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Il diritto al lavoro dello straniero L’accesso al pubblico impiego

VII. Ambito di indagine e scopo del lavoro

4. Il diritto al lavoro dello straniero L’accesso al pubblico impiego

Un ultimo profilo che investe il tema della condizione del lavoratore straniero è quello dell’esistenza in capo al non cittadino di un vero e proprio diritto al lavoro, vale a dire del diritto di chi non è occupato di essere messo nelle condizioni di trovare un’occupazione. La domanda è più una provocazione che un interrogativo, ma offre comunque lo spunto per riflettere su un ulteriore aspetto del rapporto tra diritti dello straniero e radicamento sul territorio.

Come noto è ormai uniforme la posizione della dottrina nel ritenere che di un tale diritto, in termini assoluti, non possa parlarsi, e ciò sebbene il diritto al lavoro sia in un certo senso il simbolo dell’uguaglianza sostanziale217. Esso si configura ad un tempo come diritto di libertà, relativo alla scelta dell’esperienza lavorativa in rapporto alle proprie attitudini e preferenze, e pretesa verso le istituzioni pubbliche e verso i soggetti privati. Tuttavia, in entrambe le direzioni la dottrina ha escluso la configurabilità in capo al soggetto di una pretesa assoluta ad ottenere un posto di lavoro ovvero a conservarlo, sebbene ciò non escluda, ed anzi presupponga, la predisposizione da parte dello Stato di idonei meccanismi di garanzia218.

Tutto ciò sembra valere ancor di più per lo straniero, dato lo stretto legame tra lavoro e ingresso e permanenza sul territorio. Se lo straniero non possiede un lavoro non può fare ingresso sul territorio nazionale, se lo straniero non conserva il posto di lavoro, sarà costretto a lasciarlo.

Al riguardo la Corte costituzionale219 ha chiarito che, nel campo dell’assunzione al lavoro, non é dubbio che esistano tra il cittadino e lo straniero differenze sostanziali. Infatti «mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo»220. Tuttavia, come chiarito anche nella già citata sentenza 454/1998,

216 Cfr. art. 25 del testo unico, nel quale si fa riferimento: all’assicurazione per l’invalidità, la

vecchiaia e i superstiti; all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali; all’assicurazione contro le malattie; all’assicurazione di maternità.

217

Come rileva A.D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale cit., 29, richiamando anche la posizione di C. MORTATI, Istituzioni cit., 149, il quale rintracciava il fondamento del principio lavorista nel combinato disposto degli artt. 1 e 3, comma 2, della Costituzione.

218

Sul punto A.D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale cit., 29. Sul punto si veda inoltre P. CARETTI, I diritti fondamentali cit., 373 e ss., G. ROLLA, La tutela costituzionale dei diritti, Giuffrè, Milano, 2003, 215 e ss.

219 Cfr. Corte cost. sent. 144/1970 cit., § 6 Cons. in dir. 220

Come abbiamo già evidenziato richiamando le sentenze nn. 104/1969 e 224/74 cit., la Corte afferma infatti che «[i]l cittadino ha nel territorio un suo domicilio stabile, noto e dichiarato, che lo straniero ordinariamente non ha; il cittadino ha diritto di risiedere ovunque nel territorio della Repubblica ed, ovviamente, senza limiti di tempo, mentre lo straniero può recarsi a vivere nel territorio del nostro, come di altri Stati, solo con determinate autorizzazioni e per un periodo di tempo che é in genere limitato, salvo che egli non ottenga il così detto diritto di stabilimento o di incolato che gli assicuri un soggiorno di durata prolungata o indeterminata; infine il cittadino non può essere

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una volta che il lavoratore straniero è entrato regolarmente sul territorio dello Stato, egli ha diritto alla parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, così come previsto anche dall’art. 2 del testo unico.

In quest’ottica, e alla luce delle disposizioni in materia di ingresso dello straniero, non può quindi ritenersi astrattamente arbitraria una normativa che disciplini diversamente l’accesso degli stranieri al lavoro, per quanto riguarda il momento dell’ingresso, ovviamente in conformità al principio di ragionevolezza e alle fonti internazionali in materia. Una volta però che il lavoratore straniero è entrato regolarmente in Italia, egli ha diritto di beneficare di tutti gli interventi adottati dallo Stato in attuazione del precetto di cui all’art. 4 Cost., incluse quindi anche le forme di ricollocamento sul lavoro.

