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Le diverse concezioni della responsabilità civile sottese alle varie prospettazioni

Il dibattito relativo alle funzioni del risarcimento del danno non patrimoniale è stato sicuramente indotto dalla specificità che il danno non patrimoniale presenta. Anzi, proprio le peculiari caratteristiche del danno non patrimoniale e le difficoltà che queste caratteristiche determinano in materia di risarcimento hanno fatto sì che in ordine al problema della funzione si instaurasse un dibattito che è, invece, sostanzialmente mancato in ordine alla funzione del risarcimento del danno patrimoniale. Tuttavia le varie tesi prospettate dalla dottrina si inseriscono in un più ampio dibattito che coinvolge il sistema della responsabilità extracontrattuale

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considerato nel suo complesso e sono, dunque, riconducibili a diverse concezioni della responsabilità civile.

La tesi secondo la quale il danno non patrimoniale va inteso come danno morale e il relativo risarcimento ha funzione punitivo-afflittiva è, come già detto, quella più risalente e, a ben vedere, si inserisce nell’ambito della concezione tradizionale della responsabilità civile. Secondo questa concezione la responsabilità extracontrattuale sarebbe un sistema avente carattere essenzialmente repressivo o sanzionatorio, in quanto volto a reprimere un atto colpevole, e cioè la volontaria e consapevole violazione di un comando giuridico che, al tempo stesso, si impone anche come dovere morale: quello di non far male agli altri o neminem laedere. Si presuppone, quindi, un atteggiamento psicologico biasimevole del soggetto, espresso nel requisito del dolo o della colpa, che è requisito soggettivo in quanto si tratta di un modo d’essere della volontà del soggetto. La responsabilità civile ha, dunque, un carattere etico e si fonda sulla colpa, considerata quale manifestazione patologica della volontà. Si parla, perciò, di concezione etica55 della responsabilità civile, la quale si inserisce nell’ambito del modello liberista.

E’ una concezione che ha una tradizione storica particolarmente risalente, in quanto essa affonda le sue radici nel diritto romano. Tanto per la legge delle XII Tavole, quanto per la Lex Aquilia, l’illecito era un delictum, fondato sul dolo o sulla colpa, e avente carattere penale. Questa eredità venne accolta dai codici ottocenteschi e, innanzitutto, dal code civil francese, anche se la responsabilità extracontrattuale perse, con queste codificazioni, il suo antico carattere penale, mentre l’illecito, anticamente tipizzato, venne generalizzato nel fatto colposo dell’uomo che arreca ad altri un danno.

Peraltro nelle codificazioni ottocentesche la responsabilità civile era concepita essenzialmente come un mezzo per proteggere la proprietà e per risolvere i conflitti intra-proprietari.56 L’istituto della proprietà, d’altronde, si legava agli altri due

istituti fondamentali del diritto civile, e cioè al contratto e alla responsabilità civile, in virtù della teoria della volontà, che costituiva l’elemento unificante. La proprietà,

55 C. M. Bianca, La responsabilità, in Diritto Civile, V, 2012.

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infatti, poteva essere trasferita a mezzo di contratto, concepito essenzialmente quale manifestazione di volontà del soggetto ed era protetta dalle indebite ingerenze altrui mediante la responsabilità extracontrattuale. Nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, poi, il ruolo primario che, in materia contrattuale, era svolto dalla volontà, trovava riscontro nella funzione della colpa, considerata un modo di essere – biasimevole - della volontà.

Per questa ragione i codici ottocenteschi avevano recepito, tutti, il principio “nessuna responsabilità senza colpa”, il quale rispondeva non solo a logiche giuridiche ma anche a logiche etiche: l’illecito, in quanto atto colposo, era da considerare moralmente riprovevole e sollecitava una reazione dell’ordinamento in funzione punitiva e sanzionatoria non dissimile da quella predisposta a fronte di un reato. Questo principio, che è stato riproposto dal codice del 1942, costituisce un’ulteriore espressione del dogma della volontà, cardine di tutto il sistema del diritto civile. Se solo un atto volontario dell’uomo poteva produrre l’obbligo risarcitorio e, quindi, giustificare uno spostamento patrimoniale da un soggetto – il danneggiante – a un altro soggetto – il danneggiato – ciò comporta che anche in questo contesto la volontà era concepita come criterio imprescindibile per provocare mutamenti giuridicamente rilevanti, in virtù dell’azione individuale (ma sempre consapevole e volontaria) dei soggetti. La volontà, in definitiva, sia nella sua espressione fisiologica – l’autonomia negoziale – che nella sua espressione patologica – la colpa extracontrattuale – era il solo tramite con il quale l’ordinamento collegava effetti giuridici all’azione di un soggetto: l’efficacia contrattuale ovvero la responsabilità aquiliana57.

