deroga relativa alla tutela della proprietà industriale e commerciale. A suo parere, il marchio CMA avrebbe costituito un’indicazione di provenienza geografica, beneficiando in tal modo di quanto sancito nella giurisprudenza Exportur. Tuttavia, per la Corte questo argomento non poteva essere accolto, perché il marchio CMA, così come definito dalla

613 La Corte richiamò, in particolare, il punto 17 della sentenza Apple and Pear Development Council c. K.J. Lewis Ltd e altri, in cui i giudici stabilirono che un ente istituito da una legge statale e finanziato tramite un

contributo obbligatorio a carico dei produttori, non può, sotto il profilo del diritto comunitario, godere della stessa libertà di cui godono gli stessi produttori o le associazioni di produttori di carattere volontario per quel che riguarda la promozione della produzione nazionale.

614 Punto 18 della sentenza in causa C-325/00.

615 Punti 22-24 della sentenza in causa C-325/00. Per la Corte nemmeno il fatto che l’uso del marchio fosse

disciplina pertinente, non poteva costituire un’indicazione di provenienza ai sensi della giurisprudenza citata616.

Dati questi presupposti, i giudici conclusero che la Germania, con la concessione del marchio di qualità CMA a prodotti tedeschi finiti di una determinata qualità, era venuta meno al divieto di porre in essere misure d’effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all’importazione617.

Pochi anni dopo, in occasione del ricorso Arla Foods AMBA e altri contro Commissione

delle Comunità europee618, il Tribunale di primo grado, in risposta ad argomenti sollevati dalle ricorrenti, ha ricordato che secondo una giurisprudenza costante “il diritto a una

denominazione di qualità per un prodotto dovrebbe dipendere – salve restando le norme da applicarsi in materia di denominazione di origine e di indicazione di provenienza – unicamente dalle caratteristiche obiettive intrinseche dalle quali risulti la qualità del prodotto rispetto allo stesso prodotto di qualità inferiore, ma non dalla localizzazione geografica di questa o di quella fase della produzione e che tali denominazioni di qualità non devono essere legate alla localizzazione nel territorio nazionale del processo di produzione dei prodotti in questione, bensì unicamente al possesso delle caratteristiche obiettive intrinseche che danno ai prodotti la qualità richiesta dalla legge”619.

È possibile, a questo punto, tentare di definire quali siano i limiti incontrati dai marchi di qualità nazionali. Le condizioni in base alle quali tali marchi vengono conferiti devono fondarsi esclusivamente sulle caratteristiche intrinseche del prodotto e non sulla localizzazione geografica di una qualsiasi fase di produzione o materia prima impiegata. Essi devono essere accessibili a tutti i produttori dell’Unione, senza che vi sia alcuna discriminazione sulla base della nazionalità. Qualora, invece, le qualità messe in evidenza dovessero essere attribuibili in qualche misura al territorio di provenienza del prodotto, ecco allora che troverebbe applicazione la giurisprudenza della Corte in materia di indicazioni geografiche semplici o qualificate, con tutti i limiti ampiamente evidenziati in

616 Punti 26 e 27 della sentenza in causa C-325/00. La definizione della zona di provenienza con riferimento

all’estensione di tutto il territorio tedesco ed il fatto che tutti i prodotti agroalimentari aventi determinati requisiti avessero potuto utilizzare il marchio CMA, non permettevano di qualificare il marchio CMA come un’indicazione di provenienza geografica, così come definita dalla Corte in occasione della sentenza

Exportur.

617 Punto 28 della sentenza in causa C-325/00.

618 Ordinanza del Tribunale di primo grado (Terza Sezione) del 13 dicembre 2005, in causa T-397/02, Arla Foods AMBA e altri contro Commissione delle Comunità europee, in Raccolta, 2005, p. 5365.

619 Punto 66 della sentenza in causa T-397/02. La giurisprudenza costante cui fa riferimento il Tribunale è

quella elaborata in occasione della sentenza della Corte del 12 ottobre 1978, in causa C-13/78, Joh. Eggers

Sohn & Co. contro Freie Hansestadt Bremen, in Raccolta, 1978, p. 1935; della sentenza della Corte del 5

novembre 2002, in causa C-325/00, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica federale di

Germania, in Raccolta, 2002, p. 9977 ed infine della sentenza della Corte (Terza Sezione) del 6 marzo 2003,

in causa C-6/02, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica francese, in Raccolta, 2003, p. 2389.

precedenza. Di conseguenza, per tornare al nostro quesito iniziale, i marchi di qualità nazionali non costituiscono strumenti alternativi al sistema delle DOP-IGP.

2.17.4 I marchi collettivi geografici

Veniamo ora ai marchi collettivi geografici. La disciplina pertinente prevede che tali segni, in deroga alla norma generale, possano essere costituiti anche da termini o indicazioni che nel commercio servono a designare la provenienza geografica dei prodotti620. Un secondo elemento che caratterizza tale istituto, differenziandolo dal marchio individuale, è il regolamento d’uso, il quale contiene le prescrizioni a cui attenersi per poter utilizzare il segno621. Di conseguenza, il diritto dell’Unione non osta, almeno in via di principio, alla registrazione di un’indicazione geografica come marchio collettivo622.

Tuttavia, alcuni dubbi permangono. Anzitutto, un primo limite pare emergere dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Nel caso Warsteiner, i giudici hanno stabilito che le indicazioni geografiche qualificate ricadono nell’ambito di applicazione del regolamento n. 2081/1992, oggi regolamento n. 1151/2012623. Di conseguenza, solo le indicazioni geografiche semplici potrebbero fare riferimento al sistema dei marchi per

620 È quanto prevedono l’articolo 15, paragrafo 2, della direttiva n. 2008/95/CE, per quanto riguarda i marchi

nazionali, e l’articolo 66, paragrafo 2, del regolamento n. 207/2009, relativamente ai marchi comunitari. Per un’ampia trattazione sui marchi colletivi si veda, tra gli altri, A. VANZETTI, V. DI CATALDO, op. cit., p. 281 e

ss.

621 Si veda a titolo d’esempio l’articolo 67 del regolamento n. 207/2009, il quale recita: “1. La domanda di marchio comunitario collettivo deve essere accompagnata, entro il termine prescritto, da un regolamento d’uso. 2. Nel regolamento d’uso si devono indicare le persone abilitate a usare il marchio, le condizioni di appartenenza all’associazione e, qualora siano previste, le condizioni per l’utilizzazione del marchio, comprese le sanzioni. Il regolamento d’uso di un marchio di cui all’articolo 66, paragrafo 2, deve