• Non ci sono risultati.

L A PROTEZIONE DELLE INDICAZIONI GEOGRAFICHE DEI PRODOTTI AGRICOLI E ALIMENTARI NEL DIRITTO DELL ’U NIONE EUROPEA

2.11 La protezione ex officio

Per protezione ex officio delle DOP e IGP si intende, come anticipato nel paragrafo precedente, l’obbligo per gli Stati membri di perseguire gli usi dei nomi registrati contrari alla disciplina dell’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento n. 1151/2012.

come organismi di certificazione dei prodotti.[…]”. Di norma questa tipologia di controlli riguarda la merce

dei produttori che hanno fatto domanda di poter designare i propri prodotti con la denominazione registrata in causa. Come precisa l’articolo 46, paragrafo 2, del regolamento sui regimi di qualità, i controlli si estendono anche agli operatori che immagazzinano o immettono in commercio un prodotto designato con una DOP o IGP.

327 L’articolo 38 del regolamento n. 1151/2012, rubricato Sorveglianza sull’uso del nome sul mercato, recita

“Gli Stati membri comunicano alla Commissione il nome e l’indirizzo delle autorità competenti di cui

all’articolo 36. La Commissione pubblica il nome e l’indirizzo di tali autorità. Gli Stati membri procedono a controlli in base a un’analisi del rischio, per garantire che siano rispettate le prescrizioni del presente regolamento e, in caso di violazione, adottano tutte le misure necessarie”. Questa tipologia di controlli non

era esplicitamente prevista dalla disciplina precedente. Come si vedrà meglio nel paragrafo dedicato alla protezione ex officio, il regolamento n. 1151/2012 ha introdotto una serie di novità di rilievo in materia di protezione e controlli che permettono di assicurare un maggior grado di tutela ai diritti dei produttori e dei consumatori. La previsione di un’attività di monitoraggio dell’uso sul mercato dei nomi protetti da parte delle autorità competenti rientra tra le novità introdotte dalla disciplina vigente, perché dispone espressamente che gli Stati membri conducano anche questo tipo di verifiche nell’ambito dei controlli ufficiali in materia di DOP e IGP.

328 È quanto stabilisce l’articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 1151/2012 “Gli Stati membri adottano le misure amministrative e giudiziarie adeguate per prevenire o far cessare l’uso illecito delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette ai sensi del paragrafo 1, prodotte o commercializzate in tale Stato membro. A tal fine gli Stati membri designano le autorità incaricate di adottare tali misure secondo le procedure definite da ogni singolo Stato membro. Tali autorità offrono adeguate garanzie di oggettività e imparzialità e dispongono di personale qualificato e delle risorse necessarie per svolgere le loro funzioni”.

329 Si veda a tal proposito l’articolo 118 quaterdecies, paragrafo 4, del regolamento n. 1234/2007, il quale

dispone “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per far cessare l’uso illegale di denominazioni di

origine protette e di indicazioni geografiche protette ai sensi del paragrafo 2” e l’articolo 19, paragrafo 2,

del regolamento 607/2009 “In caso di uso illegale di una denominazione di origine protetta o di

un’indicazione geografica protetta, le autorità competenti degli Stati membri adottano, di propria iniziativa, a norma dell’articolo 45, paragrafo 4, del regolamento (CE) n. 479/2008, oppure a richiesta di un soggetto interessato, le misure necessarie per far cessare l’uso illegale e impedire la commercializzazione o l’esportazione dei prodotti di cui trattasi”. L’articolo 45, paragrafo 4, del regolamento n. 479/2008 oggi è

Questo tema ha sollevato un certo interesse in dottrina, in particolare in seguito alla seconda sentenza della Corte di giustizia sul caso Parmesan330.

La disciplina in origine non prevedeva nulla a riguardo. Il regolamento n. 2081/1992 definiva all’articolo 13 le pratiche vietate perché lesive dei diritti dei nomi registrati331, mentre all’articolo 10 prescriveva la creazione da parte degli Stati membri di strutture di controllo atte a garantire che i prodotti recanti una denominazione protetta fossero conformi al disciplinare di produzione corrispondente332. Tuttavia, mentre le verifiche potevano avere per oggetto qualsiasi prodotto a prescindere dalla sua provenienza geografica, le autorità statali avevano l’obbligo di far cessare le violazioni solo se l’illecito era commesso a danno di una denominazione registrata originaria dello stesso Stato membro333. L’obbligo di agire non era quindi previsto per le violazioni riguardanti DOP o IGP originarie di un altro Paese. Il regolamento introduceva, quindi, un meccanismo di controllo che non poteva essere uniforme su tutto il territorio comunitario, creando di fatto una discriminazione tra le denominazioni iscritte nel registro334. I nomi beneficiavano di una piena protezione solo entro i confini dello Stato di appartenenza, fatto peraltro inconciliabile con la pretesa di favorire la libera circolazione dei prodotti aventi un’indicazione geografica335.

