Una prima osservazione s’impone: come si è già accennato poco più sopra, Dante non sembra negare, in linea di principio, la legittimità del- la pena del bando. Ne fanno fede gli indirizzi delle epistole, in partico- lare della III, V, VI e VII, dove Dante definisce se stesso «exul inmeritus»8. Ciò che è in discussione, chiaramente, non è l’esilio come pena astratta, generale, ma l’esilio concretamente inflitto a Dante mede- simo, ovvero, implicitamente, ad altri che condividono la sua stessa condizione. È questo il caso del destinatario dell’epistola III, probabil- mente Cino da Pistoia, come la critica dantista ha da tempo concorde- mente suggerito. La lettera si rivolge a un anonimo «exulanti Pistorien- si», e si accompagna sempre con un sonetto dantesco rivolto a Cino (Io
sono stato con Amore insieme) e con quello ciniano Dante, quando per caso s’abbandona, e la probabilissima identificazione del destinatario
pistoiese con Cino da Pistoia consente, tra l’altro, di datarla con una certa precisione al 1303, anno in cui anche Cino fu colpito dal bando9.
7 Illustrium iureconsultorum imagines quae inveniri potuerunt ad vivam effigiem
expressae. Ex Musaeo Marci Mantuae Benavidii patavini iureconsulti clarissimi, Ro-
mae, Ant. Lafrerii Sequani formis, M.D.LXVI., tavola 8. Sul Mantova, cfr. C. ZENDRI,
Mantova Benavides, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, LIX, Roma, 2007,
pp. 214-220, nonché, ora, ID., Mantova Benavides, Marco Antonio, in Dizionario bio-
grafico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), II, Bologna, 2013, pp. 1261-1262.
8 Così C. V
ILLA (a c. di), DANTE ALIGHIERI, Epistole, in ID., Opere, II, cit., rispetti-
vamente pp. 1440 (Ep. III), 1446 (Ep. V), 1454 (Ep. VI), 1464 (Ep. VII).
9 Per questo episodio, e per un recentissimo profilo biografico di Cino, cfr. P. M
AF- FEI, Cino Sinibuldi da Pistoia, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX
L’autoqualificazione come exul inmeritus ritorna, come si è già ac- cennato, anche nella quinta epistola10. In questo testo, però, il motivo dell’esilio si arricchisce di sfumature. Una prima osservazione colpisce: al motivo dell’esilio, del bando incolpevole, si contrappone quello della misericordia, e della misericordia imperiale in particolare. La lettera fu scritta, come dice il testo stesso, quando già era certa la spedizione di Enrico VII. In essa Dante esalta la clemenza dell’imperatore, che userà misericordia a tutti coloro che l’imploreranno, perché è Cesare, e il suo potere, la sua maiestas deriva dal Fonte della pietà, come un fiume dal- la sua sorgente11. Questo passaggio è di notevole interesse. Giustamente la dantistica ha ricordato la probabile origine di questo luogo negli
Actus beati Silvestri accolti nella Legenda aurea di Iacopo da Varagine,
e ciò in relazione soprattutto con Monarchia II, V, 5: «Unde recte illud
scriptum est: ‘Romanum imperium de fonte nascitur pietatis’», che sembra ricordare da vicino il «dignitas romani populi de fonte nascitur pietatis» della Legenda aurea12. Mi permetto però di suggerire qui an- che un’altra possibile origine, non alternativa alla precedente, ma che forse meglio si adatta al contesto dell’epistola, che non discute, come fa invece la Monarchia, le qualità del popolo romano e del suo impero, insieme invincibile e pietoso, ma evoca l’avvento del supremo giudice, che porrà rimedio alle prevaricazioni e ai soprusi, dando a ciascuno il suo, punendo gli empi, e consegnando la vigna a nuovi agricoltori, che «fructum iustitie reddant in tempore messis», con una scoperta citazio- ne evangelica13. In questo contesto, mi piace pensare che l’espressione dantesca faccia eco a un testo liturgico, intessuto insieme di ricordi
secolo), I, cit., pp. 543B-546B: 544A. Curiosamente, sorvola su questo punto il com-
mento di Claudia Villa in DANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., pp. 1327-1329.
10 D
ANTE ALIGHIERI, Epistole, cit., pp. 1446-1453: p. 1446.
11 Epistola V, 3, ivi, p. 1448: «Sed an non miserebitur cuiquam? Ymo ignoscet
omnibus misericordiam implorantibus, cum sit Cesar et maiestas eius de Fonte defluat pietatis».
12 Cosi Claudia Villa, nel suo commento, in D
ANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., p.
