Il fondamento di tali incertezze risiede, a ben vedere, nella consue- tudine e nella varietà dei costumi umani che ne germogliano, sicché essa acquista la forza della natura stessa, semplicemente in virtù del decorso del tempo20: «Adeo potens est in rebus humanis opinio, ut nacta semel consuetudinem, abeat in mores, et diuturnitate temporis naturae vim obtineat».
Questo passaggio pone quindi il problema del rapporto fra
consuetudo e mores, complesso già a partire dalle premesse grazianee,
per cui «mos autem est longa consuetudo, de moribus tracta tantun- dem», e «consuetudo autem est ius quoddam moribus institutum, quod pro lege suscipitur, cum deficit lex»21, mentre secondo la tradizione civilistica per inveterata consuetudo si intende «ius quod dicitur moribus constitutum»22, e anzi «ex non scripto ius venit, quod usus comprobavit. nam diuturni mores consensu utentium comprobati legem imitantur»23. Ennio Cortese ha giustamente ricordato che da un lato le autorità suggerivano ai giuristi che i mores fossero una sorta di passag- gio preliminare rispetto alla consuetudine, e dall’altro però che l’uso incoerente di questi vocaboli finiva per accreditarne, al contrario, un significato sostanzialmente sinonimico24. Insomma, i Glossatori si limi-
19 Ivi, p. 2 n. 3.
20 Ibid. Su ciò si vedano anche le osservazioni, parzialmente divergenti, di R. O
RE- STANO, Introduzione, cit., pp. 198-199.
21 Rispettivamente c. 4 e 5 D. I; cfr. I
SID., Orig., V, 3, 3.
22 D. 1, 3, 32 (31), 1. 23 I. 1, 2, 9.
24 E. C
ORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, II,
tarono a stabilire una sostanziale identità fra consuetudo e mores25. Fu- rono invece gli orléanesi a lavorare su tale questione26. Non a caso, quindi, proprio in Francia matura una dottrina che vedeva nell’endiadi
mos-usus il punto di partenza del processo destinato a inducere consuetudinem, senza peraltro mai dimenticare che il vero fondamento
della consuetudine doveva essere trovato nella voluntas populi. In con- clusione, l’esito del dibattito del classico diritto comune fu quello di respingere i mores nella categoria dei fatti, conservando alla sola
consuetudo la dignità di ius, mediante l’intervento dell’elemento sog-
gettivo rappresentato dalla voluntas populi, secondo la fondamentale affermazione di Giuliano: «Inveterata consuetudo pro lege non immeri- to custoditur, et hoc est ius quod dicitur moribus constitutum. nam cum ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit tenebunt omnes»27.
A fronte di tutto ciò, il passo di Connan sembrerebbe capovolgere il tradizionale rapporto fra consuetudo e mores, assestato nei termini di un percorso dal factum (i mores) al ius (la consuetudo), mutandolo invece nel percorso contrario, quasi che fosse il diritto a improntare di sé i fat- ti. Mi pare però che il ragionamento del giureconsulto parigino possa lasciare spazio per un’interpretazione più sottile28. I mores di cui parla Connan non sono, a mio avviso, gli stessi a cui pensa la tradizione giu- ridica di diritto comune. Quest’ultima aveva infatti concentrato la pro- pria attenzione quasi esclusivamente sui comportamenti che possono
inducere consuetudinem, aveva cioè impostato la questione come un
25 E. C
ORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, II,
cit., pp. 150-151; cfr. la gl. «Diuturni» a I. 1, 2, 9: «Sed quanto tempore usus facit mores vel consuetudinem»; cfr. Institutiones, in Volumen, Lugduni, Apud Hugonem a Porta, et Antonium Vincentium, M.D.LVIII., p. 14A.
26 E C
ORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, II,
cit., p. 151.