330 I tratta della sentenza in causa C-132/05.

331 L’articolo 13, nella parte in cui definisce i comportamenti ritenuti illeciti perché lesivi dei diritti connessi

alle DOP e IGP, ha mantenuto la stessa numerazione e la stessa formulazione dal regolamento n. 2081/1992 al regolamento n. 1151/2012, salvo le novità introdotte da quest’ultimo atto relativamente all’estensione dell’ambito di tutela anche alle violazioni realizzate per mezzo di un servizio e ai casi in cui un prodotto che reca una DOP o IGP viene usato come ingrediente.

332 L'articolo 10 paragrafo 1 del regolamento n. 2081/1992 recitava: “Gli Stati membri provvedono a che entro sei mesi dell'entrata in vigore del presente regolamento vi siano strutture di controllo aventi il compito di garantire che i prodotti agricoli e alimentari recanti una denominazione protetta rispondano ai requisiti del disciplinare”.

333 L'articolo 10 paragrafo 4 del regolamento n. 2081/1992 recitava: “Qualora constatino che un prodotto agricolo o alimentare recante una denominazione protetta originaria del suo Stato membro non risponde ai requisiti del disciplinare, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro prendono i necessari provvedimenti per assicurare il rispetto del presente regolamento. Essi informano lo Stato membro delle misure adottate nell'esercizio dei controlli. Le decisioni prese devono essere notificate agli interessati”. Cfr. M. CIAN, in op. cit., p. 200.

334 Si prenda, ad esempio, il territorio nazionale italiano e due denominazioni, l’una francese, l’altra italiana,

entrambe però iscritte nel registro della Commissione. Su quel territorio, la denominazione italiana avrebbe beneficiato di una protezione maggiore rispetto all’omologa francese, perché le autorità italiane erano tenute a perseguire gli illeciti commessi a danno di segni nazionali e non nei riguardi di nomi designanti aree geografiche localizzate in altri Stati membri.

335 Il considerando 7 del regolamento n. 2081/1992 recitava: “Considerando tuttavia che le prassi nazionali di elaborazione e di attribuzione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche sono attualmente eterogenee; che in effetti un quadro normativo comunitario recante un regime di protezione favorirà la diffusione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine poiché garantirà, tramite un'impostazione più informe, condizioni di concorrenza uguali tra i produttori dei prodotti che beneficiano di siffatte diciture, ciò che farà aumentare la credibilità dei prodotti in questione agli occhi dei consumatori”. La formulazione del paragrafo 4 dell’articolo 10 rendeva la disciplina del regolamento n.

2081/1992 inadatta a perseguire l’obiettivo di favorire la diffusione delle indicazioni geografiche, in altre parole promuovere la libera circolazione dei prodotti aventi un’indicazione geografica. Questo perché, in mancanza di una garanzia di tutela, il produttore non ha incentivi ad esportare il proprio prodotto,

2.11.1 La giurisprudenza della Corte di giustizia: il caso Parmesan

La Corte di giustizia, in occasione di una procedura d’infrazione a carico della Repubblica federale di Germania336, si è occupata del sistema di protezione e controllo di cui agli articoli 10 e 13 del regolamento n. 2081/1992 e, più in particolare, della non obbligatorietà per gli Stati membri di perseguire d’ufficio i comportamenti lesivi delle DOP e IGP. In seguito alla denuncia sporta da vari operatori economici, la Commissione europea aveva chiesto alle autorità tedesche competenti di adottare misure per porre fine alla commercializzazione nel territorio tedesco di prodotti denominati parmesan non conformi al disciplinare di produzione del formaggio Parmigiano Reggiano. Secondo la Commissione, il termine parmesan era la traduzione della DOP Parmigiano Reggiano e per tale motivo il suo uso costituiva una violazione di quanto sancito dall’articolo 13. La Repubblica federale di Germania rispose argomentando che parmesan era divenuta nel tempo una denominazione generica che identificava un formaggio a pasta dura di varia provenienza geografica, grattugiato o da grattugiare, e che pertanto si distingueva dalla DOP Parmigiano Reggiano. La Commissione, non soddisfatta, inviò prima una lettera di diffida, poi adottò un parere motivato, a cui la Germania replicò affermando che la propria posizione non sarebbe cambiata. A questo punto, la Commissione decise di presentare ricorso presso la Corte di giustizia, chiedendo di dichiarare la Repubblica federale di Germania inadempiente, perché si era rifiutata di perseguire un illecito avvenuto sul suo territorio337.