Questa totale coincidenza tra colpa e illecito, tra l’altro, comportava un’ulteriore conseguenza: la colpa, come manifestazione patologica della volontà, costituiva il criterio di selezione degli interessi da tutelare e, quindi, dei danni risarcibili. Di conseguenza l’attenzione dell’ordinamento era rivolta principalmente al comportamento dell’agente, dato che la sua condotta volontaria e consapevole, in quanto illecita, diventava fonte di danno. La responsabilità civile finiva, così, per

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configurarsi nel suo complesso come sistema sanzionatorio volto a punire l’azione colpevole mediante la condanna al risarcimento. E, a tal fine, era imprescindibile un’analisi dell’azione del danneggiante in tutti gli aspetti psicologici e soggettivi. Questo modo di concepire la responsabilità civile, evidentemente, ha avuto i suoi riflessi anche sulla configurazione del risarcimento del danno non patrimoniale. Innanzitutto, l’idea secondo la quale la responsabilità civile avrebbe dovuto risolvere solamente i conflitti intra-proprietari si ricollega alla concezione paneconomica del diritto privato, quale sistema predisposto a tutela di interessi di carattere patrimoniale, e spiega la marginalità di quegli interessi che non trovavano la loro base nel patrimonio del soggetto. Gli interessi non economici erano tendenzialmente irrilevanti e, di conseguenza, anche i danni non patrimoniali, identificabili esclusivamente con il c.d. danno morale, erano risarcibili in casi del tutto eccezionali che richiedevano sempre una previa valutazione legislativa. Anzi, gli interessi non economici del soggetto avrebbero dovuto trovare tutela essenzialmente nell’ambito del diritto penale e, di conseguenza, solo nei casi di reato poteva ammettersi il risarcimento del danno morale, inteso quale sofferenza cagionata dal reo. Proprio il carattere etico della responsabilità civile faceva sì che, a maggior ragione nel caso di reato e, quindi, a fronte della lesione di valori sociali di rilevanza pubblica, il risarcimento assolvesse una funzione punitiva nei confronti dell’autore dell’illecito. A tal fine si doveva necessariamente tener conto della colpa del soggetto agente o più in generale dell’elemento soggettivo dell’illecito, anche per la determinazione del quantum risarcitorio, dato che la repressione attuata con la condanna al risarcimento non avrebbe potuto esplicare effettivamente la sua efficacia sanzionatoria se non avesse colpito la volontà del soggetto nella sua manifestazione patologica.

Nonostante parte della dottrina sia rimasta legata alla concezione etica della responsabilità civile e questa abbia continuato ad esplicare la sua influenza, il modello liberista già verso la fine del XIX secolo cominciò ad entrare in crisi. E questa crisi fu parallela alla perdita di centralità dello schema proprietario

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tradizionale.58 Il principio cardine “nessuna responsabilità senza colpa”, infatti,

riduceva notevolmente l’area del danno risarcibile, poiché non consentiva il risarcimento di quei danni che appaiono anonimi e inevitabili, come quelli che si verificano senza che sia configurabile alcuna leggerezza nella condotta del danneggiante e, dunque, senza che a quest’ultimo possa rimproverarsi alcunché. In questi casi il pregiudizio veniva lasciato “là dove era caduto”. Poiché i danni causati dallo sviluppo industriale sono, per la maggior parte, anonimi o incolpevoli, ciò comportava che restavano irrisarciti i danni che non erano riconducibili ad un conflitto interno tra diversi proprietari. In sostanza, il fenomeno della massificazione dei danni, e cioè del moltiplicarsi della cause e delle occasioni di pregiudizio a seguito del moltiplicarsi delle prestazioni, dei prodotti e delle attività rischiose che coinvolgono il grosso pubblico, rendeva inadeguato il principio della responsabilità per colpa, in quanto proprio l’impossibilità di provare la colpa di un responsabile (e quindi l’impossibilità di provare che il danno era riconducibile ad un comportamento biasimevole di un determinato soggetto) lasciava le vittime prive di risarcimento59.

Al contempo, una parte della dottrina ha rilevato come la logica liberistica secondo la quale il danno dev’essere lasciato là dove cade ha finito col garantire una sorta di immunità alla borghesia imprenditoriale in ascesa. Queste critiche, che sono condivise dalla gran parte della dottrina più recente, hanno anche svelato il sistema individualistico sotteso al principio della responsabilità per colpa e l’inidoneità di quest’ultima, nella sua accezione psicologico-morale, a regolare tutte le svariate ipotesi di danno. Anzi, proprio la concezione della colpa mutuata dalla morale, che portava a delineare la responsabilità civile quale sistema essenzialmente sanzionatorio, si è rivelata essere un fragile mezzo di prevenzione dei sinistri e degli illeciti, quando hanno cominciato a diffondersi sinistri svincolati da una condotta riprovevole. Accanto alla funzione repressiva della responsabilità civile, è stata così individuata una ulteriore funzione riparatoria volta ad assicurare il ripristino del

58 S. Rodotà, Modelli e funzioni della responsabilità civile, in Rivista critica del diritto privato, 1984. 59 C. M. Bianca, La responsabilità, in Diritto Civile, V, 2012.

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patrimonio del danneggiato a prescindere dal fatto che la sua consistenza fosse stata ridotta in conseguenza di un atto colpevole.