Semmai viene da chiedersi, nella dimensione interprivata del rapporto di lavoro, se è effettivamente garantita parità di accesso al lavoro tra cittadini e stranieri. Infatti, a seguito delle modifiche apportate al testo unico dalla legge Bossi-Fini, è stata notevolmente appesantita la posizione del datore di lavoro che intenda stipulare un contratto di lavoro con un lavoratore straniero: è infatti previsto che anche per ogni contratto di lavoro stipulato con un lavoratore straniero successivamente al suo ingresso (quindi non soltanto con uno straniero al primo ingresso, ma anche con uno straniero già soggiornante in Italia) il datore debba garantire il reperimento di un alloggio, per il lavoratore, che soddisfi i requisiti previsti dalle leggi regionali sull’edilizia residenziale pubblica, e debba coprire le eventuali spese di rimpatrio per lo stesso lavoratore. Tali requisiti aggiuntivi potrebbero infatti costituire un deterrente per il datore di lavoro, e, di conseguenza, un fattore di esclusione del lavoratore straniero che sia rimasto privo di occupazione dalla possibilità di rientro nel mercato del lavoro221.

Chiarito quanto sopra, la questione stimola tuttavia un’ulteriore riflessione. Osservando la legislazione in materia di accesso al lavoro dello straniero, si può infatti osservare come tale parità di trattamento non possa essere affermata nell’accesso ad alcune professioni per le quali è richiesto il possesso della cittadinanza.

Il riferimento va in primo luogo alla questione relativa all’assunzione dei cittadini stranieri presso le pubbliche amministrazioni, negli ultimi anni al centro di un acceso dibattito giurisprudenziale. Da un lato, infatti, il testo unico assicura parità di trattamento tra lavoratori italiani e stranieri (art. 2), dall’altro è lo stesso decreto legislativo (art. 27) a richiamare la possibilità che discipline specifiche prescrivano il requisito della cittadinanza per lo svolgimento di determinate attività222.

allontanato per nessun motivo dal territorio dello Stato, mentre lo straniero ne può essere espulso, ove si renda indesiderabile, specie per commessi reati».

221

Profilo evidenziato anche nelle osservazioni della Cgil, Cisl, Uil al Comitato di Esperti sull’Applicazione delle norme dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, Convenzione 143/1975. Si veda supra nota 191.

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Sotto il profilo normativo, il requisito della cittadinanza italiana è previsto nell’art. 2 del d.P.R. 3/1957 (Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) che prevede tra i requisiti generali per l’accesso agli impieghi civili dello Stato (Capo II, Ammissione agli impieghi) la cittadinanza italiana. Tale norma si intendeva dettata in attuazione dell’art. 51 Cost. che prevede che tutti i cittadini, dell’uno e dell’altro sesso, possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza; l’art. 51 rinvia, infatti, alla legge la definizione dei requisiti generali per l’ammissione al pubblico impiego. Sulla ratio dell’art. 51 Cost., il Consiglio di

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La giurisprudenza di merito, adita ai sensi dell’art. 44 del testo unico, ha registrato negli ultimi anni un’apertura verso l’accesso degli stranieri al pubblico impiego, ritenendo la previsione di una tale condizione di accesso discriminatoria223. In senso opposto si è, tuttavia, espressa la Corte di Cassazione224 confermando la necessità del possesso della cittadinanza italiana per accedere al lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. In particolare, la Corte ha affermato che il requisito della cittadinanza non può essere superato proprio a seguito della lettura della Convenzione OIL n. 143, la quale all’articolo 14 dispone che ogni Stato membro può respingere nell’interesse dello stesso, l’accesso degli stranieri al pubblico impiego, pur con riferimento solo a determinate categorie di occupazioni e di funzioni. Secondo i giudici, inoltre, le norme sulla cittadinanza “formalmente in vigore”, non possono essere invocate per la tutela antidiscriminatoria in quanto la discriminazione è un comportamento illecito non configurabile se tenuto in esecuzione di disposizioni normative. In pratica, in materia di rapporti di pubblico impiego, viene riconosciuta la parità di tutti gli aspiranti lavoratori non in termini assoluti e totali ma nei limiti e nei modi previsti dalla legge e ciò non comporterebbe, ad avviso della Corte, incompatibilità con le disposizioni costituzionali perché non rientra fra i diritti fondamentali garantiti l’assunzione alle dipendenze di un determinato datore di lavoro.