27 D. 1, 3, 32 (31).
28 Tanto più che, più avanti, Connan sposa in pieno la dottrina tradizionale: «Mos
animi sit, et voluntatis: consuetudo autem, actionis: ille praecedat, haec sequatur»;
problema di precedenti da cui trarre una norma29. Connan invece sem- bra fare riferimento a una prospettiva ben più generale e ampia. Da un lato infatti, egli ricorda, non soltanto mutano i costumi da un popolo al- l’altro, ma nello stesso popolo le leggi sono continuamente soggette a cambiamenti, che danno origine anche alle molte contraddizioni norma- tive30. Dall’altro, conclude, coloro che ritengono che non esista un dirit- to naturale, pretendono di dimostrare ciò a partire dalla molteplicità e varietà delle istituzioni umane, dissimili fra loro, mentre la natura è sempre uguale a se stessa. Dimenticano però che il diritto non è tutto riconducibile alla volontà umana, ma al contrario esso in parte dipende dalle leggi e in parte, appunto, dalla natura31. Sono due i motivi che qui mi preme sottolineare. Anzitutto, nel pensiero di Connan la contrappo- sizione è fra un diritto naturale immutabile e un diritto legislativo, umano, mutevole. Invece, le fonti romane, pur con qualche incertezza e ambiguità, avevano costruito non una dicotomia, ma piuttosto una tri- partizione, quella fra ius naturale, gentium e civile: «[Privatum] ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus»32. Era stata la canonistica a spingere verso una bipartizione, rifiutando l’idea ulpianea di una comunione giuridica fra uomini e animali33. Ma all’inizio del secolo, Guillaume Budé ne aveva
29 Di qui l’insistenza sulla verifica giudiziale della consuetudine. Per tutto ciò mi
permetto di rinviare, oltre che alla letteratura già indicata, anche al mio «Consuetudo
legi praevalet», cit., nonché, naturalmente, Pierre Grégoire tra leges e mores, cit.
30 Commentarii, p. 2 n. 3: «Atque id ne valde miremur in tanta populorum infinita-
te, in eadem saepe civitate ac perbrevi tempore leges ipsas mutari et corrigi videmus. Hinc tam multae et frequentes earum abrogationes, derogationes, obrogationes, tot plerunque earum inter se repugnantiae et dissensiones».
31 Ivi, p. 3 n. 4: «Posuerunt [i negatori del diritto naturale] enim ius natura nullum
esse, idque ostendunt ab humanis institutis, quae sunt inter se dissimilia, cum natura sui sit semper similis. quasi vero ius omne ducatur a scitis populorum, et non sit duplex eius ratio, quae partim natura, partim legibus habeatur».
32 D. 1, 1, 1, 2.
33 Come espressa in D. 1, 1, 1, 3: «Ius naturale est, quod natura omnia animalia
docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est»; basti qui ricordare un passo di Isidoro, confluito poi nel Decretum (c. 7 D. I): «Ius naturale est commune omnium nationum, eo quod ubique instinctu naturae, non constitutione aliqua habetur, ut viri et feminae coniunctio, liberorum successio et educatio, communis omnium possessio et
ripreso i motivi, respingendo la tradizionale posizione civilistica34. In Connan quindi si riaffaccia una nozione esclusivamente umana del di- ritto di natura35, che avrà ampio successo nei decenni successivi, da Bodin a Grégoire.
omnium una libertas, acquisitio eorum, quae celo, terra marique capiuntur; item depositae rei vel commendatae pecuniae restitutio, violentiae per vim repulsio»; cfr. ISID., Orig., V, 4. Per i problemi connessi alla dottrina medievale sulla questione, rinvio
a E. CORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, I, cit., pp.
72-82; problematica risultò soprattutto l’interpretazione di un passaggio di Gaio: «Quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur» (D. 1, 1, 9), e ciò soprat- tutto per quel cenno alla naturalis ratio che doveva creare non poche difficoltà alla dottrina, solo parzialmente risolte distinguendo un diritto naturale comune a tutti gli esseri animati e un diritto delle genti destinato ai solo esseri umani. Fu quindi giocofor- za ammettere che «in parecchi casi i due ordinamenti apparivano confusi» (ivi, p. 73).
34 G
UILLAUME BUDÉ, Annotationes in XXIIII. Pandectarum libros, Lugduni, Apud
Sebastianum Gryphium, 1546 (la prima edizione è del 1508), pp. 49-50 («Videmus enim caetera quoque animalia, feras quoque bestias istius iuris peritia censeri […]. Ius naturale est quod natura omnia animalia docuit. ius esse negans [scil. Lorenzo Valla] appetitum coëundi et procreationem educationemque»), 56 («Et quomodo hominum inter homines iuris esse vincula putant, sic homini nihil iuris esse cum bestiis»). Su Guillaume Budé (1468-1540), rinvio al profilo tracciato da J. KRYNEN, Budé (Budaeus)
Guillaume, in Dictionnaire historique des juristes français, cit., pp. 142A-143B, e mi
permetto inoltre di suggerire la lettura del mio Pierre Grégoire tra leges e mores, cit.,
passim e soprattutto pp. 31-32.