Secondo la Commissione europea, gli Stati membri, in questo caso particolare la Germania, erano tenuti ai sensi degli articoli 10 e 13 del regolamento n. 2081/1992 a prendere d’ufficio le misure necessarie per reprimere i comportamenti lesivi delle DOP e IGP, perché altrimenti si sarebbe creato un pregiudizio al raggiungimento degli obiettivi perseguiti dalla Comunità con la disciplina sulla protezione delle denominazioni registrate. Se gli Stati membri fossero stati sollevati dal loro obbligo d’intervento, gli operatori privati avrebbero dovuto agire individualmente ogniqualvolta fosse stato violato il loro diritto all’uso della DOP o IGP sull’intero territorio della Comunità. Inoltre, la tutela dei

considerato il rischio correlato di imitazione ed usurpazione del segno e quindi di perdita di potenziali clienti, nonché di eventuali danni arrecati alla reputazione del prodotto. Allo stesso tempo, anche i consumatori sono meno propensi ad acquistare prodotti designati con una DOP o IGP, perché in mancanza di una garanzia sull’autenticità del prodotto potrebbero privilegiare prodotti nazionali a loro familiari a prodotti di provenienza, pur comunitaria, ma estera. Una protezione non uniforme avrebbe potuto, quindi, non solo minare il sistema che lo stesso regolamento n. 2081/1992 si prefiggeva di istituire, ma anche pregiudicare il funzionamento del mercato unico, portando alla ricreazione di nuove frontiere, pur in presenza di un quadro normativo armonizzato.

336 Si tratta della sentenza Commissione delle Comunità europee contro Repubblica federale di Germania,

scaturita dalla causa C-132/05, citata in precedenza.

consumatori sarebbe stata compromessa se l’attuazione della protezione sancita dall’articolo 13 fosse stata rimessa completamente ad iniziative condotte da singoli. La Commissione fondò, quindi, il suo ricorso sulla necessità che la protezione delle DOP e delle IGP fosse piena, per fornire quelle garanzie di autenticità del prodotto necessarie per tutelare gli interessi di produttori e consumatori338.

La Germania affermò, per parte sua, che né l’articolo 13, né l’articolo 10, fissavano obblighi di agire in capo agli Stati membri. L’articolo 13 definiva il campo di applicazione della protezione delle DOP e IGP e, in virtù dell’effetto diretto del regolamento, conferiva ai titolari o agli utilizzatori legittimi delle denominazioni registrate diritti da far valere dinanzi alle giurisdizioni nazionali competenti. La protezione sostanziale delle DOP e IGP sarebbe stata garantita, secondo la Germania, attraverso l’adozione da parte degli Stati membri di norme che avessero permesso l’assicurazione dell’attuazione delle disposizioni del regolamento n. 2081/1992. In questo senso, le autorità tedesche fecero valere a sostegno della propria linea difensiva di avere adottato numerose disposizioni legislative atte a contestare l’uso illecito delle DOP e delle IGP, che permettevano anche a soggetti diversi dal titolare del diritto di impugnare ogni comportamento lesivo della denominazione tutelata dinanzi all’autorità competente. La Germania riteneva, quindi, che la protezione sostanziale delle DOP e IGP, e di conseguenza il raggiungimento degli obiettivi fissati dal regolamento n. 2081/1992, potesse essere efficacemente assicurata per via giudiziaria. Per quanto riguarda invece la disciplina dell’articolo 10, la Germania ritenne che, in virtù della disposizione contenuta al paragrafo 4, il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano fosse l’organo competente a verificare che la denominazione fosse utilizzata in maniera conforme al disciplinare di produzione, e non le autorità tedesche come invece aveva richiesto la Commissione339.