Una decisione discutibile sotto molteplici profili che comunque non è riuscita a ricomporre i diversi orientamenti giurisprudenziali225.

In molte pronunce, ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto discriminatoria l’esclusione dei cittadini extracomunitari in riferimento a professioni nelle quali non fosse previsto l’esercizio di pubbliche funzioni. Si pensi ad esempio alle professioni di infermiere226, lettore di lingua227, dipendente di aziende pubbliche di trasporto228

Stato (Sez. VI, sent. N. 43 del 4/2/1985) ha affermato che la riserva non opera al fine di dare protezione al mercato interno del lavoro, ma, piuttosto, per garantire che i fini pubblici, che nel cittadino si suppongono naturalmente compenetrati nei fini personali, siano meglio perseguiti e tutelati. Una prima completa ricostruzione del complesso quadro normativo che regola la fattispecie è contenuta nel parere del Dipartimento della funzione pubblica del 28.09.2004, n. 96, con il quale è stata data un’interpretazione di chiusura sull’accesso dei cittadini extracomunitari ai pubblici impieghi.

223 Cfr. Corte d’Appello di Firenze, sentenza 30 settembre 2005, n. 11333; Tribunale di Pistoia,

ordinanza 7 maggio 2005.

224 Cfr. Cass., sez. lavoro, sentenza 13 novembre 2006, n. 24170.

225 In senso opposto si vedano infatti l’ordinanza del 6.12.2006 del Tribunale di Perugia; l’ordinanza

del tribunale di Bologna del 7.9.2007; Trib. Milano Sez. Lavoro 30.5.2008.

226 Ex multis, cfr. ordinanza 3.6.2008, n. 3749, del Tribunale di Genova e sentenza 27 maggio 2008, n.

2454, del Tribunale Civile di Milano, sez. lavoro, con la quale il giudice ha ritenuto discriminatoria l’esclusione degli infermieri di nazionalità straniera dalle procedure di stabilizzazione dei contratti a tempo determinato o a progetto, poiché nell’attuale ordinamento, in materia di accesso al lavoro, vige il principio generale della parità di trattamento tra cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari, sia con riferimento ai diritti inerenti allo svolgimento del rapporto di lavoro che con riguardo al diritto di aspettativa all’occupazione. Tale decisione è stata confermata con l’ordinanza dell’1 agosto 2008 con la quale è stato respinto il ricorso avverso il sopracitato provvedimento. In particolare il giudice ha ritenuto che in ambito sanitario e per la specifica categoria degli infermieri sia caduto il requisito della cittadinanza, sia per sanare la c.d. “emergenza infermieristica”, sia per l’estraneità di tale figura a qualsiasi esercizio di pubbliche funzioni.

227

Cfr. Tribunale di Genova, sez. lavoro, ordinanza n. 113/09 del 21.1.10 e Tribunale di Milano, sez. lavoro, ordinanza 11.1.2010 n. 9083/09.

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per le quali è ancora richiesto il requisito della cittadinanza. Tale requisito sarebbe giustificato dunque soltanto per quelle «posizioni che comportino lo svolgimento di pubblici poteri o di funzioni poste a tutela dell'interesse nazionale che, per il loro contenuto ed i loro effetti, possono essere svolti solo da chi ha con il paese un legame particolarmente forte in quanto ne è cittadino»229. In tutti gli altri settori dovrebbe invece ritenersi vigente il principio generale della parità di trattamento tra cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari, sia con riferimento ai diritti inerenti allo svolgimento del rapporto di lavoro che con riguardo al diritto di aspettativa all’occupazione. Contrariamente, la giurisprudenza amministrativa ritiene invece che il principio della parità di trattamento tra lavoratori italiani e stranieri opererebbe solo in una fase successiva all’instaurazione del rapporto di lavoro230.