1543, con rinvio a Monarchia II v 5; e così Diego Quaglioni, commentando il luogo della Monarchia appena citato (ivi, pp. 1109-1110).
13 Cfr. Matth. 21, 33-41, specialmente 41: «Malos male perdet et vineam locabit
aliis agricolis, qui reddant ei fructum temporibus suis», che curiosamente sfugge alla Villa (cfr. DANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., p. 1543).
classici e scritturali, come il Dies irae: «Rex tremendae maiestatis, / qui salvandos salvas gratis, / salva me, fons pietatis»14. Questa interpreta- zione, oltre ad adattarsi meglio al contesto della lettera dantesca, ha il pregio di riaffermare la derivazione immediata da Cristo (giudice) della
maiestas imperiale15, e di sottolineare un carattere essenziale del potere dell’imperatore: la misericordia, appunto. Da questa misericordia di- scende che, contrariamente a quanto accade con il bando che colpisce Dante stesso (e che, certamente, non deriva dall’imperatore), l’ira impe- riale non allontana mai dal sovrano qualcuno in modo definitivo, perché un sincero pentimento è sufficiente a riguadagnare al ribelle all’impera- tore il favore del suo signore, al contrario di quanto accade nel caso del bando cittadino (iniquo), che sembra non poter essere cancellato se non da un atto arbitrario della città stessa, come del resto sottolineerà, oltre quarant’anni dopo, Bartolo da Sassoferrato16.
Quello della misericordia imperiale è, in realtà, il motivo dominante di tutta la lettera. Dante vi insiste continuamente, esortando da un lato a
14 Per il testo del Dies irae cfr. C
L. BLUME SJ (hrsg. von), Analecta Hymnica Medii
Aevi, LIV, Thesauri Hymnologici Prosarium. Die Sequenzen des Thesaurus Hymnologicus H.A. Daniels und anderer Sequenzenausgaben, I.2, Liturgischen Prosen des Übergangsstiles und der zweiten Epoche insbesondere die dem Adam von Sanct Victor ausgeschriebenen aus Handschriften und Frühdrucken, neu hrsg. von Cl. Blume
SJ, H.M. Bannister MA Oxon., Leipzig, 1915, pp. 269-275, soprattutto p. 269. Per la storia di questa sequenza, essa stessa interessante, cfr. A. HEINZ, Dies irae, in Lexikon
für Theologie und Kirche, III, Freiburg-Basel-Rom-Wien, 1995, col. 219; più ampio e
ancora molto utile il saggio di P. THOMÁS, Dies irae, in Enciclopedia cattolica, IV,
Città del Vaticano, 1950, col. 1576-1577. Forse però il contributo più importante, che assegna la sequenza, con molta probabilità, a Tommaso da Celano e all’ambiente fran- cescano assisiate della prima metà del Duecento, e che sottolinea la sua diffusione nei messali francescani, a partire dalla metà del secolo XIII (era già nel Breviario di s. Chiara, terminato nel 1232), è ancora quello di M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgi-
ca, II, L’anno liturgico nella storia, nella Messa, nell’Ufficio, Milano, 20052 (rist.
anast. dell’ed. 1969), pp. 491-492.
15 Su questa origine della maiestas, sono ancora imprescindibili le osservazioni di
E.H. KANTOROWICZ, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica me-
dievale, Introduzione di A. Boureau, Torino, 1989 (ed. orig. Princeton 1957).
imitare la clemenza imperiale, e dall’altro a meritarla con altrettanta clemenza17.
D’altro canto, Dante lascia comprendere quali sono gli effetti del- l’indignazione imperiale. In un passaggio dell’Epistola V egli ricorda l’universalità del potere dell’imperatore: suoi sono i fiumi, suo il mare, sue le spiagge e le montagne (le Alpi in particolare), suoi i beni pubbli- ci e sue le leggi che vincolano i diritti dei privati: suo è tutto ciò che sta sotto il cielo18:
Nec tantum ut assurgatis exhortor, sed ut illius obstupescatis aspectum. Qui bibitis fluenta eius eiusque maria navigatis; qui calcatis arenas litorum et Alpium summitates, que sue sunt; qui publicis quibuscunque gaudetis, et res privatas vinculo sue legis, non aliter, possidetis; nolite, velut ignari, decipere vosmetipsos, tanquam sompniantes, in cordibus et dicentes: ‘Dominum non habemus’. Hortus enim eius et lacus est quod celum circuit.
