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Presupposti, natura ed efficacia della consuetudine

Per quanto riguarda i presupposti necessari della consuetudine, Re- buffi ne individua sette. Si tratta, in primo luogo, del consenso tacito della totalità o della maggior parte del popolo, mentre non appare rile- vante quello del principe37. Oltre alla dialettica, che già conosciamo, fra

voluntas populi e voluntas principis, possiamo qui scorgere un chiaro

rinvio alla tradizione, in particolare alla Summa Codicis di Azzone, a proposito della seconda delle sedes materiae attorno alle quali i giuristi erano usi disporre le loro riflessioni in tema di consuetudine. Si tratta della celebre costituzione di Costantino del 319 nella quale l’imperatore ricorda che certamente l’autorità della consuetudine non deve essere considerata vile, ma comunque non è tale da vincere «rationem aut legem»38. Azzone aveva ricordato l’opinione di chi, ritenendo che la consuetudine potesse essere assimilata in certa misura ai patti, in quanto fondata sul consenso, pensava che essa potesse derogare solo alle leggi che potevano ricevere deroghe pattizie. Successivamente, sulla scia del suo maestro Giovanni Bassiano, Azzone aveva affermato che l’assimi-

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ARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam, cit., ad l. De quibus, Digesto, De

legibus, f. 17vA n. 8: «Breviter aut quaeris de consuetudine introducenda, et in eius

introductione, non requiritur scriptura … Circa eius tamen observantiam, et ut melius possit teneri menti, potest redigi in scriptis ad memoria‹m› eius, ut videmus in usibus feudorum»; e ancora (ivi, f. 19rA n. 8): «Consuetudo potest considerari, quo ad sui originem, seu introductionem, et tunc impossibile esset quod sit scripta, cum veniat ex tacito consensu populi … Aut quaeris quantum ad sui reformationem, ut ecce, civitas est usa longo tempore aliqua consuetudine, nunc facit eam redigi in scriptis. Hoc potest fieri. Et ita fuit de consuetudinibus feudorum».

37 De consuetudine, p. 8 n. 36: «Quarto quot sint necessaria ad inducendam

consuetudinem videamus? Responde multa, primo quod moribus utentium [id est] tacito consensu sit introducta, vel maioris partis populi … Et sic in inducenda consuetudine requiritur consensu populi, non principis».

38 C. 8, 52 (53), 2: «Consuetudinis ususque longaevi non vilis auctoritas est, verum

lazione della consuetudine ai patti si rivelava dubbia, perché avrebbe avuto per conseguenza l’inopponibilità della consuetudine stessa a chi, come il pazzo, non poteva esprimere un valido consenso39. A nulla, se- condo Giovanni e Azzone, valeva la tesi per cui il consenso collettivo avrebbe potuto essere espresso anche solo dalla maggioranza dei cives, perché si trattava di una regola valida per le elezioni, ma che non pote- va implicare la sottoposizione di terzi a obblighi qualsiasi, a loro insa- puta. Una simile deliberazione poteva impegnare la responsabilità del gruppo, dell’universitas, ma non dei singoli40. Questo dibattito non ha lasciato tracce nel discorso di Rebuffi, essendo evidentemente legato alla situazione e alla tradizione giuridica dei secoli XII e XIII più che a quelle successive.

In secondo luogo, dice il giurista francese, si richiede che la consue- tudine derivi da un uso prolungato, di durata almeno decennale41. Re- buffi segue qui la posizione assestatasi definitivamente nella dottrina di diritto comune in seguito all’autorità della tradizione bartoliana. Barto-

39 Sulla figura del furiosus e sulla sua condizione giuridica nella dottrina di diritto

comune cfr. M. BOARI, Qui venit contra iura. Il furiosus nella criminalistica dei secoli

XV e XVI, Milano, 1983.

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ZZONE, Summa, Venetiis, Apud Gasparem Bindonum, MDLXXXIIII, ad

Codicem Iustinianum, Quae sit longa consuetudo (C. 8, 52 [53]), col. 875 n. 7: «Alii

distinguunt, an lex sit talis, cui derogari possit per pactum … et tunc tali legi per consuetudinem derogari in eo loco dicunt, alioquin si per pactum legi non potest derogari, secus dicunt … notavit Iohannes Bossianus [sic] et merito consuetudinem pacto parificant, quia ipsa consuetudo consensus dicitur tacitus … Sed hoc non videtur verum, quia secundum hoc furiosis, vel similibus, qui expressim consentire non pos- sunt, consuetudo non obiiceretur … nisi respondeas, imo obiiceretur, quia maior pars universitatis consentit, unde perinde est ac si omnes consentissent … Secundum Iohannes Bossianus [sic] responde, illa regula vera est in electionibus. Item vera est, ut universitas possit conveniri ideo, quia maior pars aliquid dicatur fecisse, non ut aliquis ignorans conveniatur. Haec autem consuetudo patrimonio singulorum detrahit, et inducitur, ut singuli conveniantur, quod esse non potest. Nam si millies ipsi paciscantur, quod ego tenerer, mihi non praeiudicaret». Per il problema del consenso e della volontà espressa dall’universitas, cfr. D. QUAGLIONI, Universi consentire non possunt, cit.;

inoltre, C. ZENDRI, «Universitas». La dottrina dei «corpi» nel pensiero di Ulrich Zasius

(1461-1535), cit., pp. 207-245: 237-245.

