La soluzione capace di porre rimedio a questa situazione, ricondu- cendo il diritto a unità su di un piano più alto e ridonandogli così quella centralità che gli umanisti andavano cercando, secondo Connan deve essere individuata in un elemento soggettivo obbiettivato. È la volontà dei legislatori, spogliata da tutti i suoi tratti occasionali e impulsivi, e ridotta in sostanza a causa finalis, che sola può avere ragione del disor- dine provocato dai mores. Come dice Connan39: «Una tamen atque eadem mens est legislatorum omnium, ut aequitate constituenda cives suos ad primam naturae iustitiam revocent: quam si legibus scriptis exprimere nequeant, voluntate quidem proxime accedunt».
Il motivo della causa finalis legis aveva, già al tempo di Connan, una lunga, ricchissima e complessa tradizione40. Ma qui siamo oltre. Non si parla più di causa legis, ma semmai di causa legum, e questa causa finale si confonde con quella del ius, come individuata dalla ce- lebre definizione di Celso, «ius est ars boni et aequi»41, e spiegata da Ulpiano con l’immagine dei giuristi «aequum ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes»42. E
38 Ivi, p. 3 n. 5: «Diversitas legum haec etiam non minima causa est, quod humanae
mentis error, et opinionum perversitas facit, ut aliud alii videatur plerunque, et mala pro bonis, perniciosa pro salutaribus iubeantur».
39 Ibid. 40 Cfr. E. C
ORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico,
I-II, citt., ad indicem; e inoltre F. CALASSO, Il negozio giuridico, cit., pp. 231-239.
41 D. 1, 1, 1, pr. 42 D. 1, 1, 1, 1.
che una tale assimilazione fosse tutt’altro che casuale, lo dimostra lo stesso giureconsulto francese, per il quale qualunque cosa la legge co- mandi, essa è ius, diritto: «Itaque quicquid lege praecipitur, ius appellatur»43.
Un simile legalismo nascondeva però due gravi pericoli. Anzitutto, ancorare la stessa unitarietà della nozione di diritto alla volontà dei le- gislatori, infatti, rischiava di legittimare come ius qualunque capriccio della volontà legiferante44. Il rimedio a tale rischio è apprestato da Con- nan facendo riferimento alla nozione di causa. Non ogni causa, infatti, è idonea a fare delle leges il ius, ma soltanto la causa finalis, che non si confonde con il perseguimento di un qualsiasi fine soggettivamente individuato, ma ha di mira piuttosto una finalità obbiettivata, “tipizza- ta”, che Connan ha individuato nel ricondurre gli uomini ad primam
naturae iustitiam.
Il secondo pericolo attiene alla varietà delle leggi positive esistenti: come discernere la lex che è ius, perché del ius realizza la causa finalis, da quella che tale non è? Ancora una volta, la risposta viene, implicita- mente, proprio dalla finalità obbiettiva che Connan ha individuato. Il piano su cui ci si deve muovere non è quello dell’essere, ma piuttosto quello del dover essere: «Itaque quicquid lege praecipitur, ius appellatur, habita ratione eius quod fieri debuit, non eius quod factum
est [corsivo mio]»45. Si tratta, in fondo, dello stesso metodo seguito da Paolo in un noto passaggio posto in apertura del Digesto, nel titolo De
iustitia et iure. Il giurista romano aveva scritto che la parola ius, diritto,
poteva essere intesa in una molteplicità di accezioni, e aveva distinto fra ciò che è sempre aequum et iustum, cioè il diritto di natura, e ciò che in ciascuna civitas è utile a tutti o alla maggior parte, e si tratta del dirit- to civile. Aveva quindi aggiunto che, nella tradizione romana, per ius si doveva intendere anche il ius honorarium. Ma ciò gli aveva posto un problema nuovo, perché, mentre il diritto di natura si presentava come giusto per definizione, e quello civile trovava la garanzia della propria equità nell’utilità (e nella volontà) della totalità o della maggioranza dei
43 Commentarii, loc. ult. cit.
44 Che questo volontarismo costituisca problema per Connan sembra non sia stato
rilevato da R. ORESTANO, Introduzione, cit., p. 630.
cittadini, il ius honorarium si fondava solo sulla volontà e sul potere di un singolo magistrato, cosa che pareva offrire una garanzia assai debo- le. La soluzione Paolo l’aveva trovata nel distinguere ciò che il pretore concretamente decretava, o poteva decretare, da ciò che invece doveva o avrebbe dovuto fare46. Questo luogo del Digesto ritorna ora, espres- samente citato, in Connan, il quale se ne serve per distinguere le leges dal ius47:
Quo pacto [cioè purché si distingua la decisione com’è da come dovrebbe essere] iudex ius reddidisse dicitur, etiam cum inique decrevit, ut scribit Paulus. Neque tamen quod inique iudicatum est et constitutum, ius est, sed ita appellatur, quia putatur ius esse.