La Corte di giustizia, dopo aver confermato che l’ordinamento giuridico tedesco disponeva di strumenti idonei ad assicurare una protezione effettiva delle DOP e IGP340, passò a verificare la sussistenza o meno dell’obbligo di perseguire d’ufficio le violazioni dell’articolo 13. Su questo punto, la Corte rilevò che l’obbligo per gli Stati membri di intervenire al fine di reprimere illeciti commessi a danno dei nomi registrati non derivava dall’articolo 10 del regolamento n. 2081/1992. Secondo la Corte, infatti, pur essendo vero che, per assicurare l’efficacia del sistema di tutela delle denominazioni protette, l’articolo 10 prevedeva che gli Stati membri si dovessero dotare di apposite strutture di controllo, le

338 Punti 58 - 61 della sentenza C-132/05. 339 Punti 62 - 67 della sentenza C-132/05. 340 Punti 68 - 71 della sentenza C-132/05.

autorità nazionali su cui incombeva l’obbligo di verifica erano quelle dello Stato membro di origine della DOP o IGP e non quelle dello Stato di destinazione.

La Corte respinse, così, la posizione della Commissione europea, convalidando, invece, la tesi della Germania. Il ricorso fu quindi respinto con la motivazione che la Commissione non era stata in grado di dimostrare che la Germania fosse venuta meno agli obblighi imposti dall’articolo 13341.

Come già affermato in precedenza, questa sentenza ha sollevato un certo interesse, suscitando diverse reazioni342.

A parere di alcuni, la lettura che la Corte ha dato degli articoli 10 e 13 del regolamento n. 2081/1992 è stata letterale e piuttosto formalista343. Il rischio che la tutela delle denominazioni registrate ricadesse sull’iniziativa di singoli operatori, in mancanza di un obbligo di agire da parte degli Stati membri, avrebbe potuto causare un serio pregiudizio all’uniformità ed efficacia della protezione344. Inoltre, i ricorsi avrebbero potuto, da un lato, rivelarsi troppo onerosi per certi operatori, dall’altro dar luogo a lunghe procedure, durante le quali si sarebbero potuti produrre seri rischi per la reputazione del segno tutelato345.

Altri hanno ritenuto la conclusione della Corte, pur se corretta, inadeguata a difendere le DOP e IGP in un mercato unico, nel quale sono frequenti pratiche illecite di sfruttamento indebito della reputazione di DOP e IGP da parte di operatori economici stabiliti in uno Stato membro diverso da quello di origine del segno registrato346.

La lettura fornita dalla Corte avrebbe, inoltre, potuto generare la riemersione di frontiere nazionali con differenze di trattamento da uno Stato membro all’altro, poco coerenti con

341 Punti 72 - 82 della sentenza C-132/05.

342 Questa sentenza ha suscitato grande interesse perché, oltre al tema della protezione ex officio, la Corte è

intervenuta in merito alla genericità del termine parmesan e alla protezione di cui godono le denominazioni composte. Di queste ultime due questioni si veda quanto scritto nei paragrafi pertinenti.

343 Così F. GENCARELLI, in Il caso “parmesan”: la responsabilità degli Stati nella tutela delle DOP e IGP tra interventi legislativi e giurisprudenziali, cit., p. 831.

344 F. GENCARELLI, in Il caso “parmesan”: la responsabilità degli Stati nella tutela delle DOP e IGP tra interventi legislativi e giurisprudenziali, cit., p. 832.

345 F. GENCARELLI, in Il caso “parmesan”: la responsabilità degli Stati nella tutela delle DOP e IGP tra interventi legislativi e giurisprudenziali, cit., p. 832.

346 A. GERMANÒ, in Gli Stati membri hanno l'obbligo di difendere di ufficio le denominazioni geografiche protette?, in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell'ambiente, 7-8/2008, p. 480. Sulla stessa

linea N. LUCIFERO, in op.cit., p. 584. Lucifero, come Germanò, ritiene che a stretto rigore normativo la

Corte di giustizia abbia bene interpretato la disciplina del regolamento n. 2081/1992. Tuttavia, l'autore ritiene che la sentenza in parola sia in netto contrasto con la politica di tutela e valorizzazione delle DOP e IGP portata avanti dell'Unione. Di fronte ad una casistica sempre più frequente di fenomeni anticoncorrenziali di imitazione servile di quei prodotti che devono la loro reputazione all'origine geografica, l'autore segnala la necessità di un intervento d'ufficio da parte degli Stati membri per reprimere le violazioni dell'articolo 13, in particolare proprio in quei casi dove ad essere colpite sono DOP e IGP provenienti da un altro territorio.

un mercato che ambisce ad essere unico347.