41 De consuetudine, p. 8 n. 38: «Secundo requiritur quod usus sit continuatus longo

lo, commentando proprio la l. De quibus, aveva ricordato un dibattito ancora vivo ai suoi tempi, che aveva visto affrontarsi da un lato la dot- trina della Glossa, favorevole a un termine di dieci o vent’anni, e dall’altro chi, come i giuristi oltremontani, cioè orleanesi, preferiva par- lare di un uso immemorabile42. A ciò, la repetitio attribuita a Bartolo, a proposito della stessa l. De quibus, aveva aggiunto che il termine di dieci anni avrebbe dovuto riguardare la consuetudine inter praesentes mentre quello ventennale la consuetudine inter asbsentes. Tuttavia, una simile distinzione si rivelava fallace, perché il popolo, che induce la consuetudine, è sempre presente. Ancora, i canonisti richiedevano il decorso di un lungo termine quarantennale, ma, avverte la repetitio, ciò riguardava la consuetudine contraria ai canoni e al diritto spirituale43. In conclusione, secondo Bartolo il termine di dieci anni era in ogni caso sufficiente, almeno per quanto riguardava il diritto civile44. Il pensiero di Bartolo è pienamente recepito da Rebuffi, che si colloca quindi, da questo punto di vista, del tutto all’interno della tradizione di diritto co- mune quale si era andata sviluppando a partire dalla metà del Trecento. Ancora, secondo Rebuffi è necessaria una ripetizione di atti confor- mi45, ma egli non prende posizione circa il numero di tali atti, rimetten- do la decisione all’arbitrio del giudice46. Anche in questo caso, il nostro

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ARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam, cit., ad l. De quibus, Digesto, De

legibus, f. 17vA n. 9: «Quaero circa hoc, quantum tempus requiratur? glosa hic … dicit

quod requiritur tempus decem, vel viginti annorum. Hoc reprobatur per Ultramontanos quia tempus consuetudinis est uniforme, ut l. ii. C. quae sit longa consuetudo [C. 8, 52 (53), 2]. Unde dicunt alii, quod requiritur tempus cuius contrarii memoria non existit».

43 Ivi, f. 19vA n. 14: «Iohannes [scil. Bassianus] et Azo et omnes glosae dicunt,

quod sufficit spatium longi temporis scilicet x. vel xx. annorum … doctores nostri hic tenent de decem annis inter praesentes, illud quod glosa dicit, vel viginti annis inter absentes, hic non cadit. cum populus semper sit praesens, etiam si aliqui ex populo sint absentes … Canonistae videntur dicere, quod requiritur tempus xl. annorum … Sed illud in consuetudine inducenda contra canones, et iura spiritualia, sed hic contra iura civilia et temporalia».

44 Ivi, f. 17vA n. 9: «Teneas ergo, quod sufficit tempus decem annorum». 45 Ivi, p. 9 n. 41: «Tertio frequentia actuum requiritur».

46 Ibid.: «Et quot actus sint sufficientes ad inducendam consuetudinem, dicit stari

arbitrio iudicis». Sulla nozione di arbitrium e sulla sua estensione cfr. M. MECCARELLI,

Arbitrium, Un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in età di diritto comune,

giurista si riallaccia alla tradizione, o almeno a una parte di essa. Barto- lo aveva ricordato la necessità di una condotta ripetuta47, ma aveva poi anche rammentato, a fianco dell’opinione della Glossa per cui due atti erano sufficienti48, la dottrina di chi preferiva appunto rimettersi al- l’arbitrium iudicis49.

In quarto luogo, Rebuffi richiede che la consuetudine non sia priva di ratio, altrimenti non si tratta di diritto ma di corruttela, e quindi una tale norma non può essere oggetto di alcuna interpretazione estensiva o analogica50. Si tratta di un principio che viene direttamente dalla l.

Quod non ratione del titolo De legibus del Digesto (D. 1, 3, 39 [38])51. Inoltre, appare necessario che si tratti di diritto non scritto, ovvero scrit- to, ma soltanto ad probationem, come accade per le consuetudini feuda- li52. Siamo di fronte a un motivo che già conosciamo. Qui mette conto di aggiungere solo che Rebuffi, da buon canonista qual era, non manca di ricordare, anzi, di citare letteralmente ancora una volta il celebre

dictum grazianeo, secondo cui tutto il diritto è in realtà consuetudine, in

parte redatta in iscritto e che prende il nome di costituzione ovvero ius, quasi il diritto per eccellenza, e in parte non redatta e che conserva il nome generale, quello appunto di consuetudo53.