Ma queste conclusioni nascondevano un altro rischio, opposto al precedente: potevano servire come pretesto per la disobbedienza al principe-legislatore, autore di una lex iniqua, e perciò non giuridica. Connan corre subito ai ripari: «Tanquam sit eiusmodi [cioè una norma iniqua ma creduta ius], parendum ei est et obtemperandum»48. Questo motivo del ius iniquum che non può assurgere in nessun caso a pretesto di ribellione, già antico ai tempi di Connan, affondava le sue radici nel- la tradizione scritturale dei Libri dei Re, e aveva trovato ampi spazi nel- la dottrina49. Esso era strettamente connesso al problema della tirannide e a quello della validità degli atti giuridici del tiranno, su cui la dottrina
46 D. 1, 1, 11: «Ius pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum
ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale. altero modo, quod omnibus aut pluribus in quaque civitate utile est, ut est ius civile. nec minus ius recte appellatur in civitate nostra ius honorarium. praetor quoque ius reddere dicitur etiam cum inique decernit, relatione scilicet facta non ad id quod ita praetor fecit, sed ad illud quod praetorem facere convenit».
47 Commentarii, loc. ult. cit. 48 Ibid.
49 Cfr. D. Q
UAGLIONI, L’iniquo diritto. “Regimen regis” e “ius regis” nell’esegesi
di I Sam. 8, 11-17 e negli “specula principum” del tardo Medioevo, in A. DE BENEDIC- TIS (a c. di), con la collaborazione di A. Pisapia, Specula principum, Frankfurt am
Main, 1999, pp. 209-242. Lo stesso passo biblico avrà grande importanza anche in se- guito, ad esempio in Althusius; cfr. L. BIANCHIN, Politica e Scrittura in Althusius. Il
diritto regale nell’interpretazione di I Sam. 8, 11-18 e Deut. 17, 14-20, in L. CAMPOS
di diritto comune si era a lungo affaticata50. Ma non meno importante è qui il riferimento alla questione della responsabilità del giudice e dei suoi officiali, e al loro eventuale diritto-dovere di resistere51. Si tratta di
50 Per tali questioni rinvio a D. Q
UAGLIONI, Politica e diritto nel Trecento italiano.
Il “De tyranno” di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357). Con l’edizione critica dei trattati “De Guelphis et Gebellinis”, “De regimine civitatis” e “De tyranno”, Firenze,
1983, soprattutto le quaestiones VII e XI, pp. 188-196, 205-207. Diego Quaglioni è ritornato sul problema in «Nembroth primus fuit tirannus». “Tiranno” e “tirannide”
nel pensiero giuridico-politico del Trecento italiano: il commento a C. 1, 2, 16 di Albe- rico da Rosate (c. 1290-1360), in Annali dell’Istituto Italiano di Studi Storici, VI
(1979-1980), pp. 83-103, ora ripubblicato come “Tiranno” e “tirannide” nel commento
a C. 1, 2, 16 di Alberico da Rosciate (c. 1290-1360), in ID., «Civilis sapientia». Dottri-
ne giuridiche e dottrine politiche fra medioevo ed età moderna. Saggi per la storia del pensiero giuridico moderno, Rimini, 1989, pp. 15-34: 30-32; ancora, ID., Il processo
Avogari e la dottrina medievale della tirannide, in G. CAGNIN (a c. di), Il processo
Avogari (Treviso, 1314-1315), Roma, 1999, pp. V-XXIX.
51 Su cui si veda A. G
IULIANI,N. PICARDI, La responsabilità del giudice, Milano,
1987, soprattutto pp. 23-37: 30, nonché IID., La responsabilità del giudice: problemi
storici e metodologici, in L’educazione giuridica, III, La responsabilità del giudice, Pe-
rugia, 1978, pp. 3-74, e D. QUAGLIONI, L’officiale in Bartolo, in L’educazione giuridi-
ca, IV.1, Il pubblico funzionario: modelli storici e comparativi, Perugia, 1981, pp. 143-
187, ora anche, con il titolo La responsabilità del giudice e dell’officiale nel pensiero di
Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), in ID., «Civilis sapientia», cit., pp. 77-106; per i
problemi connessi con la responsabilità del giudice, in particolare il giudizio di sindaca- to, dopo le risalenti notazioni di G. SALVIOLI, Storia della procedura civile e criminale,
in P. DEL GIUDICE (dir. da), Storia del diritto italiano, III. 2, Milano, 1927, pp. 737-
740: 739, rinvio a W. ENGELMANN, Die Wiedergeburt der Rechtskultur in Italien durch
die wissenschaftliche Lehre. Eine Darlegung der Entfaltung des gemeinen italienischen Rechts und seiner Justizkultur im Mittelalter unter dem Einfluß der herrschenden Lehre der Gutachtenpraxis der Rechtsgelehrten und der Verantwortung der Richter im Sindi- katsprozeß, Leipzig, 1938; inoltre U. NICOLINI, Il principio di legalità nelle democrazie
italiane: legislazione e dottrina politico-giuridica dell’età comunale, Padova, 19552,
pp. 367-392, G. ROSSI, Consilium sapientis iudiciale. Studi e ricerche per la storia del
processo romano-canonico, I (Secoli XII-XIII), Milano, 1958, pp. 239-253, G. ASTUTI,
U. NICOLINI, Custodire i custodi, Milano, 1975; per quanto riguarda in particolare il
diritto di resistenza, rinvio a D. QUAGLIONI, «Fidelitas habet duas habenas», cit.; ID.,
filoni dottrinali che riemergeranno tutti nella grande riflessione giuspo- litica degli ultimi decenni del secolo XVI, in particolare in Bodin52.