Insomma, l’ira dell’imperatore potrebbe sortire l’effetto di esclude- re, di bandire i rei da tutto questo. D’altro canto, in modo solo apparen- temente paradossale, a ben vedere, sono proprio la somma potestà e quindi gli effetti sommamente escludenti dell’ira e dell’eventuale bando dell’imperatore a portare con sé, quasi di necessità, una somma cle- menza: «Huius iudicium omnem severitatem abhorret, et semper citra medium plectens, ultra medium premiando se figit»19.
Tutto ciò trova ampia conferma nella successiva Epistola VI, che è datata, con certezza, al 31 marzo 1311, ed è indirizzata ai Fiorentini
intrinseci. Anche qui troviamo l’autodesignazione di Dante come exul
17 Epistola V, 3-10, in D
ANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., pp. 1448-1452.
18 Epistola V, 7, ivi p. 1450.
19 Epistola V, 3, ivi p. 1448. Quest’idea deriva a Dante certamente dal ricordo bibli-
co di Dio lento all’ira e pronto al perdono (Psalm. 144, 8), ma non meno dalla tradizio- ne giuridica che riconosce nella pienezza della grazia dell’imperatore (e nei severi limiti posti alla sua indignazione, per converso), un tratto essenziale dell’imperialis maiestas. Si tratta di un filone di ricerca interessante, come dimostra ed esempio lo studio di S. MEZZAVILLA, «Liberalitas principis propter eius dignitatem freno non subiacet». Il
problema della concessione degli «iura regalia» nel «consilium» I.63 di Paolo di Ca- stro, Tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Tren-
inmeritus20. Ma soprattutto troviamo una interessante descrizione del compito che Dio affidò all’imperatore romano21:
Eterni pia providentia Regis, qui dum celestia sua bonitate perpetuat, infera nostra despiciendo non deserit, sacrosancto Romanorum Imperio res humanas disposuit gubernandas, ut sub tanti serenitate presidii genus mortale quiesceret, et ubique, natura poscente, civiliter degeretur.
Insomma, in qualche modo il governo imperiale si confonde con quello divino, in quanto ne deriva la propria natura provvidenziale: al- l’imperatore è stato affidato il governo dell’umanità, in vista della pace e della vita civile. Ne consegue che qualunque ribellione è ribellione non solo al diritto umano dell’imperatore, ma a quello divino, a Dio stesso, tanto da meritare la secunda mors, come Dante scrive con espressione che sarebbe piaciuta a san Francesco22. Vale a dire, che la ribellione all’imperatore merita di essere punita con l’esclusione (il bando potremmo dire) dalla vita eterna23.
20 Epistola VI, in D
ANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., p. 1454.
21 Epistola VI, 1, ibid. 22 F
RANCESCO D’ASSISI, Canticum fratris solis vel Laudes creaturarum, 12-13 (in
K. ESSER OFM, Die opuscula des hl. Franziskus von Assisi. Neue textkritische Edition,
zweite, erweiterte und verbesserte Auflage besorgt von E. Grau OFM, Grottaferrata (Romae), Editiones Collegi s. Bonaventurae ad Claras aquas, 1989, pp. 128-129: 129): «Laudato si, mi signore, per sora nostra morte corporale, / da la quale nullu homo vi- vente pò skappare. / Guai a quelli, ke morrano ne le peccata mortali: / beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, / ka la morte secunda nol farrà male»; costituito secondo criteri un po’ differenti è lo stesso testo in FRANCESCO D’ASSISI, Scritti, ed.
crit. a c. di C. Paolazzi OFM, Grottaferrata (Roma), Frati editori di Quaracchi Fonda- zione Collegio s. Bonaventura, 2009 (Spicilegium bonaventurianum, 36), p. 123: «Lau- dato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, / da la quale nullu homo vivente po’ skampare: / guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; / beati quelli ke trovarà ne le Tue santissime voluntati, / ka la morte secunda no ‘l farrà male».
23 Epistola VI, 2, in D
ANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., pp. 1454-1456: «Vos autem
divina iura et humana transgredientes, quos dira cupiditatis ingluvies paratos in omne nefas illexit, nonne terror secunde mortis exagita, ex quo, primi et soli iugum libertatis horrentes, in romani Principis, mundi regis et Dei ministri, gloriam fremuistis, atque iure prescriptionis utentes, debite subiectionis officium denegando, in rebellionis vesaniam maluistis insurgere?».