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ARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam, cit., ad l. De quibus, Digesto, De

legibus, f. 17vA n. 9: «Requiritur etiam frequentia actuum».

48 Digestum Vetus, cit., glossa «Inveterata» ad l. De quibus, Digesto, De legibus:

«Sed qualiter decennio consuetudo introducitur? Responde si bis fuerit iudicatum».

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ARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam, cit., repetitio ad l. De quibus, Digesto,

De legibus, f. 19rB n. 11: «Primo videamus quot actus requirantur, ut dicatur frequens?

et glosa videtur dicere de duobus … Alii dicunt hoc esse relinquendum arbitrio iudicis».

50 De consuetudine, loc. ult. cit., n 42: «Quarto requiritur, quod cum ratione sit

introducta, non per errorem, alias esset corruptela … quod non ratione introductum est primum, deinde consuetudine obtentum est, in aliis similibus non obtinet [D. 1, 3, 39 (38)]».

51 Cfr. nota precedente.

52 De consuetudine, loc. ult. cit., n. 43: «Quinto quod sit ius non scriptum, nisi esset

scriptum ad probationem, ut consuetudines feudorum, quae non propter hoc desinunt habere nomen consuetudinis».

53 Ibid.: «Ideo apparet quod consuetudo est partim redacta in scriptis, partim

moribus tantum utentium est reservata, quae in scriptis redacta est, constitutio sive ius vocatur: quae vero in scriptis redacta non est, generali nomine consuetudo appellatur». Quasi le stesse parole si leggono in dictum post c. 5 D. I.

Come sesto requisito della consuetudine, Rebuffi pone la necessità che essa sia ragionevole e giusta, conforme alla religione e alla disci- plina e utile alla salvezza54. Ancora una volta, l’autorità di riferimento è quella canonistica. Si tratta in particolare di una decretale di Gregorio IX dalle marcatissime radici civilistiche, e di un canone isidoriano con- fluito in Graziano55.

Da ultimo, Rebuffi chiede che la consuetudine sia conforme al dirit- to naturale, che è immutabile56. Egli ricorda il §. Sed naturalia del titolo

De iure naturali delle Istituzioni giustinianee, che effettivamente sotto-

linea il carattere fermo e immutabile delle norme di origine divino- naturale57. Peraltro, doveva avere in mente soprattutto un luogo barto- liano, ancora una volta del commento alla l. De quibus, in cui Bartolo escludeva che la consuetudine potesse abrogare il diritto naturale, a causa dell’immutabilità di quest’ultimo, allegando anch’egli un passag- gio delle Istituzioni, che doveva in realtà essere lo stesso indicato poi da Rebuffi, anche se nell’edizione giuntina stampata a Venezia nel 1570 è diventato un altro che non ha attinenza diretta alla questione58.

54 De consuetudine, loc. ult. cit., n. 44: «Sexto quod sit rationabilis et honesta. c.

finale de consuetudine [c. 11, X, I, 4], et tunc dicitur rationabilis, quando religioni

convenire, disciplinae congruere, et saluti proficere videtur. dictum c. consuetudo .i. distinctio [c. 5 D. I]».

55 Cfr. c. 11, X,

I, 4: «Licet etiam longaevae consuetudinis non sit vilis auctoritas,

non tamen est usque adeo valitura, ut vel iuri positivo debeat praeiudicium generare, nisi fuerit rationabilis et legitime sit praescripta» (si tratta in realtà di un’interpretazione di C. 8, 52 [53], 2); inoltre c. 5 D. I: «Consuetudo autem est ius quoddam moribus institutum, quod pro lege suscipitur, cum deficit lex. Nec differt, an scriptura, an ratione consistat, quoniam et legem ratio commendat. Porro si ratione lex constat, lex erit omne iam, quod ratione constiterit, dumtaxat quod religioni congruat, quod disciplinae conveniat, quod saluti proficiat. Vocatur autem consuetudo, quia in communi est usu», per cui cfr. ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiarum, cit., V, 3.

56 De consuetudine, p. 10 n. 45: «Septimo requiritur, quod non sit contra ius

naturale, alias non valeret, cum sit immutabile».

57 I. 1, 2, 11: «Sed naturalia quidem iura, quae apud omnes gentes peraeque

servantur, divina quadam providentia constituta semper firma atque immutabilia permanent».

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ARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam, cit., ad l. De quibus, Digesto, De

legibus: «Si vero est contra legem naturalem, et tunc consuetudo non potest eam tollere,