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Lo stakeholder engagement ha una sua dimensione dinamica; le fasi si susseguono secono una logica causale come riportato in figura.

Figura 11 ‒ Le principali caratterisitche delle fasi del processo di stakeholder en-gagement

Le fasi descritte seguono una sequenza logica definibile come processo di stage gate (Cooper, 1990), dove il processo è costituito da una serie di attività ben definite che mirano al raggiungimento di obiettivi parziali (sta-ge) alle quali seguono dei momenti di controllo e verifica di tale processo (gate). Ad ogni gate si decide se proseguire nello sviluppo dell’attività se-condo quanto stabilito nella fase precedente, o se necessario rivedere tutto il processo antecedente la decisione di proseguire. La dinamicità del model-lo dipende anche dal ruomodel-lo trasversale e continuo delle attività di verticaliz-zazione e di relazione di prossimità con gli stakeholders, per cui ogni fase è gestita dalle imprese, insieme agli stakeholders che partecipano con il loro contributo verticalmente sulle tematiche (in relazione alla loro expertise). Figura 12 ‒ Il processo dinamico di stakeholder engagement

Le fasi di verticalizzazione dell’engagement e delle relazioni di prossi-mità assumono nel caso specifico, una funzione trasversale e parallela a tut-te le altre fasi descrittut-te. L’identificazione del problema, piuttosto che la progettazione dei ruoli, l’identificazione delle attività con la conseguente analisi di impatto e fino alla applicabilità (e replicabilità del modello) sono fasi che si sviluppano soltanto nel momento in cui si verticalizzano le rela-zioni con gli stakeholders (per competenza/settore) e si sviluppano delle relazioni di prossimità (geografica) che danno il via a delle micro/meso re-lazioni sul territorio con diversi gruppi di stakeholders.

Da questo ne consegue che ogni soluzione che emerge da tale processo è relativa al contesto e agli attori che la sviluppano. L’applicabilità finale può essere replicata su scala più ampia, soltanto se nei diversi contesti in cui la si vuole applicare esistono le stesse condizioni iniziali e lo stesso modo di relazionarsi con gli stakeholders, altrimenti ogni differenza comporta un adattamento delle soluzioni e un output diverso.

Conclusioni

L’apertura verso l’esterno delle organizzazioni ha rappresentato, negli ultimi anni, il vero cambio di paradigma nella progettazione strategica e nella creazione di vantaggio competitivo. Il passaggio da un modello reatti-vo (verso gli stimoli esterni) ad un modello proattireatti-vo (che coinreatti-volge e im-para dagli stimoli esterni) rappresenta il vero cambiamento nella gestione dei processi di innovazione e miglioramento per le imprese (Pinelli & Maiolini, 2016). Oltre all’apertura diventa fondamentale il modo in cui le imprese gestiscono le relazioni con l’ambiente esterno, specialmente con gli stakeholders. Ne consegue che al fine di raggiungere un certo obiettivo di interesse sociale, gli attori coinvolti innovino il modo in cui sviluppano le reciproche relazioni, modificando i propri comportamenti in maniera tale da attuare nuovi processi operativi utili a ottenere determinati risultati so-ciali (Caroli, 2015). Le relazioni con gli stakeholders non sono più viste dalle imprese come attività necessarie a mitigare e ridurre i conflitti causati da obiettivi divergenti (Pruzan & Thyssen, 1990). Tali relazioni servono a costruire legami stabili in cui tutti gli attori coinvolti, imprese e stakehol-ders, collaborano per trovare soluzioni a interessi sociali condivisi. Cambia la prospettiva: se l’interesse è condiviso il risultato ottenuto creerà valore condiviso (Porter & Kramer, 2011). L’innovazione delle relazioni tra gli attori alla base dell’innovazione sociale richiede un’evoluzione del modo in cui essi concepiscono la loro stessa natura: per le imprese è necessario che estendano lo spazio del proprio agire oltre quello dei rapporti economici,

mentre per gli altri stakeholders includere la variabile dell’equilibrio eco-nomico nel proprio spettro organizzativo ed operativo (Caroli, 2015).

Aumentando il livello di collaborazione tra imprese e stakeholders, au-menta anche la disponibilità di conoscenza e risorse a disposizione delle parti (non solo risorse economiche ma anche capitale sociale, relazionale e competenze organizzative). Maggiore è il livello di relazione tra imprese e stakeholders, maggiore è la disponibilità di tali risorse che crescono insie-me all’iniziativa stessa e evolvono coerenteinsie-mente con il suo sviluppo nel tempo (Caroli, 2015).

Per far sì che ciò accada, è necessario che le imprese adottino un model-lo (con specifiche risorse e competenze dedicate) che permetta questo dia-logo. Ecco quindi che la figura/funzione del responsibility manager diventa essenziale in questo discorso. Si tratta infatti di una funzione che svolge due compiti fondamentali: il primo è quello di condurre il processo di SE attraverso il quale le imprese riescono a partecipare proattivamente alla so-luzione (congiunta con gli stakeholders) di determinati interessi sociali, e dall’altra parte facilita il dialogo da e verso l’interno dell’impresa, coordi-nando le altre funzioni in maniera tale che la sostenibilità diventi un cardine delle nuove strategie aziendali. Per far sì che ciò avvenga è, innanzitutto, necessario un cambiamento culturale che coinvolga i massimi vertici azien-dali; una volta avviato il cambiamento, serve attivare processi inclusivi e di confronto tra le varie altre funzioni e gli attori esterni, attraverso un proces-so di selezione e ingaggio verticale e di prossimità.

Nel caso delle imprese, il sustainability manager diventa Il soggetto “fulcro” di tale schema. Disegna la “catena del valore sociale”, quindi l’insieme di attività necessarie per il raggiungimento di un certo obiettivo sociale e i collegamenti tra esse; aggrega di conseguenza gli attori più indi-cati per lo svolgimento di tali attività, e delinea le interazioni tra gli stessi (Caroli, 2015).

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