Infine, parte della dottrina ha sottolineato i problemi che la sentenza avrebbe potuto creare sul fronte della tutela extra UE delle indicazioni geografiche di origine unionale. La disciplina relativa alle DOP e IGP rientra nella sfera pubblicistica, mentre quella inerente i marchi nella sfera privatistica. In sede di OMC, nel negoziato sull’evoluzione della normativa TRIPs, l’Unione sostiene una posizione antitetica rispetto ai Paesi del “nuovo mondo”348, rivendicando una differenza sostanziale tra le indicazioni geografiche, di matrice pubblicistica e di proprietà collettiva, ed i marchi, segni distintivi della proprietà intellettuale tipicamente privatistici il cui uso è a beneficio esclusivo di un singolo349. In un tale contesto, la sentenza in esame, affievolendo la natura pubblicistica delle DOP e IGP, avrebbe potuto offrire validi argomenti a quanti in sede di OMC negano la peculiarità delle indicazioni geografiche protette, con un rischio generale di indebolire la posizione sostenuta dall’Unione350.

L’oggetto della critica, a mio avviso, non avrebbe dovuto essere la pronuncia della Corte, bensì il regolamento n. 2081/1992, più precisamente l’articolo 10. La Corte si è limitata a respingere il ricorso presentato dalla Commissione, perché, come già dimostrato in precedenza, il regolamento n. 2081/1992 era caratterizzato da un palese vuoto legislativo, da cui derivava una protezione che non poteva essere né uniforme né tantomeno efficace, con tutte le conseguenze che bene la dottrina ha descritto. Era quindi l’articolo 10, e non la

347 Così F. ALBISINNI, in Prodotti alimentari e tutela transfrontaliera, in Rivista di diritto alimentare,

2/2009, p. 8.

348 Si tratta dei Paesi che in seno all'OMC, in materia di protezione delle indicazioni geografiche, sostengono

la posizione elaborata dagli Stati Uniti d'America, in opposizione alla proposta avanzata dall'Unione europea. Tra questi, i maggiori per importanza nel mercato delle materie prime agricole sono Argentina, Australia, Canada e Cile. F. ADDOR- DORIRAZIOLI, in Geographical Indications beyond Wines and Spirits:

A Roadmap for a Better Protection for Geographical Indications in the WTO- TRIPs Agreements, 5 Journal of World Intellectual Property, 2002, p. 883, affermano che, diversamente da quanto avviene negli altri

negoziati in corso in seno all’OMC, dove si riscontra una frattura tra i Paesi del Nord del mondo e quelli del Sud, nel caso dei negoziati sugli sviluppi della disciplina relativa alle indicazioni geografiche, la frattura è tra Paesi del “Vecchio Mondo” e Paesi del “Nuovo Mondo”. Similmente V. RUBINO, Le denominazioni di

origine dei prodotti alimentari, Alessandria, Taro editrice, 2007, p. 169, parla di Paesi del Nuovo Mondo,

riferendosi a quegli Stati, generalmente caratterizzati da sistemi di common law, che hanno scelto di mantenere le denominazioni geografiche dentro l’area giuridica del marchio. Rubino, continua affermando che “le ragioni della scelta sono state generalmente individuate nella mancanza di tradizioni

enogastronomiche forti, cui si contrapponeva un forte orientamento al mercato ed alla libera iniziativa imprenditoriale. È stato poi anche sostenuto che i Paesi in oggetto sono generalmente stati interessati da forti ondate migratorie, ciascuna delle quali ha tendenzialmente tentato di riprodurre nella “nuova patria” i prodotti tipici della terra d’origine. Si sarebbe così creata una sorta di cultura della riproduzione delle specialità gastronomiche, evidentemente in antitesi con le tutele forti accordate alle ricette ed alle denominazioni degli alimenti di qualità nei Paesi d’origine”.

349 Eccezion fatta per i marchi collettivi. Nella disciplina statunitense ad esempio esistono due tipologie di

marchi collettivi, i collective marks ed i certification marks, il cui uso esclusivo é a beneficio di una collettività e non di un singolo. Tuttavia, pur se a beneficio di una pluralità di soggetti, questi segni rispondono alla logica tipica del marchio commerciale.

sentenza della Corte, ad essere inadeguato e poco coerente con gli obiettivi posti dallo stesso regolamento.

Si potrebbe obiettare alla Corte, come peraltro ha fatto più di un intervento in dottrina, di aver fondato la propria pronuncia su di una lettura piuttosto letterale e circoscritta del diritto unionale applicabile alla fattispecie oggetto del ricorso. La Corte, infatti, ha preso in esame il solo regolamento n. 2081/1992, non esplorando altre vie, tra cui ad esempio il principio di leale collaborazione che fonda i rapporti tra Unione e Stati membri. Tuttavia, è necessario fare due considerazioni. Innanzitutto, la Corte ha espresso il suo giudizio nell’ambito di un ricorso per inadempimento promosso dalla Commissione europea.