Se questo è ciò che possiamo ricavare dalle lettere di Dante, occorre aggiungere che l’intera sua opera è costellata di riferimenti, più o meno ampi, al bando come istituto, oltre che, naturalmente, alla sua situazio- ne personale di bandito.
36 Lo ha dimostrato da ultimo Diego Quaglioni nel suo commento alla Monarchia,
per cui cfr. DANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., pp. 807-1415, e ora DANTE ALIGHIERI,
Così nel Fiore noi leggiamo: «Molto vilmente mi buttò di fora / Lo Schifo, crudo, fello e oltragioso»37.
La cacciata dal giardino è certamente un bando, i cui caratteri sono descritti dai restanti versi del sonetto. Così solo Pietà e Franchezza avrebbero potuto impedire il bando («Sì ch’ e’ del Fior non cred’esser gioioso, / Se Pietate e Franchezza no ll’acora»). D’altro canto, un uomo leale come Dante è indifeso di fronte a simili ingiustizie, perpetrate con le insidie e preparate occultamente: «Perché ’l me’ cor [i]stà tanto do- glioso / Di quel villan, che stava là nascoso, / Di chu’ non mi prendea guardia quell’ora». Ormai, solo Pietà può soccorrere l’Amante, affron- tando e vincendo lo Schifo: «Ma di lui mi richiamo a Pietanza, / Che vengha a llui collo spunton in mano»38.
Più oltre, Amante sembra ottenere il perdono e la remissione del bando39:
Sì ch’io mi trassi a lui, e salutato Umile mente l’ebi a capo chino, E sì gli dissi: ‘Schifo, agie merzede Di me, se ’nverso te feci alcun fallo, Chéd i’ sì son venuto a pura fede, A tua merzede, e presto d’amendarlo’.
37 Chi scrive è perfettamente cosciente dei problemi di attribuzione che riguardano
quest’opera, come anche il Detto d’Amore, e pure dei nessi che le legano assieme. Pe- raltro, e salvo miglior consiglio, non si vede per il momento motivo di rifiutare un’attri- buzione che è stata autorevolmente sostenuta. D’altra parte, per quanto chi scrive può sommessamente aggiungere dal punto di vista di uno storico del diritto, la cultura giuri- dica dell’autore di queste due operette non solo non pare estranea a Dante, ma non sembra possa essere a lui rifiutata, soprattutto dopo le recenti indagini sulla Monarchia. Per queste ragioni cfr. DANTE ALIGHIERI, Fiore, VII, 1-2, in P. ALLEGRETTI (a c. di),
DANTE ALIGHIERI, Fiore. Detto d’Amore, Firenze, 2011 (d’ora innanzi semplicemente
Fiore), p. 256. Su queste operette e sull’attribuzione ivi, pp. 1-248. Rifiuta decisamente
l’attribuzione dantesca P. STOPPELLI, Dante e la paternità del Fiore, Roma, 2011 (Pub-
blicazioni del «Centro Pio Rajna». Quaderni della Rivista di studi danteschi, 6). Non sarà superfluo ricordare, però, l’autorevole attribuzione dantesca compiuta da G. CON- TINI, Fiore, in Enciclopedia dantesca, II, cit., pp. 895B-901A, secondo cui la composi-
zione del Fiore, come esperienza “comica” pura, sarebbe addirittura necessaria alla car- riera poetica di Dante (ivi, p. 900B).
38 Per questo passaggio e per i precedenti, Fiore, VII, 2-4, 6-8, 13-14. 39 Ancora, Fiore, XII, 7-14.
Que’ mi riguarda, e tuttor si provede Ched i’ non dica ciò per inghanarlo.
I presupposti essenziali della revoca del bando sono qui delineati con precisione: richiesta di perdono, consegna nelle mani di chi ha emesso il bando, promessa di fare ammenda.
Nel poema, Amore invia quindi come messaggere Franchezza e Pie- tà, ad implorare che si faccia grazia ad Amante, perché è «prode, e franco, sanza villania», e «ssì buon e saggio»40. Lo Schifo reagisce in modo insospettabilmente cortese41:
Lo Schifo disse: ‘Giente messagiere, Egli è ben dritto ch’a vostra domanda I’ faccia grazia, e ragion lo comanda: Ché voi non siete orgolliose né fiere, Ma siete molto nobili parliere.
Pare appena il caso di notare che questo passo presenta un’affinità non superficiale di motivi con quanto abbiamo letto nell’Epistula XII, a proposito della revoca del bando di Dante e delle ragioni per cui tale revoca avrebbe dovuto avvenire, in particolare l’innocenza di Dante stesso e i suoi meriti culturali.