Questo processo ha trovato una prima tappa fondamentale nel codice civile del 1942, il quale, pur non abbandonando il principio della responsabilità per colpa, ha individuato diverse ipotesi di responsabilità oggettiva e, cioè, diverse ipotesi di responsabilità che prescindono dalla colpa del danneggiante. Inoltre con il codice si sancisce il passaggio definitivo da una società agricola ad una società industriale, fondata non più sulla proprietà, bensì sull’impresa e quindi sulla circolazione della ricchezza. In una società basata essenzialmente sull’impresa, la proprietà perde il ruolo centrale nell’ambito del sistema civilistico, con la conseguenza che la responsabilità civile non può più concepirsi come lo strumento per regolare i conflitti tra proprietari. Anche grazie all’inserimento del requisito dell’ingiustizia del danno, che mancava nel codice civile del 1865, la responsabilità civile è diventata una struttura aperta, capace di regolare i contrasti tra molteplici interessi e di recepire nuove istanze promananti dallo sviluppo storico-sociale al fine di adeguare costantemente il dato normativo al quadro di riferimento fattuale. Si è così avuto un progressivo spostamento di attenzione dall’autore del fatto alla vittima, con l’utilizzo della clausola generale di ingiustizia per la tutela di interessi diversi rispetto a quelli proprietari. Queste due tendenze sono state notevolmente alimentate dal processo di socializzazione degli istituti cardine del diritto privato avviato dalla Costituzione, la quale, recependo le istanze del welfare State, ha avuto i suoi riflessi anche sul modo di concepire la responsabilità civile.

L’abbandono del modello liberista ha influito anche sulle tesi prospettate in materia di risarcimento del danno non patrimoniale. Nonostante una larga parte della dottrina sia rimasta legata alla tesi della funzione punitivo-afflittiva del risarcimento, altra parte della dottrina ha cercato di individuare una funzione unitaria del risarcimento del danno, sia esso patrimoniale che non patrimoniale, anche in considerazione dell’abbandono dell’idea della responsabilità civile come sistema essenzialmente sanzionatorio. La concezione unitaria della responsabilità civile si rifletterebbe, dunque, sulla funzione unitaria del risarcimento e questa non

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potrebbe che essere una funzione riparatoria, sia in considerazione della “laicizzazione” della responsabilità aquiliana, la quale avrebbe perso i suoi connotati morali, che in considerazione della concezione oggettiva della colpa, da intendersi oramai non più come modo di essere biasimevole della volontà, ma come deviazione dai parametri oggettivi e standardizzati di diligenza.

D’altronde l’abbandono della colpa come criterio di selezione dei danni risarcibili ha consentito l’ampliamento dell’area del risarcimento. Ed infatti la norma cardine in materia di responsabilità civile utilizza quale criterio per la selezione dei danni risarcibili una clausola generale, la clausola di ingiustizia del danno, la quale, come tutte le clausole generali, permette di recepire anche istanze di carattere metagiuridico. L’interpretazione che il giudice dà della clausola permette di accogliere, in modo elastico, principi morali e politici derivanti dalla coscienza sociale del momento e di tradurli in regola positiva idonea a risolvere il conflitto tra danneggiante e danneggiato. E’ stata proprio questa attività interpretativa svolta dalla giurisprudenza sulla clausola di ingiustizia che, insieme allo spostamento di attenzione dall’autore del fatto alla vittima, ha allargato l’area del risarcimento al di là del danno arrecato a diritti soggettivi assoluti e, in una seconda fase, anche al di là del danno arrecato al patrimonio. L’aumento delle occasioni di danno e la centralità che la persona ha nel sistema costituzionale hanno, infatti, indotto la giurisprudenza a dare rilievo anche al danno alla persona. E se, in un primo tempo, la concezione paneconomica del diritto privato aveva indotto i giudici a quantificare il danno alla persona mediante la considerazione del guadagno che ad essa veniva a mancare e, quindi, come perdita della capacità lavorativa, in un secondo momento non solo è stato preso in considerazione il danno alla persona in quanto tale, come lesione dell’integrità psico-fisica, ma addirittura si è dato rilievo a quei profili relazionali in cui si esplica la personalità dell’uomo e che vengono ad essere pregiudicati dall’illecito.

Si è, in sostanza, dato sempre maggiore rilievo ai precetti costituzionali e, quindi, non solo all’art. 32, ma anche agli artt. 2 e 3. Addirittura una parte della dottrina aveva proposto di interpretare la clausola di ingiustizia alla luce del principio di

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solidarietà di cui all’art. 2 Cost.60 Sebbene questa tesi non sia stata accolta per la

sua indeterminatezza, si è parlato comunque di funzione solidaristica del risarcimento il quale mirerebbe ad assicurare al danneggiato la possibilità di crearsi condizioni sostitutive a quelle pregiudicate dall’illecito, proprio nell’ottica della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e, quindi, nell’ottica dell’attuazione concreta dei principi costituzionali.

Le diverse tesi prospettate in ordine alla funzione del risarcimento del danno non patrimoniale, dunque, si inseriscono in un più ampio dibattito circa il modo di concepire il sistema della responsabilità extracontrattuale nel suo complesso. Ed è evidente che queste diverse concezioni, oramai, non possono non confrontarsi con i principi dell’ordinamento costituzionale.

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