Assai simile, almeno da questo punto di vista, è l’Epistola VII. Scrit- ta a breve distanza di tempo dalla precedente, rispetto alla quale è com- plementare, si rivolge a Enrico VII, esortandolo ad affrettare la marcia verso la Toscana e Firenze, senza indugiare nella valle del Po, per sra- dicare la malerba della ribellione, che proprio in Firenze ha le sue radi- ci24. Per quanto qui interessa, ritorna l’autodefinizione di Dante come
exul inmeritus25, ma più interessante è la conclusione, in cui si preco- nizza la caduta di Firenze, fomentatrice di ribellione, e la liberazione degli esuli, con la restituzione della loro eredità, la fine dell’esilio (evo- cato con l’immagine biblica della cattività babilonese), quindi, in so- stanza, la cessazione dell’iniquo bando fiorentino26:
Eia itaque, rumpe moras, proles altera Isai, sume tibi fiduciam de oculis Domini Dei Sabaoth coram quo agis, et Goliam hunc in funda sapientie tue atque in lapide virium tuarum prosterne; quoniam in eius occasu nox et umbra timoris castra Philistinorum operiet: fugient Philistei et liberabitur Israel. Tunc hereditas nostra, quam sine intermissione deflemus ablatam, nobis erit in integrum restituta; ac quemadmodum, sacrosancte Ierusalem memores, exules in Babilone gemiscimus, ita tunc cives et respirantes in pace, confusionis miserias in gaudio recolemus.
Merita sottolineare la perfetta consapevolezza dantesca, nel ricorda- re da un lato l’esilio “babilonese”, suo e dei suoi compagni di sventura, e dall’altro, in contrapposizione, lo stato di pace e soprattutto lo status di cittadini, di cives, di cui si attendono la restituzione da parte dell’im- peratore vittorioso. In termini giuridicamente precisissimi, e che saran- no formulati compiutamente da Bartolo quarant’anni dopo, Dante sug- gerisce una definizione di bando, come privazione della cittadinanza, ma non, si badi, come si potrebbe pensare, della cittadinanza romana. Questa egli non l’ha perduta, come testimonia il suo ricorso all’impera- tore, e il suo incontro con lui che egli stesso evoca proprio in questa lettera27. Ciò che Dante spera di riavere è la pace d’Italia, certamente,
24 Epistola VII, in D
ANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., pp. 1464-1473.
25 Ivi, p. 1464. 26 Epistola VII, 8, in D
ANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., p. 1472.
come ha scritto in apertura di questa lettera28, ma per mezzo di questa pace l’altra cittadinanza, quella fiorentina, la sua eredità, come lui scri- ve, di cui è stato privato in seguito al bando29.
Tutto ciò trova conferma nell’ultima epistola che qui discuteremo, la XII. Si tratta della lettera scritta a un ignoto amico fiorentino, per spie- gare le ragioni che inducono Dante a rifiutare il ritorno a Firenze in cambio del pagamento di una somma di denaro e della sottoposizione all’umiliante rito dell’oblazione30.
Insomma, Dante potrebbe vedersi restituito lo status civitatis, con tutto ciò che ne consegue. Egli rifiuta, perché manifestamente innocente e nella consapevolezza dei suoi meriti poetici. E soprattutto, rifiuta per- ché, se accettasse, finirebbe per pagare coloro che gli hanno inferto
iniuria, quasi come fossero dei benefattori, lui che invece la loro iniuria
ha subito31:
Estne ista revocatio gratiosa qua Dantes Alagherii revocatur ad patriam, per trilustrium fere perpessus exilium? Hocne meruit innocentia manifesta quibuslibet? Hoc sudor et labor continuatus in studio? Absit a viro phylosophie domestico temeraria tantum cordis humilitas, ut more cuiusdam Cioli et aliorum infamium quasi victus ipse se patiatur offerri! Absit a viro predicante iustitiam ut perpessus iniurias, iniuriam inferentibus, velut benemerentibus, pecuniam suam solvat!
Vale la pena soffermarsi un momento sull’uso che Dante fa, in que- sto passaggio, della parola iniuria. la traduzione italiana di Claudia Vil- la, ingiustizia, in questo caso non rende compiutamente il senso del-
28 Epistola VII, 1, ivi, p. 1464: «Immensa Dei dilectione testante, relicta est nobis
pacis hereditas … At livor antiqui et implacabilis hostis, humane prosperitati semper et latenter insidians, nonnullos exheredando volentes, ob tutoris absentiam nos alios impius denudavit invitos».