Una dimostrazione, in qualche misura a posteriori, di quanto la co- struzione del Fiore debba alla dottrina in materia di bando, si ha un po’ più oltre, quando Amante cade ancora una volta in disgrazia: «Perch’ i’ fu’ del giardin rimesso in bando»42. L’autore stesso del Fiore evoca il bando, come istituto giuridico che si applica ad Amante e che ne de- scrive la situazione, e, come abbiamo visto, i caratteri del bando e il pensiero dantesco sul punto entrano nella struttura stessa della vicenda poetica.
Tutto ciò conosce anche uno sviluppo ulteriore: benché ingiusta- mente bandito, Amante tenta di tornare nel giardino. Schifo minaccia
40 Così, rispettivamente, Franchezza e Pietà; Fiore, XIII, 8 e XIV, 6. 41 Fiore, XV, 1-5.
quindi di ucciderlo dolorosamente, come erano minacciati di morte, in caso di cattura, i banditi per reati gravi43:
Ma s’i’, colui, che vene per lo Fiore, I’ ’l posso nel giardin tener mai preso, I’ sia unguanno per la gola inpeso Sed i’ no ’l fo morir a gran dolore.
Insomma, anche da questo punto di vista Dante (se di lui si tratta) costruisce una vera dottrina giuridica del bando, ispirata certamente alle riflessioni dei giuristi suoi contemporanei, ma insieme originale, alme- no rispetto alla prassi politica e giudiziaria del suo tempo, soprattutto per l’insistenza sulla necessaria colpevolezza dei banditi, escludendo quindi ogni impiego meramente politico dell’istituto.
La questione che si pone, quindi, è quale colpa possa giustificare il bando, evitando di scadere in un esilio immeritato.
Una risposta Dante la offre nell’Inferno: «Ché quello imperador che là sù regna, / perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge, / non vuol che ’n sua città per me si vegna»44.
Nelle parole che Virgilio applica a se stesso, per spiegare perché non potrà accompagnare Dante nel suo viaggio in Paradiso, troviamo dun- que la risposta: la colpa è la ribellione. Ciò ci rende anche ragione delle parole che Amante pronunciava nel Fiore, per giustificare la richiesta di revoca del bando: «Chéd i’ sì son venuto a pura fede / A tua merzede, e presto d’amendarlo»45. Amante non è ribelle, anzi, offre di fare am- menda: questo lo rende degno di grazia. Così pure, nell’Epistula XII, abbiamo visto che Dante ricorda la propria innocenza manifesta, come motivo che dovrebbe bastare, insieme ai suoi meriti filosofici, a guada- gnargli la remissione del bando iniquamente inflitto.
D’altro canto, occorre considerare con attenzione la nozione di ribel- lione: essa si sostanzia in un rifiuto d’obbedienza, in una condotta nega- tiva rispetto a un’obbligazione giuridica e politica. Ne consegue che il
43 Fiore, XXVI, 5-8.
44 Inferno, I, 124-126; uso D
ANTE ALIGHIERI, Commedia, con il commento di
A.M. Chiavacci Leonardi, I, Inferno, Milano, 1991.
contrario di una ribellione non può essere, a sua volta, una condotta negativa. Non basta, cioè, non ribellarsi: occorre essere fedeli, perché la fedeltà è la condotta positiva di cui la ribellione è la negazione. Una mera non-ribellione è, per sé sola, condannabile, sebbene meno grave- mente della ribellione stessa. Questo, mi pare, si può ricavare da un altro noto passo dell’Inferno46:
Ed elli a me: “Questo misero modo tegnon l’anime triste di coloro
che vissero sanza ’nfamia e sanza lodo. Mischiate sono a quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Affine alla ribellione, anche se con una sfumata differenza, che con- tribuisce però a illuminare entrambi, è il tradimento. Quale fosse il pen- siero di Dante intorno a tale delitto, risulta chiaro dal celebre episodio dell’incontro col conte Ugolino: «Che per l’effetto de’ suo’ mai pensie- ri, / fidandomi di lui, io fossi preso / e poscia morto, dir non è mestie- ri»47.