Con specifico riferimento al settore del trasporto pubblico locale, la questione è stata sollevata anche dinanzi alla Corte costituzionale, la quale tuttavia non è entrata nel merito ritenendola manifestamente inammissibile231. In assenza di un intervento legislativo in materia, la tutela dello straniero si è quindi attuata soltanto in via giurisprudenziale e soprattutto grazie all’azione civile contro la discriminazione, la

228 Cfr. Tribunale di Milano, sentenza 21.7.2009, il quale ha affermato che deve ritenersi

implicitamente abrogato il Regio Decreto n. 148 del 1931 che prevede il requisito della cittadinanza italiana per l’impiego nelle imprese del trasporto pubblico per effetto dell’art. 2, comma 3, del D.L.vo n. 286/98, che afferma il principio di parità di trattamento tra lavoratori migranti regolarmente soggiornanti e lavoratori nazionali, in ossequio alle norme di cui alla Convenzione OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) n. 143/1975. Il collegio giudicante ha richiamato, tra l’altro, la sentenza della Corte di Giustizia 10.7.2008, causa C-54/07, caso Feryn, con la quale è stato sostenuto che una discriminazione vietata dalla direttiva europea n. 2000/43 si realizza anche laddove un datore di lavoro dichiari pubblicamente la sua “intenzione” di assumere solo lavoratori di una certa nazionalità, parificando a tale situazione quella della previsione in un bando di gara del requisito della cittadinanza. Sul punto si è espresso anche l’UNAR (Ufficio contro le discriminazioni istituito dal d.lgs. 251/2003), con parere del 26.10.2007, nel quale ha sollecitato le organizzazioni sindacali, in occasione del rinnovo del Contratto Collettivo del settore, a precisare che l’accesso a questi posti di lavoro debba avvenire senza nessuna discriminazione sulla base della cittadinanza. In tale parere l’UNAR evidenzia come la previsione del possesso della cittadinanza italiana per l’accesso al lavoro presso tali tipi di aziende (spesso S.p.A., a totale o maggioritaria partecipazione pubblica), palesa una violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza secondo i criteri stabiliti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 432 del 2 dicembre 2005, poiché non si ravvede una motivazione logica, ragionevole, e proporzionata nello stabilire l’accesso ai soli cittadini italiani alle opportunità di impiego nelle imprese del settore del trasporto pubblico, discriminando di fatto gli stranieri.

229 Tribunale Civile di Milano, sentenza 27 maggio 2008, n. 2454 cit.

230 Cfr. Consiglio di Stato parere n. 2592/2004. Anche la giustizia amministrativa ha comunque subito

diverse oscillazioni sull’argomento. In linea con tale posizioni di chiusura, si segnala la sentenza del Tar Toscana, Sez. II, n. 4689 del 14 ottobre 2005 e la sentenza del Tar Campania, Sez. V, n. 5847 del 24 Maggio 2007.

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Cfr. ordinanza 71/2009 cit. Si rimanda a quanto già detto al § 2 di questo Capitolo. La questione era stata sollevata con ordinanza del 29.05.2008 dal Tribunale della Spezia in riferimento all’art. 10, comma 1, n. 1 dell’allegato A al R.D. n. 148/1931, recante “Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tramvie e linee di navigazione interna in regime di concessione”, per violazione degli articoli 3 e 4 della Costituzione nella parte in cui prevede che per l’ammissione al servizio in prova è necessario essere cittadino dello Stato italiano. In particolare, il giudice dubitava della ragionevolezza di tale disposizione che richiede il requisito della cittadinanza in riferimento ad un settore, quale quello del trasporto pubblico locale, che costituisce un ambito intermedio di lavoro, il quale presenta tratti ora di quello pubblico ora di quello privato, ma che non è comunque assimilabile alla particolare finalità e posizione che esprime l’impiego presso le pubbliche amministrazioni alla luce degli artt. 51, 97 e 98 Cost.

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quale ha trovato in tale settore ampio utilizzo ed effettività, consentendo allo straniero di essere ammesso a concorsi pubblici ovvero di essere stabilizzato. Ciò ha comunque creato un sistema alternativo di giurisdizione per cui lo straniero può adire alternativamente sia i tribunali amministrativi, facendo valere il suo interesse legittimo alla selezione o assunzione, sia i tribunali civili, facendo valere il suo diritto a non essere discriminato232.