29 Il carattere, almeno in certa misura, ereditario e originario della cittadinanza è
evidente anche in Paradiso XVI, 49 («la cittadinanza, ch’è or mista / di Campi, di Cer- taldo e di Fegghine / pura vediesi ne l’ultimo artista»), sebbene ciò sfugga ad A. MA- RIANI, Cittadinanza, in Enciclopedia dantesca, II, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, 19842, p. 27A. 30 Epistola XII, in D
ANTE ALIGHIERI, Opere, II, cit., pp. 1490-1493. Per l’oblazione,
si veda il commento di Claudia Villa, ivi, pp. 1563-1564.
l’espressione dantesca32. Iniuria non è termine generico, sinonimo di ingiustizia. Né d’altro canto è possibile pensare che Dante ne facesse un tale uso, posto che, dove ha voluto scrivere iustitia (due parole prima), lo ha fatto. In un caso simile, in un contesto che è intimamente e forte- mente giuridico, non è possibile non ritenere che Dante non impieghi un simile termine in senso tecnico33. Nelle Istituzioni giustinianee leg- giamo: «Generaliter iniuria dicitur omne quod non iure fit»; e ancora: «Specialiter alias contumelia, quae a contemnendo dicta est, quam Graeci u{brin appellant, alias culpa, quam Graeci ajdivkhma dicunt, sicut in lege Aquilia damnum iniuria accipitur, alias iniquitas et iniustitia, quam Graeci ajdikivan vocant». Ma soprattutto importante è quanto se- gue: «Cum enim praetor vel iudex non iure contra quem pronuntiat, iniuriam accepisse dicitur»34. E ancora35:
Iniuria autem committitur non solum, cum quis pugno puta aut fustibus caesus vel etiam verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive cuius bona quasi debitoris possessa fuerint ab eo, qui intellegebat nihil eum sibi debere, vel si quis ad infamiam alicuius libellum aut carmen scripserit composuerit ediderit dolove malo fecerit, quo quid eorum fieret.
Mi si perdoneranno, spero, queste lunghe citazioni, a fronte della lo- ro importanza. Pare quasi che in queste parole giustinianee noi trovia- mo descritta la vicenda dantesca: l’iniqua condanna, le calunnie, la con- fisca dei beni, l’infamia. Si noti, sono tutti tratti caratteristici del bando, con riferimento tanto al procedimento giudiziario quanto alla sentenza
32 Non ostante sia proprio questa l’etimologia isidoriana («iniuria est iniustitia»,
ISID., Etym., V, XXVI, 10), che sarebbe stata conosciuta e utilizzata naturalmente da
Dante, secondo V. VALENTE, Ingiuria, in Enciclopedia dantesca, III, Roma, 19842, p.
449A.
33 Non a caso, si è detto che accanto a un significato generico, Dante attribuisce al
termine iniuria anche un significato tecnicamente preciso; cfr. V. VALENTE, Ingiuria,
cit. Non si può però concordare con Vincenzo Valente allorché attribuisce questo fatto alla «conoscenza di elementi di diritto ricevuti attraverso una cultura giuridica di vasta circolazione» (ibid.). Non si tratta affatto di una conoscenza diffusa, ma di una vera sapienza giuridica, consapevole del dettato delle fonti.
34 Per questi luoghi, cfr. Inst., IV, 4, pr. 35 Inst., IV, 4, 1.
che lo concludeva. Chi scrive non sa dire, naturalmente, se Dante aves- se davvero sotto gli occhi i passi delle Istituzioni citati poc’anzi, anche se non si comprende perché non avrebbe dovuto: trattandosi delle Isti- tuzioni, non sarebbe stata nemmeno necessaria una formazione giuridi- ca molto solida, e Dante dimostrò di possedere assai più di un’infarina- tura di scienza giuridica36. E tuttavia, che le Istituzioni siano molto più di un’eco casuale, mi pare dimostrato proprio dal testo della nostra let- tera. Rifiutando la vergognosa oblazione che gli era proposta, Dante accenna alla cattiva compagnia in cui si sarebbe trovato se, contro la sua coscienza e il suo onore, avesse accettato. Era la compagnia di Cio- lo, e degli altri infami. Infami, come Dante si potrebbe dire, poiché, bandito, anche Dante lo era. E invece no: Dante è exul inmeritus, la sua innocenza è nota quibuslibet, e pertanto la sentenza di condanna emessa (edita) contro di lui, altro non è che libellum aut carmen infamante,
scriptum compositum editum dolo malo. Le Istituzioni non potrebbero
essere più adatte a descrivere la condizione giuridica di Dante, e nean- che a scolpire, seppure per contrasto, la condizione del bandito, che, se e in quanto innocente (come Dante), è exul inmeritus, ed è innocente in virtù di quelle stesse leggi imperiali che vietano al giudice di sentenzia- re iniquamente. Tali leggi, in quanto conformi non solo al ius humanum ma anche a quello divinum, sono assolutamente prevalenti sulle sciagu- rate leggi fiorentine, e anzi, portano con sé la necessità di una punizione per il giudice iniquo.