Anche in questo caso, centrale è la fede, la fedeltà alla parola data, ma vi è qualcosa in meno e qualcosa in più: in meno, perché qui la vio- lazione della fedeltà ha natura privata, senza coinvolgere la res publica; in più, perché, come il discorso dantesco lascia intendere48, la violazio- ne avviene non a viso aperto, ma in modo fraudolento. Tutto questo è chiaro anche nei successivi incontri di Dante con frate Alberigo e Bran- ca Doria, anch’essi colpevoli di tradimento, e in particolare di tradi- mento di ospiti e commensali, cioè, in fondo, violatori del diritto divi- no, cosa che comporta per Dante l’inusitata pena per cui le anime sono trascinate negli inferi mentre il corpo pur vive sulla terra, facendo di costoro dei morti già in vita, vale a dire escludendoli, bandendoli, dalla comunità dei viventi49. Un’ulteriore forma di tradimento è quella che conclude, infine, la discesa dantesca agli inferi. Nell’ultimo canto, Dan-
46 Inferno, III, 33-39.
47 Inferno, XXXIII, 16-18. 48 Inferno, XXXIII, 1-36. 49 Inferno, XXXIII, 118-157.
te trova Lucifero, che divora, con le sue tre facce, i tre peggiori tradito- ri: Giuda Iscariota, traditore del Cristo, Bruto e Cassio, traditori di Ce- sare, cioè i traditori delle autorità divine e umane, i violatori del diritto umano e di quello divino50. Essi sono dilaniati da Lucifero in persona, a mostrare la gravità della colpa (il tradimento di Dio e dell’Impero), poi- ché chi li lacera eternamente è egli stesso il più grande dei traditori51.
Occorre però fare anche qualche altra considerazione. In fondo, tutto l’Inferno e tutto il Purgatorio sono costruiti partendo proprio dalla pena del bando. Essi ospitano i banditi da Dio, con, è ovvio, l’essenziale dif- ferenza che gli ospiti dei gironi infernali sono banditi eternamente, mentre coloro che, a somiglianza di Dante, salgono più o meno lenta- mente il monte del Purgatorio sono invece banditi, per così dire, “a termine”, e destinati, infine, alla beatitudine che consiste, a ben vedere, nel tornare alla patria, all’eredità, per usare un termine dantesco, a cui tutti anelano. Fino a che punto, occorre chiedersi, l’analogia con il ban- do è efficace? O, meglio, fino a che punto, per Dante, il bando come istituto giuridico condiziona la struttura stessa del poema?
In fondo, sia i banditi condannati all’inferno sia quelli condannati al purgatorio sono ribelli a Dio, direttamente o indirettamente (ad esempio perché ribelli all’imperatore). Cosa fa sì che gli uni siano destinati alla beatitudine eterna e gli altri all’eterna dannazione, o, meglio, alla se- conda morte? La risposta sta nella loro scelta, libera, di persistere nella loro ribellione o, invece, nel loro pentirsi e sottomettersi sinceramente, anche all’ultimo istante, a Dio come supremo Imperatore dell’universo. Le lettere dantesche ci illuminano: come abbiamo visto, l’imperatore (Enrico VII) non rifiuta di restituire la propria grazia ai ribelli pentiti, ma accorda solo il proprio sdegno agli irriducibili. Così fa anche Dio, l’Imperatore celeste: risparmia, virgilianamente oltre che cristianamen- te52, chi si assoggetta alla sua volontà, e danna, definitivamente, chi ostinatamente rifiuta di sottomettersi alle sue leggi. Chi invece chiede il suo perdono, è soggetto non a un’umiliante cerimonia e ad ammende inique (come doveva accadere a Dante), ma a un’espiazione che ha lo
50 Inferno, XXXIV, soprattutto 61-67.
51 Su questa sorta di graduazione nel tradimento cfr. E. B
IGI, Traditore, traditrice,
in Enciclopedia dantesca, V, Roma, 19842, pp. 680A-681A. 52 V
scopo di purificarne, definitivamente, la volontà, rendendola coinciden- te con quella divina, cosicché vi sia una perfetta corrispondenza tra il Signore e i suoi sudditi, i quali ne contemplano il volto e ne riflettono la luce e gli intendimenti, cosa che accade in modo sempre più pieno ma- no a mano che si risalgono i cieli nel Paradiso dantesco.
Insomma, il bando inflitto da Dio e quello inflitto dall’imperatore sono due aspetti della medesima realtà. E per questo il bando imperiale, come quello divino, è facilmente revocabile una volta che il rapporto di fedeltà sia stato opportunamente ricostituito. Il bando cittadino, invece, è soggetto all’arbitrio determinato dalla politica cittadina. Sembra che qui Dante immagini davvero il bando imperiale come una scomunica in
saecularibus, cioè come una pena medicinale, soggetta a decadere in
caso di pentimento e sottomissione, mentre il bando cittadino sembra avere caratteristiche ben differenti. In questo senso, la distinzione tra scomunica e bando (cittadino) che Bartolo farà qualche decennio do- po53, riflette proprio questa dicotomia dantesca.