35 Connan la esplicita così: «Ex tribus igitur locis in quos iuris vim divisit Ulpianus,
primus ille qui per omnium animantium naturas diffunditur, latissime patet: non quod solius hominis non proprium sit, sed quod animalem eius facultatem videatur tantum attingere: quapropter bestiis quoque commune putatur esse … Quare virtutum aliarum omnium laudem non gravate illis [scil. animalibus] communicamus, praeterquam iuris et iustitiae, quia caeterae virtutes in seipsis vertuntur, iustitia vero complectitur eos quibuscum vivit. At bestiarum inter se, aut cum homine ipsis nulla vitae societas esse potest, neque iuris igitur ulla communio»; cfr. Commentarii, pp. 16 n. 4, 25 n. 1. Si trattava di un luogo comune, di ascendenza ciceroniana, che ritroviamo anche nei di- zionari di quei decenni: «Et quomodo hominum inter homines iuris esse vincula putant, sic homini nihil iuris esse cum bestiis»; cfr. ÉTIENNE DOLET, Commentariorum Linguae
Latine tomus primus, Lugduni, Apud Sebastianum Gryphium, 1536, ad vocem «Ius»,
col. 602 ll. 39-40, e, per la fonte, CIC., Fin., III, 67: «Et quo modo hominum inter
homines iuris esse vincula putant, sic homini nihil iuris esse cum bestiis». Per Dolet, si veda J. RICE HENDERSON, Étienne Dolet, in P.G. BIETENHOLZ,TH.B. DEUTSCHER (edd.
Quanto al secondo aspetto, esso riguarda piuttosto la nozione stessa di mores così come viene usata da Connan in questo luogo. Essa mi sembra avere a che fare più con le forme fondanti, potremmo dire pro- prio con la “costituzione morale” dei popoli, che non con i comporta- menti spiccioli da cui nasce una consuetudine. In questo senso, la con- suetudine, il ius, finisce, credo, per essere inglobato in un ordine supe- riore, costituzionale appunto, o anche naturale, purché la nozione di natura venga qui intesa in un’accezione più limitata rispetto a quella di
natura humani generis. Nel pensiero del Parigino, ciò rende ragione
anche della varietà delle leggi umane, che devono essere acconce ai
mores dei popoli a cui sono destinate, come anche della loro mutevo-
lezza, perché i tempi, e i mores, cambiano, e le leggi devono cambiare con loro, come il medico adegua le sue cure alla malattia, e il nocchiero adatta la velatura e la rotta alle condizioni del mare36:
Et sane pars [scil. iuris] quae in legibus est, varia est et incerta, ad quamlibet rerum opportunitatem mutabilis. Nam cum ad cuiusque populi morem pro loci et temporis ratione commodetur, fieri aliter non potest, quin diversum diversis civitatibus et populis statuatur: tum ipsa temporum mutatio et necessitas saepe iustam affert mutandae legis occasionem: ut quemadmodum in medicina et gubernatoris arte, sic in legibus nihil stabilitatis aut firmitudinis esse possit. Temporis enim semper habenda ratio est.
Di qui la conclusione di Connan, che sa scorgere l’ordine attraverso il velo dell’apparente disordine, l’unità dei fini oltre la molteplicità dei mezzi: «Ut cum omnes idem spectent legislatores, non omnes idem statuant, nec debeant statuere»37.
Una tale varietà di mores sembra quindi frantumare il ius al punto da porre in dubbio la stessa unitarietà della sua nozione, cacciandolo dal- l’ambito della natura per costringerlo in quello, particolare e relativis- simo, dell’opinio. E proprio il fatto della molteplicità, questo elemento per così dire “fenomenico”, è secondo Connan anche all’origine del
by), Contemporaries of Erasmus. A Biographical Register of the Renaissance and
Reformation I, Toronto-Buffalo-London, 1985, pp. 394B-396B.
36 Commentarii, p. 3 n. 4. 37 Ibid.
disordine intellettuale ed etico che sembra affliggere l’umanità: agli occhi di molti la varietà delle norme positive (leges) fa del diritto un’opinione, e la varietà delle opinioni ne produce la perversione, che è anche perversione etica, disordine etico38. La confusione intellettuale, che è figlia della confusione legislativa, partorisce quindi la confusione morale.